08 gennaio 2013

Guido Baldi, Centralità del testo o centralità del lettore?

L’insegnamento della letteratura nelle superiori
di Guido Baldi

C’è stato un periodo, negli anni della voga strutturalista, in cui nella didattica della letteratura la parola d’ordine era la "centralità del testo" (intesa generalmente, tra l’altro, come lettura del tutto "immanente", che escludeva il legame con ogni realtà extratestuale); poi, quando sono venute in auge l’ermeneutica e la teoria della ricezione, si è verificato uno spostamento verso la "centralità del lettore", vale a dire lo studente. Ma mi sembra evidente che le due opzioni non sono in alternativa, anzi: verrebbe da dire, con Manzoni, che «son due cose come le gambe, che due vanno meglio d’una sola». Per lungo tempo la pratica più diffusa nell’insegnamento della letteratura italiana nel triennio delle superiori si è fondata sul manuale di storia letteraria: l’insegnante risolveva tutto il suo lavoro nello spiegare in base al manuale le grandi epoche della storia culturale, gli autori maggiori, più tutta l’infinita serie dei minori, elencati puntigliosamente nel volume come puri nomi o quasi, sul modello della guida telefonica. La lettura diretta dei testi in classe, con il loro commento e la loro analisi critica, in uno scambio dialogico tra insegnante e allievi, salvo lodevoli eccezioni non rientrava in questo esercizio didattico, o vi occupava un posto marginale: nel migliore dei casi era un’operazione che si faceva dopo, di sfuggita, frettolosamente, solo per esemplificare ciò che si era enunciato in termini generali (e generici), nel peggiore era affidata agli studenti stessi, a casa. Tanto meno il testo era al centro dell’attenzione al momento della verifica dell’apprendimento: gli studenti erano tenuti a riferire diligentemente ciò che degli scrittori dicevano Momigliano o Sapegno o chi per essi, dovevano semplicemente dimostrare di avere assimilato i grandi concetti, le "sintesi storiche", i "problemi generali", e di saperli ripetere a puntino, come li aveva illustrati il manuale; non veniva loro chiesto di dimostrare la capacità di capire un testo, di analizzarlo criticamente, di scomporlo nei suoi elementi costitutivi, di dimostrare quanto quel testo del passato parlasse ancora alla loro esperienza e alla loro sensibilità. Il tutto come se la letteratura non fosse costituita da ciò che gli autori hanno scritto, sonetti, poemi, romanzi, tragedie, ma si riducesse interamente al metadiscorso del manuale, e i testi fossero un’appendice tutto sommato superflua, di cui liberarsi rapidamente, persino con un po’ di fastidio. Grazie a questa impostazione didattica si dava il paradosso per cui il discente non era tenuto ad avere un rapporto diretto con l’oggetto di indagine, ma si limitava a ripetere quanto era sostenuto da un’auctoritas: come nel Medioevo. Come se si studiasse la botanica senza mai vedere una pianta, la mineralogia senza vedere una roccia, la chimica senza assistere a una reazione (cosa che peraltro nella scuola avviene ancora comunemente). Ciò che l’insegnante spiegava non era suscettibile di verifica, il che si risolveva in una didattica fondamentalmente autoritaria e dogmatica: l’insegnante trasmetteva le sue interpretazioni e le sue valutazioni, in base ai suoi gusti e ai suoi orientamenti ideologici, e lo studente non poteva che accettare ciò che proveniva dall’auctoritas, perché non aveva né lo spazio né tanto meno gli strumenti per verificare, eventualmente correggere e contestare i suoi giudizi, contrapporre a essi giudizi propri con qualche fondamento. Ciò comportava negli allievi un atteggiamento passivo, la ripetizione acritica di un pensiero altrui, ed escludeva la riflessione personale come il coinvolgimento emotivo; tanto meno gli studenti acquisivano abilità da poter riprodurre in altri momenti e su altri oggetti (che poi i più interessati e vocati alle lettere si leggessero i testi per conto loro costituiva un fatto personale, non generalizzato). Era questa la scuola che ho frequentato io, alla fine degli anni cinquanta, e anche quella che ho conosciuto iniziando la carriera dell’insegnamento, alla metà degli anni sessanta, ma, a quanto mi suggerisce la mia esperienza, non si può dire che tale pratica sia del tutto scomparsa dalla scuola di oggi, e non solo tra gli insegnanti più anziani, ma anche tra le leve più giovani; anzi mi sembra che vi sia una diffusa regressione a metodi superati: ci sono vischiosità della routine difficili da vincere, anche nei ricambi generazionali; inoltre leggere davvero tutti i testi con gli studenti, analizzarli minutamente con loro, esige molto tempo, e il tempo degli insegnanti è sempre troppo poco, i programmi da svolgere incalzano, urgono compiti in classe e interrogazioni, specie ora che il numero di allievi per classe è tornato di nuovo a salire oltre i livelli di guardia (e di decenza). La sintesi del manuale di storia della letteratura è il toccasana, risolve molti problemi, insieme ai quiz con le crocette per le verifiche dell’apprendimento (su cui mi soffermerò più avanti). Ma se il cedimento è comprensibile, non è tuttavia accettabile: il prezzo da pagare è troppo alto, ciò che si perde è ciò che dà senso alla didattica della letteratura e alla funzione della scuola. Meglio quindi abbandonare la pretesa di trasmettere un panorama esaustivo delle patrie lettere, attraverso la scorciatoia del manuale (peraltro le nuove indicazioni ministeriali sui programmi lo consentono, poiché suggeriscono di selezionare «i momenti più rilevanti della civiltà letteraria [...] sottraendosi alla tentazione di un generico enciclopedismo»), rinunciare alla quantità per puntare sulla qualità, scegliere un numero limitato di testi campione altamente significativi, di tutti gli autori maggiori e di qualche minore, dal cui esame diretto, compiuto in classe, ricostruire le linee dello svolgimento storico della letteratura, profili di generi, percorsi tematici, tendenze formali: solo tale scelta permetterà di soffermarsi con l’agio necessario sulla lettura dei testi; e solo lavorando sui testi con gli allievi, trasformando la classe in una comunità interpretante, si potrà evitare la trasmissione dogmatica e autoritaria di nozioni, la riduzione del discente a mero recipiente di informazioni assorbite in modo acritico, e al contrario si potrà renderlo soggetto attivo di apprendimento, che partecipa a uno scambio di idee, elabora interpretazioni e giudizi propri, li confronta con quelli degli altri, dell’insegnante come dei compagni, impara ad argomentare le proprie posizioni, a criticare e a smontare quelle degli interlocutori, ma sempre rispettandole. Da tutto questo processo può scaturire quello che è il fine precipuo della scuola, la formazione dello spirito critico, di individui capaci di ragionare con la propria testa senza assorbire passivamente ciò che si legge o si sente dire, e al tempo stesso di praticare la tolleranza e il rispetto dell’altro (tutte cose di cui mai come oggi si avverte il bisogno, con il trionfo della manipolazione dei media, in gran parte concentrati nelle mani di uno solo, e la diffusione degli impulsi più incivilmente intolleranti verso ogni forma di diversità).
Al tempo stesso porre al centro della didattica la lettura dei testi, come base di un dialogo intersoggettivo, consente anche l’attualizzazione delle opere letterarie del passato: il rapporto diretto con esse, in uno scambio dialogico con altre sensibilità, permette al discente di non vederle come entità remote ed estranee ma, pur senza anacronismi arbitrari, solo dopo una loro collocazione entro le necessarie coordinate storiche, di scoprire in esse ciò che hanno ancora da dire a lui oggi. Su tutti questi temi Luperini ha scritto pagine che sono ormai un punto fermo, a cui è indispensabile fare riferimento [1]. È evidente quindi come centralità del testo e centralità del lettore nella didattica della letteratura non siano in alternativa, ma siano due facce della stessa realtà, due pratiche che non possono stare l’una senza l’altra. Se l’attualizzazione è essenziale perché l’insegnamento non sia una pratica inerte e arida, d’altro lato, proprio perché la letteratura nella scuola possa esercitare la sua funzione educatrice e dunque "civile" è necessario che la centralità del testo non significhi una lettura del tutto immanente, come pretendeva l’ortodossia strutturalista, ma si allarghi alla prospettiva storica. Nell’insegnamento letterario la nostra tradizione scolastica, a differenza di quella di altri paesi, è fondata sull’impostazione storica, ed è un valore che non va considerato obsoleto. È importante fare ancora storia della letteratura, intesa come storia della cultura e della civiltà (sia pure nei modi visti, non meramente manualistici).
In primo luogo, come ha ben messo in rilievo Serianni, la letteratura contribuisce a mantenere «la memoria storica di una comunità; un ufficio, questo, tanto più forte in Italia, data la ben nota labilità della coesione nazionale [...]. La letteratura, a cui si deve la percezione di una continuità attraverso la frammentazione geopolitica così caratteristica della storia italiana, dà senso per l’appunto al nostro stare insieme, nonostante tutto» [2]; aggiungerei, a maggior ragione di questi tempi, quando vediamo in azione pericolose spinte disgregatrici della compagine del paese. In secondo luogo la prospettiva storica nell’insegnamento letterario è imprescindibile perché oggi i giovani vivono appiattiti in un fittizio presente, senza alcuna consapevolezza dello spessore storico, e il passato è per loro una nebulosa confusa, al massimo repertorio di finzioni evasive, non collocabili in alcuna precisa dimensione cronologica: colpisce infatti sistematicamente, nel corso degli esami, l’incapacità di gran parte degli studenti di collocare opere ed eventi della letteratura, come della storia politica, sociale ed economica, in un contesto storico anche solo approssimativo, persino per epoche non remote nel tempo. Questo vivere solo nel presente, senza profondità storica (sarebbe troppo complesso e problematico qui cercarne le cause, cioè aprire un discorso sulla postmodernità) è pericoloso: innanzitutto perché priva della consapevolezza delle radici, impedisce di rendersi conto di come nel passato vi siano i presupposti da cui si è sviluppata la realtà in cui viviamo oggi. Per contro assumere coscienza di questa continuità mediante la lettura di testi letterari del passato, cogliere attraverso di essi le origini dei nostri modi di pensare e di vivere consente di capire gli aspetti essenziali del presente, dà fondamenti più solidi alla propria individualità, le garantisce un più ampio giro di orizzonti, e di conseguenza è indispensabile per l’inserimento in forma matura dei giovani nella comunità civile. Inoltre l’appiattimento è pericoloso perché, oltre a privare del passato, priva anche del futuro: radica infatti l’idea che il presente sia l’unica realtà possibile, senza alternative, e questo porta all’accettazione passiva dell’esistente. È necessario quindi che il giovane assuma coscienza della dinamicità della storia, del fatto che infiniti cambiamenti l’hanno percorsa, e perciò il cambiamento è sempre possibile. A tal fine diviene allora importante capire che il passato non è solo la preistoria del presente, è anche per tanti aspetti una realtà profondamente diversa, non commensurabile a esso. La letteratura, con la capacità attrattiva che è dei grandi testi, può essere per il giovane un ottimo veicolo per immergersi in mentalità, modi di pensare e di vivere, sistemi di valori e parametri di interpretazione del mondo diversi da quelli a cui è abituato a riferirsi, come se entrasse in contatto con una civiltà antropologicamente altra, e attraverso il confronto con il diverso può indurlo a rendersi conto di come la realtà non sia statica ma in perpetuo divenire e produca continuamente forme peculiari di società e di pensiero. E solo grazie alla coscienza della diversità del passato, quindi del divenire storico e della possibilità del cambiamento, nella convivenza civile può assumere una funzione dinamica, può essere non solo zavorra conservatrice e frenante ma proiettarsi con un progetto verso il futuro. Infine, cosa egualmente importante, attraverso questa conoscenza del diverso il giovane può imparare a non respingerlo con paura e diffidenza, ma ad accettarlo nella sua ricchezza in tutte le situazioni, anche e soprattutto al di fuori dell’esperienza letteraria, nella sua vita quotidiana: ed è un altro fattore fondamentale per la sua maturazione civile. Certo la letteratura non è solo documento, ma anche questo suo aspetto va valorizzato, senza paura di fare dei testi un uso eteronomo. Una volta fissati questi principi, occorre vedere quali sono le difficoltà che si presentano in concreto quando si cerca di metterli in pratica nella didattica quotidiana. Molte critiche si levano sugli strumenti manualistici oggi in uso, le antologie: si obietta che è operazione scorretta e deleteria fare a brani opere vaste e organiche, poemi, romanzi, raccolte unitarie di liriche, testi drammatici, trattati, di cui va così perduta, agli occhi del discente, la struttura complessiva, e si propone in alternativa all’antologia la lettura di opere complete. La critica è indubbiamente fondata e l’esigenza di una lettura non frammentaria è giusta e sottoscrivibile: ma è l’attuazione che è problematica. L’ostacolo principale è che agli studenti sarebbe possibile proporre la lettura completa solo di opere contemporanee (e già con forti limitazioni: sarebbero comunque fuori portata raccolte poetiche come Alcyone, i Poemi conviviali, Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, senza contare capolavori narrativi assoluti come La cognizione del dolore e il Pasticciaccio). Tutta la grande tradizione dei nostri classici sarebbe inavvicinabile, Canzoniere, Decameron, Orlando furioso, Principe e Discorsi, Gerusalemme liberata sarebbero illeggibili nella loro interezza dagli studenti di oggi. Quando ero al liceo la lettura integrale di queste opere era normale e veniva imposta abitualmente dagli insegnanti: ma noi eravamo in grado di padroneggiare la lingua letteraria, sapere il significato di "speme", "alma", "crini", "brando", "usbergo", "guiderdone", perché già alle medie avevamo letto l’Iliade di Monti e l’Odissea di Pindemonte, in quarta ginnasio l’Eneide del Caro, senza contare che nel ginnasio le letture antologiche partivano dal Cantico di san Francesco e proseguivano per tutto l’arco della storia letteraria sino al Novecento, con ampi brani proprio dei grandi classici e con testi poetici spesso da studiare a memoria. Lo studente di oggi non ha più alle spalle un percorso del genere (senza contare la decadenza del latino, che rende problematico anche nei licei capire i latinismi): di conseguenza la lingua letteraria italiana, che è lontanissima dalla lingua comune, gli è ignota e incomprensibile come e forse più di una lingua straniera, e per lui affrontare la lettura completa del Decameron o dell’Orlando furioso è un’impresa impraticabile. Persino Leopardi è quasi illeggibile (ne ho fatto più volte l’esperienza agli esami), e non solo il poeta difficile delle canzoni o della Ginestra, ma quello degli idilli: «molcea il core», «sempiterni calli», «german di giovinezza» suonano per i nostri studenti come formule misteriose. Ma addirittura a un esame per le borse di dottorato mi è capitato di trovare numerosi candidati che, al verso 12 del sonetto petrarchesco La vita fugge, e non s’arresta un’ora, non sono stati in grado di intendere correttamente l’espressione «veggio fortuna in porto» e hanno interpretato «fortuna» nel significato corrente, travisando gravemente il senso di tutto il componimento. Ciò non significa rimpiangere la scuola d’antan, dove a quel percorso di guerra sopravvivevano darwinianamente solo i più forti e i più adatti all’ambiente, con uno sperpero incredibile di risorse umane: però è impossibile non riconoscere che un patrimonio di conoscenze è andato perduto. Occorre fermare la riflessione su questo: uno straordinario patrimonio culturale che diventa inaccessibile alla grande maggioranza della popolazione italiana, anche a quella fornita di titoli di studio superiori, è una catastrofe di proporzioni immani, come se Al Qaeda avesse fatto saltare in aria San Marco a Venezia, o San Pietro a Roma. Non si tratta di catastrofismo sterile: una diagnosi esatta del male è indispensabile per cercare rimedi (che però francamente non vedo facile trovare). Quindi, tirando le somme, se davvero si impostasse l’insegnamento della letteratura italiana solo sulla lettura di opere complete, una gran parte della nostra tradizione letteraria resterebbe del tutto ignorata [3] (e magari, per ovviare in qualche modo alla lacuna culturale, ciò porterebbe a tornare allo studio puramente manualistico: col che, invece di progredire, si farebbe un bel passo indietro).
Per ovviare a questa illeggibilità del nostro patrimonio letterario si è cominciato a proporre i classici "tradotti" in italiano moderno: rimedio che ci sembra peggiore del male, e del tutto inaccettabile. Occorre sottolineare con fermezza che leggendo un Decameron "tradotto" lo studente non leggerebbe il Decameron, per il semplice fatto che i significati dell’opera passano in prima istanza attraverso le scelte stilistiche, che naturalmente andrebbero perdute nella "traduzione". Si pensi solo alla vividezza insostituibile di certo lessico decameroniano (il primo esempio che mi viene in mente: Guccio Imbratta «tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidiente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato»), o a come nell’architettura complessa della sintassi boccacciana si rispecchi una visione del mondo, che diverrebbe inattingibile se si spezzasse l’ipotassi in una moderna paratassi (per converso, se si rispettasse la sintassi originaria, il testo rimarrebbe illeggibile: si veda a riscontro l’esempio, citato da Serianni [4], del Cortegiano "tradotto" da Quondam). E si parla di traduzioni fedeli, quindi non si prendono nemmeno in considerazione adattamenti alla Busi, che tradiscono radicalmente il senso profondo dell’opera. Ma a maggior ragione sparirebbe l’Orlando furioso in una "traduzione", che dovrebbe essere necessariamente in prosa, in cui verrebbe meno il primo elemento significante del poema, la sua ottava (non vorrei insistere su cose ovvie). Non resta allora che ripiegare sul male minore, rassegnarsi a fare a brani le grandi opere, per poterne offrire alla lettura degli studenti dei campioni dotati di tutto quell’apparato di spiegazioni che consente loro di superare gli scogli linguistici (e non solo, anche quelli concettuali, retorici, i riferimenti dotti, mitologici, storici ecc.). C’è da dire che i nuovi programmi non aiutano certo una campionatura soddisfacente, poiché comprimono in soli due anni la lettura di quasi tutti i più grandi autori della nostra tradizione, da Petrarca a Manzoni (e comunque sottrarre Leopardi al suo contesto per spingerlo verso il Novecento non è operazione corretta dal punto di vista critico né praticabile dal punto di vista didattico, perché recide i legami con tutta la cultura romantica e illuministica, che offre le indispensabili coordinate di riferimento per comprendere il poeta). In questi programmi è sottoscrivibile l’intento di valorizzare un secolo ormai compiuto come il Novecento, ma bisogna essere consapevoli che il prezzo da pagare è molto alto, perché per dare spazio alla contemporaneità si declassano gli autori grazie a cui la cultura italiana conta veramente nella cultura mondiale. Ma qui è facile ipotizzare che soccorrerà l’inerzia del sistema: pochi insegnanti riusciranno davvero ad arrivare a Manzoni nella penultima classe, quindi i grandi classici conserveranno a dispetto dei programmi il loro spazio tradizionale; e a soffrirne, come sempre, sarà il Novecento (a meno che, per partire da Leopardi e dalla letteratura postunitaria nell’ultimo anno, non si trascurino del tutto Ariosto, Machiavelli o Tasso: la coperta è sempre troppo corta). Se solo la lettura diretta in classe dei testi consente di porre al centro della didattica lo studente, oltre che i testi stessi, sorge il problema della validità delle interpretazioni proposte dai discenti nello scambio dialogico con l’insegnante e con i compagni. È importante che ognuno abbia la possibilità di esprimere il proprio orientamento: il valore formativo del dialogo consiste anche nell’educare alla capacità di ascoltare gli altri e alla tolleranza delle posizioni diverse, quindi nessun intervento deve essere zittito o dileggiato dall’insegnante o dai compagni come ingenuo o stravagante. Però è parimenti antieducativo lasciar passare l’idea che tutte le interpretazioni siano egualmente valide (magari sotto l’alibi di un orecchiato decostruzionismo e in nome della «deriva del senso»). È vero che l’interpretazione del testo letterario non è né può essere una scienza esatta (ammesso che scienze esatte esistano), ma di qui all’arbitrio puro corre una distanza incommensurabile: lo studente deve comunque imparare che una tesi va fondata su basi d’appoggio rigorose, rinvenute nel campo del testo e in quello extratestuale, e va argomentata logicamente, con coerenza; deve cioè imparare a riconoscere come certe interpretazioni siano falsificabili e deve attrezzarsi a vagliare la sostenibilità delle varie affermazioni, a trovare gli elementi che eventualmente le possano denunciare come insostenibili. Anche questo è importante nella sua formazione non solo intellettuale ma civile, nell’acquisizione dello spirito critico, da non applicare solo ai testi letterari ma a tutta la massa di messaggi che la civiltà odierna riversa su di lui.
E qui entrano in gioco gli strumenti dell’analisi. C’è stato un periodo in cui gli strumenti di tipo formale e semiotico sembravano dover garantire l’assoluta validità scientifica dell’indagine, anche nella pratica didattica, come era testimoniato da vari testi scolastici. Ora questo mito si è fortemente appannato; anzi, è ormai luogo comune scagliarsi contro le analisi formali, che spegnerebbero il "piacere del testo", trasformando la lettura in un procedimento meccanico e arido, che respingerebbe i giovani dalle opere letterarie. Questo è indubbiamente vero nel caso di applicazioni estremistiche, quali si sono effettivamente registrate in anni passati sia nei manuali sia nella pratica quotidiana degli insegnanti, in cui lo strumento tecnico diveniva il fine e il testo era degradato a semplice mezzo per la sua acquisizione e il suo esercizio [5]; però è da respingere l’idea che l’uso di strumenti d’analisi più sofisticati uccida necessariamente il piacere della lettura. Il segreto è il dosaggio: anche i farmaci presi a dosi eccessive nuocciono o addirittura uccidono (phármakon in fondo vuoi dire veleno), ma assunti nelle dosi giuste giovano e guariscono. Se Io studente assimila alcune tecniche essenziali di analisi, in modo tale che gli venga spontaneo applicarle nel momento in cui legge, arriverà a una comprensione più ricca e profonda del testo e ciò, lungi dal respingerlo, aumenterà il piacere della sua lettura. Un esempio autobiografico: sono un appassionato cinefilo, ma quando mi è capitato di sentire belle e rigorose analisi di aspetti tecnici del linguaggio cinematografico da parte di colleghi specialisti, ho scoperto tanti aspetti di film visti che mi erano sfuggiti, e il mio piacere al rivederli è aumentato di gran lunga. Si potrà obiettare che il mio caso, per esperienza e cultura, è diverso da quello di uno studente diciassettenne, però ho constatato per verifica diretta, quando insegnavo al liceo, che gli studenti si appassionavano ad analoghe lezioni tenute in classe da bravi docenti di cinema. L’importante dunque è trovare la misura giusta degli strumenti tecnici di lettura da fare assimilare. Ad esempio se uno studente impara a individuare la voce narrativa e le sue caratteristiche e a determinare qual è il punto di vista che orienta la narrazione, tanto da arrivare ad applicare naturalmente queste tecniche mentre legge un romanzo o un racconto, non si tratta certo di una pratica che inaridisca e scoraggi la sua lettura, ma che al contrario gli consente di cogliere più nel profondo le strutture e i significati del testo e quindi contribuisce ad aumentare il piacere provato, facilitando così anche la scoperta del senso che quel testo può avere per lui, nel suo vissuto personale. Le tecniche devono insomma essere non un fine, come spesso avveniva nelle pratiche didattiche di un tempo, ma semplicemente un mezzo.
Una volta sgombrato il campo dal pregiudizio contro gli strumenti d’analisi rigorosi, si possono sottolineare gli aspetti positivi del loro uso. Se la didattica di impianto meramente manualistico è in sostanza autoritaria e dogmatica e riduce lo studente a un ruolo passivo e acritico, l’impiego di strumenti formali, filologici, semiotici e narratologici comporta invece operazioni verificabili e riproducibili, che consentono l’esercizio dello spirito critico [6]. Insegnanti e studenti si misurano con il concreto oggetto di indagine, il testo, con strumenti comuni a entrambi e in base a regole del gioco chiare e definite preventivamente. Lo studente non è più costretto ad accettare passivamente tutto ciò che gli viene detto ex cathedra, ma ha modo di verificarne la validità perché possiede alcuni strumenti per farlo: può ad esempio appurare se fabula e intreccio coincidano, se il narratore sia onnisciente e attendibile o inattendibile, se vi siano restrizioni di campo sul punto di vista parziale di un personaggio e quali effetti esse producano. Può così assumere un atteggiamento attivo e critico, arrivare a formarsi convinzioni proprie e fondate, da contrapporre eventualmente alle interpretazioni del docente, e l’insegnamento può trasformarsi da monologo in dialogo, lo studio da ripetizione in ricerca e scoperta. È evidente allora la valenza democratica dell’uso di quegli strumenti [7]. Non solo, ma lo studente acquisisce specifiche abilità di analisi e di decodificazione da applicare poi su altri testi in altre occasioni, impara che dinanzi alle opere letterarie non ci si deve limitare a impressioni soggettive, a suggestioni ineffabili, a dire "è bello", "qui palpita il sentimento" o "qui vibra un sublime affiato poetico", ma si possono compiere operazioni che mostrano come è fatto un testo, secondo quali codici e con quali procedimenti, e consentono di individuare le nervature della sua costruzione, di arrivare così più addentro ai suoi significati. Naturalmente poi dal livello formale il discorso si dovrà allargare ad altri aspetti, come il rapporto col genere, con le tematiche comuni a un’epoca, con il contesto sociale e così via, ma sempre su quella base inziale solida e non impressionistica. E sempre su quella base anche la scoperta del senso attuale che il testo può assumere per il giovane avrà altri fondamenti che non il semplice impressionismo.
Risulterà scontata allora la mia contrarietà a forme di lettura spontanea, "selvaggia", aliene dall’uso di ogni strumento tecnico e affidate solo alla reazione soggettiva del discente, che i detrattori di quei metodi spesso propongono in alternativa (magari sulla scia delle fascinose proposte di Pennac [8]). Innanzitutto che possa esistere una lettura assolutamente "vergine", ingenua e spontanea, è un mito fasullo: anche i ragazzi più inesperti, anzi tanto più quanto minore è il loro bagaglio culturale, leggono già in base a codici, acquisiti attraverso i canali più diversi, la famiglia, la televisione, il cinema e i media, le chiacchiere con gli amici, e si tratta in genere di codici di basso livello, per di più introiettati inconsapevolmente e assorbiti in modo acritico. Quella che viene ritenuta lettura "vergine" e "spontanea", insomma, non è che ripetizione inconsapevole di stereotipi. Tanto vale allora che i codici di lettura siano esplicitati, divengano consapevoli e siano di alto livello, rigorosi e criticamente applicati. In secondo luogo la lettura "selvaggia" è fortemente diseducativa perché abitua all’impressionismo facilone, al pressapochismo, all’arbitrio non sottoposto ad alcuna regola. È agevole vedere quali effetti deleteri ne possano conseguire sulla formazione intellettuale e civile dei giovani. A vanificare la centralità del discente nel processo didattico e l’esercizio critico dell’intelligenza nel dialogo tra insegnanti e allievi è intervenuto in questi anni un altro fattore negativo, l’uso dei test a risposta multipla, introdotto ufficialmente nell’esame finale della scuola superiore e diffuso nella pratica didattica quotidiana (a quanto pare si prospetta addirittura per l’esame di ammissione al biennio universitario di specializzazione per l’insegnamento). Chi ha una minima esperienza di critica letteraria sa quante interpretazioni si sono accumulate e continuano ad accumularsi, in un lavoro incessante, su un’opera, su un autore, su un problema storiografico. La centralità del discente si esercita proprio nel vagliare queste interpretazioni, nel saggiarne la validità o meno con strumenti il più possibile rigorosi, nel proporne eventualmente in modo argomentato e motivato altre personali che spostino la prospettiva e modifichino il giudizio. Ebbene, il test a risposta chiusa esclude proprio questo tipo di esercizio. Forse non si riflette abbastanza da parte degli insegnanti su ciò che esso implica: presuppone che vi sia la risposta giusta, un’unica risposta, non contempla la possibilità che di un autore, di un problema, di un testo, di un suo aspetto vi possano essere interpretazioni diverse, talora in netta alternativa fra di loro; e tutto ciò, se le domande vertono su aspetti interpretativi, implica un atteggiamento dogmatico e autoritario, perché un’unica verità è imposta senza possibilità di discussione e di verifica critica: un atteggiamento che è l’esatto opposto della funzione di educazione e di stimolo al pensiero critico che dovrebbe avere la scuola. I test con le crocette sono insomma la negazione di quel processo didattico fondato sul dialogo e sul conflitto delle interpretazioni che si è cercato di proporre come necessario per la formazione intellettuale e civile dei discenti. Anche l’uso dei test a risposta multipla come verifica della sola comprensione di un testo ha dei fortissimi limiti: può valere per un testo abbastanza univoco, come la pagina del manuale o un articolo giornalistico, ma non certo per un testo letterario, che per sua natura come si sa è polisemico (e tanto meno per un testo filosofico: basti ricordare quante interpretazioni ha suscitato il pensiero di Hegel, o di Marx, o di Nietzsche, o di Heidegger; l’idea di proporre una prova a risposta chiusa per un passo di questi o altri filosofi fa semplicemente sorridere). Di conseguenza l’unico campo di applicazione in ambito letterario può essere quello dei meri dati: ma in tal caso dal dogmatismo si cade nel più squallido nozionismo. Tutti sono d’accordo a riconoscere che le nozioni sono un’intelaiatura essenziale della conoscenza, ma, appunto, esse non valgono di per se stesse, bensì solo se sono collegate a un discorso critico complessivo. Ad esempio sapere le date delle tre redazioni dei Promessi sposi di per sé, come dato isolato, è una nozione inerte; acquista un senso solo se quelle date sono inserite in un discorso più ampio sulle caratteristiche di quelle tre redazioni, sulle loro differenze di struttura e di linguaggio; così conoscere la data di pubblicazione del Piacere può avere una validità didattica solo se serve a collocare l’opera nel percorso dello scrittore e a segnare una tappa della sua evoluzione, e magari se si tiene presente che nello stesso anno esce ancora uno dei capolavori della stagione verista, Mastro-don Gesualdo, e in Francia il romanzo che segna invece la reazione al naturalismo zoliano, Le disciple di Bourget, mentre in Italia Svevo sta già scrivendo Una vita. Ma come si collega la nozione a un qualunque discorso critico, si rientra nel gioco delle interpretazioni: è un passaggio a cui non si può sfuggire, nozioni e interpretazioni non possono stare le une senza le altre. Si può misurare di qui l’inanità di un test che si limiti alle sole nozioni isolate.

NOTE
[1] R. Luperini, Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Manni, Lecce 1998; nuova edizione accresciuta, col titolo Insegnare la letteratura oggi, 2002.
[2] L. Serianni, L’ora d’italiano. Scuola e materie umanistiche, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 97.
[3] Senza contare che comunque, anche se si potessero far leggere davvero integralmente agli studenti i classici del passato, dato il poco tempo disponibile occorrerebbe operare un drastica selezione, puntando solo su alcune opere ed escludendo tutte le altre: il risultato non sarebbe sostanzialmente diverso.
[4] L. Serianni, op. cit., p. 104.
[5] Per una polemica contro i «metodi logotecnocratici» in uso nelle scuole e nelle università negli anni settanta, che davano origine a «prodotti tanto sublimi quanto terrificanti» e inducevano a smontare il testo come una macchina «fino ai più riposti bulloni senza capire a che diavolo servisse», ignorando volutamente ogni rapporto con la storia, è ancora stimolante leggere C. Cases, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio, in Aa. Vv., Insegnare la letteratura, a cura di C. Acutis, Pratiche Editrice, Parma 1979, pp. 37-59 (le parole citate sono a p. 38).
[6] Per una lucida discussione di questi problemi, si rinvia a L. Terracini, I segni e la scuola. Didattica della letteratura come pratica sociale, La Rosa, Torino 1980, che ci sembra non aver perduto la sua validità nonostante gli anni trascorsi.
[7] Se Cases ha ragione a polemizzare contro gli eccessi dei metodi formali e semiotici, non ci sembra dunque motivata la sfiducia da lui ostentata (cfr. op. cit., pp. 40-43) sulla funzione democratica dell’uso degli strumenti tecnici di analisi (beninteso nei limiti sopra fissati).
[8] D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 1993.
Autori vari, Cultura umanistica e scuola: riflessioni e analisi, Pearson Italia, 2011 (pp. 9-19)

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