31 gennaio 2013

De aborto

di Antonio Spataro
Hippocrates, praeclarus Graecorum medicus, qui vixit V sec. a. Chr. n. quique merito artis medicae habetur pater, iureiurando se nullam umquam letalem potionem ad fetum enecandum cuivis mulieri porrecturum obstrinxit. Quamvis mulieres omne per aevum sibi licere putaverint abortum sibi procurare, sacramentum tamen Hippocraticum usque ad aetatem nostram ab omnibus artis medicae peritis est inviolabile praeceptum ductum. Cum autem instituta xhristiana hominum mores mitiores reddere conarentur, omnes tamen, qui tunc temporis abortum faciebant, verbis asperrimis christiani doctores improbaverunt.
Inter quos exstat Q. Septimius Tertullianus, egregius scriptor afer, qui II sec. p. Chr. n. in opere «Apologeticum» firmis et certis argumentis abortus crimen vehementer damnavit: «Homicidii – inquit – festinatio est prohibere nasci, nec refert, natam quis eripiat animam an nascentem disturbet. Homo est et qui est futurus; etiam fructus omnis iam in semine est». At nostrae aetatis homines fetus supprimere in alvo materna, faventibus legibus, sibi licere putant. Quod nefandum patrantes scelus, non tantum christiani obliviscuntur iussi, sed despiciunt etiam quod ab honesta ratione postulatur. Quis enim non dubitet, quin abortus abominandum sit flagitium quandoquidem puer, cum in utero formetur, innocens et inermis vita privetur ac ulla sine pietate mactetur?
Quod denique dixit MMD abhinc fere annos sapientissimus Hippocrates, per Sanctorum Christianorum testimonia sancitur. Nam memoratu sunt digna verba, quae beata Theresia a Calcutta dicere solebat: «Abortus habendus est veluti maxima causa, quae pacem extinguit, quia, si licet matri suam interficere prolem, nulla ratio impedit, quominus homo hominem occidat».
«Avvenire» del 29 gennaio 2013

«Pagina breviloquentis» Il Papa definisce Twitter

di Luciano Canfora
Ottima l'idea del Pontefice di estendere alla lingua latina le comunicazioni «telegrafiche» correntemente definite Twitter e che lui chiama «pagina publica breviloquentis», scrivendo a chi lo seguirà: «Tuus adventus in paginam publicam Summi Pontificis Benedicti XVI breviloquentis optatissimus est» (il tuo ingresso nella pagina Twitter ufficiale del Sommo Pontefice Benedetto XVI è graditissimo). Non a caso il medesimo ha rilanciato la lingua latina attraverso la rifondazione dell'Accademia Pontificia per la Latinità, presieduta dal Magnifico Rettore dell'Università di Bologna, insigne latinista nonché allievo di Alfonso Traina. Chi non ricorda l'importante lavoro del Traina sul Pascoli latino? E il Pascoli latino è un esempio lampante della vitalità di tale lingua. Commentando quella iniziativa in un'intervista per «Avvenire» soggiunsi che il latino senza il greco è cosa incompleta. Non dovrebbe essere difficile, specie ora che anche i politici si servono di questo strumento, twittare in greco antico. Non è forse l'Italia il Paese che esporta nel resto d'Europa, ricca sì, ma alquanto culturalmente impoverita, operatori culturali capaci d'intendere le due lingue classiche?
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2013

Non facciamo copiare la versione di latino

È una lingua ancora usata, alla maturità si possono scegliere testi moderni
di Luciano Canfora
Latino al classico. Come due anni fa. La seconda prova scritta della maturità non ha riservato sorprese. La prevedibilità del ministero non è negativa: aiuta gli studenti a prepararsi per tempo. Negativa è la possibilità offerta dalle tecnologie di avere subito la traduzione. Ma qui un rimedio ci sarebbe: poiché il latino è lingua ancora usata, ad esempio dal Papa, perché non proporre testi inediti nel magnifico latino moderno degli umanisti, o di Galileo e Cartesio?
Puntuale come ogni anno giunge il preannuncio della prova di maturità classica: quest'anno latino. Sembra chiara l'intenzione ministeriale di rendere prevedibile la sorpresa, visto che il latino e il greco si alternano oramai regolarmente. Ciò non costituisce un fatto negativo, perché probabilmente aiuta gli allievi a prepararsi per tempo. È noto il lamento diffuso a riguardo degli strumenti tecnici attualmente disponibili, che consentono di raggiungere «tecnologicamente» la traduzione del brano proposto qualche minuto dopo che sono state rese note le tracce. Indubbiamente una pratica del genere depotenzia la prova, la rende superflua; e non è bello sul piano morale che questo accada. È escluso che il ministero ami farsi beffare e svuotare la prova di significato. Non vogliamo neanche ipotizzare una eventualità del genere. Ma un rimedio c'è, se solo si considera che il latino, divenuto lingua letteraria al tempo di Livio Andronico, ha seguitato ad esser tale e ha vissuto di una lunghissima vitalità tutto sommato fino ai tempi a noi vicini del Papa attualmente regnante. Il quale ex cathedra continua a scrivere, e forse anche a pensare in latino. Non c'è secolo alle nostre spalle in cui non si sia scritto in questa lingua: andando per cacumina potremmo indicare il trattato di Dante sulla Monarchia, lo scritto di Lorenzo Valla sulla donazione di Costantino, e ancora il Nuncius di Galileo, e ancora la Dissertatio de methodo di Cartesio, per non parlare di Leibniz e di Kant. E, perché no? di Giovanni Pascoli.
Vi è poi una immensa letteratura latina della erudizione scritta in un magnifico latino dei moderni: mi riferisco alle prefazioni dei grandi umanisti poste in testa alle loro edizioni dei classici, per fare solo un esempio macroscopico. Questo costume durò fino al Novecento inoltrato: solo di recente la Clarendon Press ha sostituito una prefazione a Sofocle in inglese alla più ovvia e tradizionale prefazione in latino. E che dire della letteratura araba tradotta in latino nell'Ottocento da grandissimi arabisti? Insomma, la possibilità di scegliere un brano che non sia dopo cinque minuti sullo smartphone dello studente è vastissima. Allargare l'orizzonte ministeriale in questo (e in altri) campi mi parrebbe cosa buona e giusta.
«Corriere della Sera» del 29 gennaio 2013

23 gennaio 2013

Non sappiamo chi saremo domani

Una ricerca mette in luce la difficoltà di programmare le scelte economiche e perfino le preferenze alimentari
di Massimo Piattelli Palmarini
Ammettiamo di essere cambiati in passato, pensiamo di rimanere uguali in futuro Ma non è così: bisogna imparare a prospettarsi tutte le diverse misure dell’essere
Immaginiamo di riempire con sincerità, anonimamente, un questionario che contenga domande sulla nostra stabilità emotiva, introversione o estroversione, apertura a nuove esperienze, credenze, giudizi morali e così via. Adesso che lo abbiamo riempito, ci viene chiesto di rifare tutto da capo con le risposte che avremmo dato dieci anni orsono. Fatto? Ebbene, ora dobbiamo rifarlo di nuovo prevedendo come risponderemo tra dieci anni. Pensiamo proprio di poterlo fare, ma così non è. Infatti, l’ultimo numero di «Science» riporta una notevolemole di dati su questi confronti soggettivi tra presente passato e futuro, ottenuti via Internet su ben 19 mila volontari di ambo i sessi, in età variabile tra i 18 e i 68 anni. Daniel Gilbert, psicologo a Harvard e capo dell’equipe che ha condotto questo esperimento, così riassume: «Crediamo di sapere che tipo di persona saremo tra dieci anni, ma in realtà non lo sappiamo».
Pensiamo di essere cambiati più negli ultimi dieci anni di quanto cambieremo nei prossimi dieci. Diamo pure per scontata questa illusione di sapere nei giovanissimi, ma sussiste anche nelle persone mature e negli anziani. La lezione che potremmo trarre dal nostro passato non serve. Per esempio, i sessantottenni ammettono qualche modesto cambiamento in loro nei dieci anni precedenti, ma i cinquattottenni non ne prevedono alcuno per i dieci anni futuri, a dispetto del fatto che ammettono considerevoli cambiamenti da quando avevano 48 anni. Facendo slittare indietro, in soggetti più giovani, questa finestra decennale, il fenomeno si amplifica, ma meno di quanto si poteva supporre. L’errore sta tutto nel prevedere il futuro, non nel ricordare il passato.
Eppure, come aveva saggiamente sentenziato oltre tre secoli fa François de la Rochefoucauld, ci viene spontaneo lamentare difetti di memoria, mentre resistiamo fieramente ad ammettere errori di giudizio e di personale previsione. Ci illudiamo che preferenze, inclinazioni, gusti e perfino giudizi morali resteranno ciò che sono. Così non è, ma non lo ammettiamo. Il presente, ci dicono questi psicologi, ci sembra un po’ la fine dei tempi interni, il capolinea della nostra personalità. Non sapendo come saremo, nemmeno sappiamo bene quello che vorremo. I dati sulle aspettative economiche sono assai chiari. Ne basti uno.
Gilbert e colleghi (Jordi Quoidbach e Timothy Wilson, psicologi dell’Università della Virginia a Charlottesville) hanno chiesto ai partecipanti quanto pagherebbero oggi per assicurarsi una poltrona al concerto da loro favorito tra dieci anni. E quanto pagherebbero oggi per godersi (oggi) il concerto che era il loro favorito dieci anni addietro. In media, si è disposti a spendere oltre il 60 per cento in più per l’evento futuro con i favoriti odierni di quanto sia disposto a spendere chi ha dieci anni più di noi per godersi oggi i loro favoriti di dieci anni addietro. Gilbert e colleghi così riassumono: «Si sarebbe supposto che, raggiunta la maturità, ci si renda conto che i nostri beniamini attuali non saranno più tali tra dieci anni. Invece siamo disposti a spendere in eccesso per l’opportunità futura di indulgere in una preferenza attuale».
Questa miopia nelle previsioni su noi stessi non persiste in genere nelle previsioni sui cambiamenti altrui, né sui mutamenti del mondo circostante. Infatti, suggerisce Gilbert, per meglio calibrare le anticipazioni su noi stessi conviene immaginare come cambierà chi ci sta vicino, coloro che meglio conosciamo, e come cambierà il mondo, per rapportarci a tutto ciò.
Questo studio, del resto, è in sintonia con svariati dati precedenti. Per esempio, Itamar Simonson, di Stanford, aveva verificato che poco sappiamo prevedere perfino sulle nostre preferenze alimentari per il mese futuro. Avendo osservato giorno dopo giorno, nella mensa universitaria, che il commensale tipico variava la scelta tra sole due o tre pietanze di uguale costo, offrì uno sconto a chi avesse liberamente programmato in anticipo, a costo uguale, tutti i pasti per i successivi 30 giorni. La programmazione anticipata rivelò un’enorme varietà di scelte, incongrua con la passata, reale, limitatissima scelta. È quindi arduo perfino anticipare le proprie preferenze alimentari, sia pure per un prossimo futuro.
Shane Frederick, della Yale University, ha recentemente dimostrato che diversi modi di presentare il tempo futuro hanno effetti sistematici e piuttosto sbalorditivi. Sia per scelte economiche che per altri tipi di previsioni, le preferenze sono diverse se ci viene proposta una data, una durata, oppure una misura interna del tempo. Ovvero, una cosa è prospettare, poniamo, una decisione che riguarda il 2020, altra cosa se diciamo «tra sette anni», altra ancora se diciamo «quando sarò sette anni più vecchio». Non dovrebbe fare differenza, ma è così.
Qual è il rimedio? Come adottare una maggiore razionalità nelle scelte che riguardano il futuro? Prospettare nella nostra mente tutte le diverse misure del tempo, formalmente equivalenti, ma psicologicamente distinte. Inquadrare noi e la realtà circostante secondo questi schemi, per renderci conto di come queste diverse misure impattano sulle nostre aspettative. Come sarà il cugino Piero e come il piccolo Andrea tra dieci anni, ovvero tremilaseicentocinquanta giorni, ovvero 87.600 ore? Poi veniamo a noi e traiamo le conseguenze.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 20 gennaio 2013

A quali condizioni ha senso il giorno della memoria

Shoah
di Giorgio Pressburger
​È servito agli esseri umani ricordare eventi luttuosi per evitare il ripetersi di questi eventi? No. Con l’andare del tempo la ferocia è aumentata, la capacità di uccidere o di torturare è diventata sempre più diffusa e a portata di tutti. È servito all’umanità dimenticare quegli eventi, non saperne più nulla, ignorarli, come se mai fossero accaduti?
È servito sapere che sono avvenuti e far finta che non sia successo nulla? No. Allora la natura umana, la propensione alla violenza, alla ferocia, all’assassinio è ineliminabile, la civiltà non avanzerà mai, nel diventare meno crudele, meno violenta, meno egoista? Rassegnarsi a un’idea simile sarebbe terribile. Non riconoscerne la realtà e andare avanti alla cieca è altrettanto vano e illusorio. Ed è probabilmente per questo che è nata la decisione di dedicare almeno un giorno dell’anno al ricordo degli orrori messi in atto settant’anni fa, all’epoca in cui sono nati i genitori di uomini che oggi hanno circa trent’anni. E le vittime a quell’epoca erano i nonni di quei trentenni, i loro zii, i cugini.
Ora i mezzi di comunicazione di massa sciorinano ogni giorno numeri spaventosi sugli esseri umani uccisi il giorno prima. Ne parlano come di noccioline, a volte ne esagerano la portata soltanto per incutere orrore e paura, non per offrire una possibile maniera di far cessare i massacri o per offrire una conoscenza obiettiva dei fatti. Molte cose vengono falsificate in una direzione o nell’altra. Si mostrano feretri, corpi dilaniati soltanto come simboli, non come corpi di persone umane esistite, ciascuna con la sua storia, lo svolgersi della sua vita tra tanti stenti, tanto faticare, tanto gioire, tanto pensare, tanto piangere. Ovviamente nulla di questo è volto a migliorare l’uomo, a impedire il ripetersi, l’estendersi del male, della violenza, degli eccidi. Tutto questo mette fortemente a repentaglio l’utilità vera dei Giorni della Memoria, del moltiplicarsi di monumenti eretti per rammentare lotte, sacrifici, ideali.
Che cosa si può fare per impedire che in questo modo tutto finisca in retorica, in vuoti cerimoniali consumati in un giorno, per continuare, nei rimanenti 364 giorni dell’anno a perpetrare gli stessi delitti, gli stessi abusi e le stesse violenze appena ricordati? Sarebbe meglio allora creare Giorni dell’Oblio? O usanze comuni per dimenticare, come si fa a San Pietroburgo dove si festeggiano matrimoni con tanto di spumante e calici, nel grande cimitero in cui sono seppelliti i cinquecentomila morti periti durante l’assedio della città per opera dell’esercito nazista? Nobile cerimonia in onore della vita che continua, ma è quella la strada giusta per il ricordo? Può anche darsi.
Però occorre pure ricordare quei morti che si avviavano verso le camere a gas di Auschwitz cantando preghiere. Lì si trattava del progetto di cancellare dalla faccia della Terra un popolo intero additato come portatore di male. C’è la possibilità di rievocare quei delitti senza precedenti nella Storia dell’umanità? Interi popoli sono scomparsi nel fiume spietato del tempo e della Storia, ma non così, cioè come esecuzione di un piano scientifico, meditato, ponderato e preparato fin nei minimi dettagli.
Sono passati settant’anni, i ragazzi di oggi non riescono a immaginare nemmeno lontanamente che cosa potesse essere avvenuto nei campi di sterminio dove sono portati in visita, Tutto può essere soltanto una sorta di messa in scena, uno spettacolo allestito apposta. E per giunta ci sono anche gruppi di individui che negano tutto, negano che quegli eventi siano veramente accaduti. Lo negano già da tempo, nonostante gli ultimi sopravvissuti siano ancora oggi tra noi, parlino, si muovano. Fautori di ideologie, gruppi di sedicenti religiosi corrono in aiuto a costoro, allenati come sono alla menzogna. Ricordare o dimenticare, ricordare e condividere quei ricordi con quelli che erano stati gli autori di quei delitti?
È il giorno delle tante, infinite domande quello che noi chiamiamo il Giorno della Memoria. Come è potuto accadere quello che ricordiamo? E come dobbiamo ricordarlo? Non sarebbe meglio ricordare, (come fanno gli ebrei durante il Pesach, la Pasqua ebraica) in che modo quel popolo è riuscito a liberarsi dalla schiavitù? Noi viviamo ancora in quella schiavitù, nella schiavitù della violenza, dell’eccidio, del sopruso ufficialmente autorizzato. Quando e come ce ne libereremo? Dobbiamo trovare la strada che ci conduca verso la liberazione da questa schiavitù, o sarà l’intera umanità, non un singolo popolo, a scomparire.
«Avvenire» del 21 gennaio 2013

L’umanità nello specchio di «Matrix»

di Giuliano Zanchi
​I due fratelli sceneggiatori Andy e Larry Wachowski il 31 marzo 1999 mandavano nelle sale degli Stati Uniti il primo episodio della triologia fantascientifica di Matrix.
L’ambientazione del film, che immagina una guerra fra uomini e macchine agli sgoccioli del XXII secolo, in cui un Eletto, a lungo annunciato dalle profezie di un oracolo, guida nella battaglia contro le macchine un popolo che vive nella roccaforte sotterranea di Sion, è intrisa di evidenti riferimenti alla tradizione religiosa cristiana, circonfusi tuttavia di un rimpasto teosofico vagamente zen.
Mai come in questo caso la fantascienza, genere degno dell’attenzione che si deve riservare ai più impegnati testi di filosofia, si è saldata al sacro. Nel modo tipico del sacro postmoderno, quello di riciclare gli elementi della tradizione all’interno di una nuova narrazione.
Questo rivestimento sacro, che attinge alla mitologia cristiana, ha come aspetto più interessante il fatto di presentare sotto una chiave di emozione religiosa le immaginarie sorti dell’uomo nei suoi rapporti con gli artifici della tecnologia. Il film immagina una sterminata massa di essersi umani «collegati» attraverso il cervello a un gigantesco programma informativo chiamato sintomaticamente Matrix (la matrice, il grembo, l’utero): ciascuno di essi, con il corpo immerso in cellule liquide che ne garantiscono la sopravvivenza, vive attraverso la sua mente in un mondo che è in realtà una simulazione digitale.
Ma dal punto di vista delle emozioni del tutto realistico. Pochi documenti della cultura sono riusciti con tanta immediatezza a visualizzare il tasso di ibridazione fra realtà e artificio tipico della condizione postomoderna, mettendo in luce con visionaria lucidità l’interrogativo sulla «natura» dell’uomo come l’autentica posta in gioco della transazione che stiamo vivendo. La condizione postmoderna può difatti essere definita come “il problema posto dalla decostruzione dell’umano”.
La cultura della modernità era nata per costruire l’intero impianto della conoscenza sulle ragioni dell’uomo. Il «soggetto» era il crocevia delle traiettorie che potevano ancora far incontrare la trascendenza del fondamento con l’immanenza della natura. Ma, nell’età secolare persino il vocabolario con cui si esprimeva quell’ambizione si è trasformato in moneta fuori corso. L’autocoscienza dell’uomo postmoderno, assieme all’ovvia inesistenza del fondamento, ha accettato anche la propria iscrizione sul registro della pura semplice comune immanenza. Nella macchina umana Cartesio aveva un tempo concesso il comfort di uno speciale transitor per la ricezione dell’idea di Dio. Prolungava per qualche secolo un’idea della «differenza umana» che da qualche decennio paleontologi, zoologi, neurobiologi vanno metodicamente smontando come un mito senza fondamento. L’uomo è solo materia evoluta quanto a struttura ma del tutto ordinaria quanto a tipologia.
La perfetta trasparenza clinica del corpo umano ha permesso in maniera determinante questa operazione di demitizzazione dell’umano. Con curiose e comiche simmetrie. Mentre si animalizza l’uomo, si umanizzano gli animali. Addirittura candidati a detenere dei diritti. L’antropologia postmoderna appoggia difatti su una vistosa schizofrenia. Mentre l’inalienabile spazio dell’individualità formale del citoyen d’Europe viene proclamata e tutelata fino a esiti parossistici, la concezione che i saperi pubblicamente accreditati divulgano dell’uomo lo proiettano nello spazio ordinario del puro oggettivismo.
Fino a non molto tempo fa si trattava di un oggettivismo naturale: l’uomo è solo materiale secondo natura con qualche abilità che l’evoluzione gli ha fatto raggiungere prima di altri elementi della biosfera. L’uomo non è che una scimmia nuda. Ma ora si sta profilando un’immaginazione umana legata alle possibilità di un oggettivismo artificiale, l’uomo è una macchina di cui la tecnologia ha imparato a gestire gli elementi.
Non ha dunque nulla di diverso dalle stesse macchine che quella stessa tecnologia ha costruito a immagine e somiglianza del congegno umano. Poiché non esiste una differenza apprezzabile fra i due generi di prodotto è lecito immaginare un tempo nel quale l’essere umano sarà un ibrido costruito con elementi artificiali. Ma anche, come preconizzato nel 1987 da Ridley Scott in Blade Runner, ricostruito artificialmente in toto. Un giorno non molto lontano, si preannuncia, sarà la tecnologia a partorirci. Per ora non è necessario che tutto questo sia del tutto attuabile. Sta già cambiando la concezione dell’uomo per il solo fatto che tutto questo possa essere anche solo immaginato.
Andando oltre l’umanesimo della modernità, il postmoderno non poteva coerentemente che portare con sé il progetto di un «postumanesimo», che non significa andare «contro» le ragioni dell’uomo, ma pensare di poter immaginare un «altro» modello di essere umano, sulla base delle enormi risorse manipolatorie che la tecnologia ha messo nelle mani di un uomo ormai capace di costruire se stesso. Quello che sta prevalendo in questo progetto di ricostruzione postumanistica dell’uomo è l’analogia, oggi considerata ovvia e trasparente, fra capacità cognitive e del cervello umano e forme digitali dell’intelligenza artificiale. L’uomo in fondo è un computer contenuto in un involucro di carne.
La nostra vita è già molto legata alla rete informatica delle comunicazioni globali. Basta aspettare il giorno in cui questo collegamento sarà operato direttamente da nostro cervello. A pensarci bene siamo di nuovo al transistor di Cartesio. Salvo il fatto che la «trascendenza» a cui si accede è quella del gigantesco oceano di dati ormai divenuto la «cosa» più reale del mondo.
Siamo in qualche modo tornati a Cartesio anche perché in questa immaginazione di un uomo ormai fisicamente legato ai processi di elaborazione della macchina il corpo perde definitivamente la sua essenzialità. Siamo appunto in quella che è stata chiamata cultura «postorganica».
Già in molti modi oggi il corpo umano è integrato artificialmente. Basta attendere del tempo perché la differenza fra organico e artificiale perda di senso. Il terzo episodio di Matrix si conclude con la spettacolare scena dell’Eletto perfettamente trasfigurato nella luce verdognola dei cristalli liquidi. Scena innegabilmente evocatrice dell’episodio evangelico.
Ma anche decisa a sigillare nell’estetica cinematografica il declino definitivo di un principio essenziale del vecchio mondo. Quell’esaltazione del corpo, che vedeva nel «sacramento della carne» il luogo della verità umana e della rivelazione divina, sembra destinata a esaurire la sua forza di persuasione, portandoci verso soglie dell’ignoto che hanno le sembianze della fine.
«Avvenire» del 17 gennaio 2013

Se il relativismo si impone come norma

L’arcivescovo segretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati Mamberti sulle sentenze della Corte di Strasburgo
s. i. a.
«È reale il rischio che il relativismo morale che si impone come nuova norma sociale venga a minare le fondamenta della libertà individuale di coscienza e di religione»: è quanto afferma l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati a proposito delle recenti sentenze della Corte europea dei diritti su alcuni casi afferenti il rispetto della libertà religiosa nel Regno Unito.
La Corte di Strasburgo ha infatti sancito il diritto ad indossare simboli religiosi sui luoghi di lavoro, salvo il caso in cui esigenze di sicurezza e igiene lo sconsiglino, come per esempio negli ospedali, ma contestualmente ha negato il diritto all’obiezione di coscienza a una impiegata comunale che si era rifiutata per motivi religiosi di celebrare unioni civili fra omosessuali e a un terapista che si era rifiutato di fornire consulenza sessuale sempre a coppie dello stesso sesso.
«Questi casi — spiega il presule in un’intervista con Olivier Bonnel per Radio Vaticana, che riportiamo integralmente — dimostrano che le questioni relative alla libertà di coscienza e di religione sono complessi, in particolare in una società europea caratterizzata dall’aumento della diversità religiosa e dal relativo inasprimento del laicismo. È reale il rischio che il relativismo morale che si impone come nuova norma sociale venga a minare le fondamenta della libertà individuale di coscienza e di religione. La Chiesa desidera difendere le libertà individuali di coscienza e di religione in ogni circostanza, anche di fronte alla “dittatura del relativismo”. Per questo, è necessario illustrare la razionalità della coscienza umana in generale, e dell’agire morale dei cristiani in particolare. Quando si tratta di questioni moralmente controverse, come l’aborto o l’omosessualità, deve essere rispettata la libertà di coscienza. Piuttosto che un ostacolo allo stabilimento di una società tollerante nel suo pluralismo, il rispetto della libertà di coscienza e di religione ne è condizione. Rivolgendosi, la settimana scorsa, al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI sottolinea che per salvaguardare effettivamente l’esercizio della libertà religiosa, è quindi essenziale rispettare il diritto all’obiezione di coscienza. Questa “frontiera” della libertà sfiora principi di grande importanza, di carattere etico e religioso, radicati nella stessa dignità della persona umana. Sono come i “muri portanti” di qualsiasi società voglia definirsi veramente libera e democratica. Di conseguenza, vietare l’obiezione di coscienza individuale e istituzionale, in nome della libertà e del pluralismo, aprirebbe al contrario – paradossalmente – le porte all’intolleranza e ad un livellamento forzato. L’erosione della libertà di coscienza testimonia altresì una forma di pessimismo nei riguardi della capacità della coscienza umana a riconoscere quanto è bene e vero, a vantaggio della sola legge positiva che tende a monopolizzare la determinazione della moralità. È anche il ruolo della Chiesa ricordare che ogni uomo, qualsiasi sia il suo credo, è dotato dalla sua coscienza della facoltà naturale di distinguere il bene dal male e quindi di agire di conseguenza. In questo risiede la fonte della sua vera libertà.

Recentemente, la missione della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha pubblicato una nota sulla libertà e l’autonomia istituzionale della Chiesa. Vuole illustrarcene il contesto?
Attualmente, la questione della libertà della Chiesa nei suoi rapporti con le autorità civili è all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo in due casi che riguardano la Chiesa ortodossa di Romania e la Chiesa cattolica. Si tratta dei casi Sindicatul “Pastorul cel bun” contro Romania e Fernandez Martinez contro Spagna. In questa occasione, la Rappresentanza permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha redatto una nota sintetica nella quale ha esposto il magistero sulla libertà e l’autonomia istituzionale della Chiesa cattolica.

Qual è il problema in queste due cause?
In queste due cause, la Corte europea deve stabilire se il potere civile abbia rispettato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avendo rifiutato di riconoscere un sindacato professionale di sacerdoti (per quanto riguarda la Romania), e rifiutando di nominare un insegnante di religione che pubblicamente professava posizioni contrarie alla dottrina della Chiesa (nella questione spagnola). Nei due casi, i diritti alla libertà d’associazione e alla libertà d’espressione sono stati invocati per costringere delle comunità religiose ad agire contro il loro statuto canonico e contro il magistero. Inoltre, questi casi mettono in questione la libertà della Chiesa di operare secondo le proprie regole, di non doversi sottoporre ad altre norme civili se non quelle necessarie al rispetto del bene comune e del giusto ordine pubblico. La Chiesa ha sempre dovuto difendersi per tutelare la propria autonomia di fronte al potere civile e alle ideologie. Oggi nei Paesi occidentali diventa importante sapere come la cultura dominante, fortemente caratterizzata dall’individualismo materialista e dal relativismo, possa comprendere e rispettare la natura specifica della Chiesa, che è una comunità fondata sulla fede e sulla ragione.

La Chiesa come vive questa situazione?
La Chiesa è consapevole della difficoltà di stabilire, in una società pluralista, i rapporti tra le autorità civili e le diverse comunità religiose rispetto alle esigenze della coesione sociale e del bene comune. In questo contesto, la Santa Sede richiama l’attenzione sulla necessità di conservare la libertà religiosa nella sua dimensione collettiva e sociale. Questa dimensione risponde alla natura essenzialmente sociale tanto della persona quanto del fenomeno religioso in generale. La Chiesa non chiede che le comunità religiose siano delle zone di non-diritto, quanto piuttosto che siano riconosciute come spazi di libertà in virtù del diritto alla libertà religiosa, nel rispetto del giusto ordine pubblico. Questa dottrina non è riservata alla Chiesa cattolica, i criteri che ne derivano sono fondati sulla giustizia e sono quindi di applicazione generale. Inoltre, il principio giuridico di autonomia istituzionale delle comunità religiose è largamente riconosciuto da quegli Stati che rispettino la libertà religiosa, nonché dal diritto internazionale. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo l’ha enunciato regolarmente in diversi casi importanti. Anche altre istituzioni hanno affermato questo principio. È il caso dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) o ancora del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite rispettivamente nel Documento finale del 19 gennaio 1989 della Conferenza di Vienna, e nell’Osservazione generale n. 22 sul diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione del 30 luglio 1993. È utile ricordare e difendere questo principio di autonomia della Chiesa e del potere civile.

Come si presenta questa Nota?
La libertà della Chiesa sarà rispettata tanto meglio quanto più sarà ben compresa dalle autorità civili, senza pregiudizio. Sarà quindi necessario spiegare come è concepita la libertà della Chiesa. La Rappresentanza permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi redatto una note sintetica che spiega la posizione della Chiesa attorno a quattro principi: la distinzione tra Chiesa e comunità politica; la libertà nei riguardi dello Stato; la libertà in seno alla Chiesa e il rispetto del giusto ordine pubblico. Dopo aver illustrato questi principi, la Nota cita inoltre estratti importanti della Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae e della Costituzione pastorale Gaudium et Spes del concilio Vaticano II.
«Osservatore romano» del 17 gennaio 2013

20 gennaio 2013

Gli sviluppi della storiografia durante la tarda repubblica

di Paolo Di Sacco e Mauro Serìo
Brano tratto dal volume Il mondo latino (Ediz. scolast. Bruno Mondadori 2000, vol. 2, pp. 40 – 44)
È nell’età cesariana che, dopo un lungo periodo d’incubazione, nasce la grande storiografia di Roma. Le opere di Cesare e di Sallustio, lungamente preparate dagli esordi dell’annalistica pontificale, dall’amorevole ricostruzione delle Origines catoniane, dal sorgere dell’autobiografia e dai paralleli sviluppi di un’annalistica «drammatica», più incline al racconto e al coinvolgimento patetico, dei lettori, portano infine a maturazione quella tendenza alla memoria nazionale e all’esaltazione delle virtù civiche che contrassegnava da sempre il DNA della cultura romana.

Fermenti di novità e passioni politiche
Sul finire del II e all’inizio del I secolo a.C. erano emerse importanti novità nel genere storiografico, fino ad allora dominato dal modello annalistico: si è già accennato al taglio decisamente contemporaneo dell’opera di Sempronio Asellione, dedicata quasi esclusivamente all’età dei Gracchi, e alla storiografia «drammatica» di Celio Antìpatro e soprattutto di Sisenna (quest’ultimo si restringeva pure agli ultimi decenni, trattando, in un pittoresco e acceso stile «asiano», della guerra sociale e del primo conflitto civile tra Mario e Silla); si sono registrati inoltre gli inizi dell’autobiografia, un genere connesso al prepotente sviluppo, in quest’epoca, dell’individualismo. All’autobiografia vanno ascritti i commentarii apologetici (in greco hypomnémata) scritti de vita sua da Marco Emilio Scauro, uomo eminente al tempo di Mario, dal versatile Lutazio Càtulo, che fu console e collega dello stesso Mario, da Rutilio Rufo e soprattutto da Silla. I ventidue libri dei Commentarii rerum gestarum sillani, purtroppo perduti, composti certamente per giustificare il proprio operato politico, erano cosparsi di prodigi, sogni premonitori, esagerazioni sui propri meriti: è un’autobiografia di forma «carismatica», che avrà un continuatore in Augusto, autore del resoconto ufficiale delle Res gestae, ma anche di un’autobiografia per così dire «privata», in cui menzionava i «miracoli» che ne avrebbero preceduto e accompagnato la fulminante carriera politica. Meno nuovi, a paragone di questi autori (specie di Sisenna), appaiono gli annalisti della successiva generazione, Quinto Claudio Quadrigario, Valerio Anziate e Licinio Macro: il loro impianto compositivo e il loro stile ricorda più da vicino il modello storiografico più tradizionale. Gli Annales di Quadrigario costituiscono una storia generale di Roma (il punto di partenza è il saccheggio gallico del 390 a.C.); manifestano buone qualità narrative e prediligono soffermarsi sugli episodi famosi e su personaggi eroici. Un diretto precursore di Tito Livio (che però non lo cita mai) fu Valerio Anziate, autore in stile arcaizzante (invenuste, dirà Frontone, cioè "senza eleganza") di una storia monumentale in 75 libri, in cui man mano preponderava l’epoca più vicina all’autore; ce ne è rimasto pochissimo. Su Quadrigario e Anziate non abbiamo alcuna notizia circa la loro collocazione sociale; forse erano semplici storici letterati. Un personaggio della nobilitas era invece Licinio Macro, padre dell’oratore e poeta Licinio Calvo che fu, come si è detto, un poëta novus e amico di Catullo. Gli Annales di Macro non erano tra i più vasti, ma godevano di buon credito anche per il ricorso a fonti inconsuete.
In generale, nella storiografia di Roma non si è mai affermato un metodo critico paragonabile a quello utilizzato dal greco Polibio; la ricerca dell’obbiettività è scarsa; sembra, anzi, in quest’epoca, di assistere ad un rigurgito di storiografia aristocratica. Gli autori, da un lato, sono permeati di ammirazione per le virtù del popolo romano (da qui la frequente esagerazione sul numero dei nemici vinti, oppure l’irrisione dei nemici sconfitti e la celebrazione delle virtù di disciplina e di eroismo silenzioso dei milites), secondo un tratto tipico dell’annalistica romana di ogni tempo, dall’altro, appaiono preoccupati di diminuire i propri avversari politici e d’innalzare il merito delle gentes vicine (Valerio, com’è logico, esalta i Valerii a detrimento dei Claudii; all’opposto si comporta Quadrigario, nemico dei Fabii; Licinio Macro innalza i Licinii). Del resto le passioni politiche divampavano con violenza in un’età di sommovimenti istituzionali e la storiografia accentua ulteriormente il proprio ruolo di diretto intervento nella vita politica della respublica.

Cesare e i confini dei commentarii
Sul finire del I secolo a.C., in piena età cesariana, un po’ tutti i generi storiografici sono in fermento anche se si avverte la generale mancanza di storici con polso e qualità di veri scrittori: una lacuna che sarà colmata solo da Sallustio e naturalmente da Cesare. Quest’ultimo portò a maturazione un genere che aveva già dato interessanti preannunci: il commentarius, il cui scopo era tradizionalmente quello di fornire materiali per gli storiografi delle età successive. Sappiamo che commentarii de vita sua offrì anche Varrone (su Pompeo e sulla propria attività di legato nell’esercito pompeiana); lo stesso Cicerone scrisse, in latino e forse anche in greco, commentarli sul proprio consolato, non riuscendo tuttavia a trovare uno storico disponibile a rielaborare quei materiali in opere più compiute per concezione generale e per definizione formale. Cicerone diede anche un’autodifesa della propria azione di console in un commentario (De consiliis suis) scottante per le accuse contro Cesare, sospettato di aver fatto parte della congiura di Catilina; incompiuto, il resoconto ciceroniano venne pubblicato solo dopo la sua morte. Ma nel genere del commentarius il capolavoro venne da Cesare, con le sue due opere sulla guerra gallica (in sette libri) e sulla guerra civile (in tre libri). Si tratta, in verità, di scritti assai più elevati, per disegno generale e per esiti artistici, del semplice commentarius. La precisione stilistica, la nettezza della ricostruzione, l’impressione generale di una nuda, limpida obiettività, fanno del Bellum Gallicum e del Bellum civile due raggiungimenti memorabili, il cui destino fu analogo a tante autentiche opere d’arte: quello di non essere capite dai contemporanei, venendo semmai riscoperte in tempi recenti. La teoria atticista fornisce a Cesare il modello di una lingua sobria, supremamente chiara, che utilizza il lessico urbano delle persone colte senza ostentazione né, d’altra parte, senza sciatterie o colloquialismi. Se non fosse per il monumento che, pagina dopo pagina, il comandante-scrittore eleva consapevolmente alla sua truppa (non allo stato, si badi bene) e in ultima analisi a se stesso, alle proprie qualità demiurgiche di «capo», e se non fosse per le rare ma significative accensioni stilistiche, come i discorsi diretti e le drammatizzazioni di talune scene (si veda l’ultimo libro di ciascuna opera), si potrebbe con ragione sostenere che Cesare abbia mantenuto in vita il vecchio impianto dei commentarii. Nel caso specifico, egli utilizza ricordi e appunti personali e i rapporti via via inviati al senato sul proprio operato; ma in realtà Cesare si è mantenuto fedele a questo impianto e insieme, con piena coscienza, lo ha superato. Il genere del commentarius raggiunge in tal modo i suoi confini e li infrange, confluendo nell’historia propriamente detta: un esito possibile solo ai grandi autori.

Origini greche della biografia
Un genere di moda in quest’epoca è la biografia, nata in Grecia ma priva di una tipologia stabile, oscillando tra la storia propriamente detta e l’elogio. L’ellenismo greco aveva dato biografie di diverso tipo: aneddotiche, incentrate sul ritratto di un qualche personaggio celebre, colto nella sua vita privata e pubblica; erudite, sul tipo di quelle confezionate dai filologi alessandrini e premesse alle loro edizioni di testi poetici; più rare di stampo politico-ideologico, in cui il biografato assurgeva a modello di virtù civili o militari. Vi erano anche biografie di filosofi, in cui il racconto della vita esemplare di un saggio era abbinato alla presentazione del suo pensiero: il tema era allora l’ascesa alla perfezione morale, attraverso i vari gradini previsti dalla dottrina. Su questa falsariga si svilupperanno le future vite dei santi cristiani. Di volta in volta potevano prevalere intenti narrativi e artistici oppure più didascalici, finalizzati cioè a un riassunto ordinato di notizie. Incroci con la storiografia vera e propria erano frequenti e, anzi, gli storiografi (specie quelli, come Teopompo, di scuola isocratea, i più attenti alla caratterizzazione antropologica) attingevano spesso a materiali biografici. Con il tempo, si era fissato in Grecia un modello di narrazione biografica condotta attraverso «rubriche», ovvero per schede, che disponevano i vari aspetti del personaggio secondo un ordine prefissato (famiglia, amici, luogo e circostanze della nascita, credenze religiose ecc.). Non erano mancati però esempi di una narrazione più continuativa, che esponeva in ordine i fatti dalla nascita alla morte. Non necessariamente la ricostruzione doveva essere integrale; ci si poteva soffermare su uno o più momenti significativi della vita del personaggio. L’accento era posto sui tratti privati del biografato, a differenza della storiografia, che si concentrava sul suo operato pubblico. Un impulso a contrapporre vizi e virtù venne dalla scuola filosofica degli aristotelici, attenta fin da Aristotele e Teofrasto alla caratteriologia etica; ne nacque il tipo classico della biografia antica, che deduceva il carattere (ethos) dell’uomo dalle sue azioni (práxeis): abitudini quotidiane e gesti comuni divenivano altrettanti segni di prerogative morali, che potevano anche essere negative.

La biografia a Roma
A Roma la biografia aveva avuto le sue prime manifestazioni nelle iscrizioni funebri e nei tituli (le iscrizioni sotto le statue), oltre che nei più ampi e celebrativi elogia o laudationes funebres, i discorsi ufficiali sulle virtù del defunto, che contenevano gli elementi biografici essenziali e che venivano conservati nell’archivio della gens. Alla base di queste manifestazioni vi era infatti l’orgoglio gentilizio, il senso di appartenenza a una delle gentes aristocratiche.
Un tipo di biografia più vicino agli esempi greci si sviluppò nell’ultima parte del II secolo a.C., sul tronco di quel genere "minore" costituito dall’autobiografia e dai commentarii. Sappiamo del completamento in direzione biografica dei Commentari di Silla approntato da un suo liberto, Cornelio Epicado: è il primo biografo latino di cui conosciamo il nome. Un liberto di Pompeo, Voltacilio Pitolao, compose in più libri le biografie di Pompeo Magno, il rivale di Cesare, e di suo padre, Gneo Pompeo Strabone.
A sé stavano i ritratti su personaggi romani e greci famosi nel campo della politica e della cultura, composti da Varrone nelle Imagines: al vero e proprio ritratto iconografico (fu questo il primo libro romano di cui abbiamo notizia) si accompagnavano brevi biografie, modellate sulla tradizione scolastica degli eruditi greci. Il medesimo modello agì sull’altra opera biografica di Varrone, il De poëtis.

Cornelio Nepote e i suoi «uomini illustri»
Nulla però ci resta di questa produzione di vari autori, mentre è giunta fino a noi una parte (piccola, rispetto all’insieme originario) dell’opera di Cornelio Nepote, che fu l’autentico fondatore della biografia letteraria romana. Contemporaneo di Catullo e dei poëtae novi, Cornelio come loro proveniva dalla Gallia Cisalpina.
Oltre ai tre libri dei Chronica, una vasta compilazione di storia universale, scrisse il De viris illustribus, in almeno sedici libri (pubblicati forse nel 34 a.C.), in cui raccontava la vita di molti uomini famosi, distinguendoli per categorie (re, generali, poeti, storici e altri) e raggruppandoli alternativamente in romani e stranieri, cioè greci, secondo il modello delle Imagines varroniane; mettendo a confronto le glorie nazionali con i migliori esemplari della civiltà greca, egli contribuì effettivamente a sprovincializzare la cultura di Roma: abitudini di vita diverse non erano meno degne di rispetto di quelle raccomandate dal mos maiorum.
Sul piano storico Cornelio ha scarso valore, per l’insufficiente controllo delle fonti citate e la propensione a dare rilievo agli aspetti moralistici del racconto biografico; non mirando a un pubblico in cerca di un’informazione approfondita, il suo scopo rimane divulgativo e aneddotico. Buon piglio narrativo e uno stile disinvolto, anche se talora un po’ trascurato, con espressioni quotidiane e arcaismi, caratterizzano la sezione giuntaci dell’opera (De excellentibus ducibus exterarum gentium, che comprende 22 biografie di comandanti stranieri, 19 dei quali greci), accanto a due vite del De historicis Latinis, quelle di Catone il Censore e di Attico.

Il programma di Cicerone: la storiografia come opus oratorium maxime
Autobiografie, biografie, commentarii non rispondevano però ancora a quella domanda di storiografia letteraria in senso "alto", modellata sui grandi storici greci (Erodoto, Tucidide, Senofonte, prima ancora di Polibio) dell’età classica, che veniva avanzata per esempio da Cicerone. Scrivendo nel giugno del 56 a.C. a un certo Lucceio, uomo politico e storico che stava allora approntando un’opera storica sui decenni precedenti, Cicerone gli chiese di illustrare approfonditamente le glorie del proprio consolato; non venne accontentato da Lucceio, ma la lettera ciceroniana (Ad familiares V, 12) è ugualmente importante sul piano programmatico, come fondazione di una storiografia oratoria, artisticamente elaborata: una storiografia dunque narrativa (o "mimetica") e non pragmatica sul modello polibiano; una storiografia capace d’impressionare e coinvolgere il lettore-ascoltatore anzitutto per la cura dello stile e l’avvincente concatenazione dei fatti narrati. Lo storico, aggiunge Cicerone nella stessa lettera, può mirare a suscitare nei lettori sentimenti di compassione: il contemplare vicende dolorose, che appartengono ad altri e al loro passato, habet delectationem, produce per compenso una sensazione di piacere. Questa purificazione delle passioni o kátharsis era lo scopo anche della tragedia; qui Cicerone guarda ai peripatetici e all’impostazione "prosopografica" (da prósopon, "personaggio") che essi conferivano alla storiografia, incentrandola sul personaggio-eroe. Non dimentica peraltro la componente diciamo "polibiana" della riflessione politica; si augura infatti che Lucceio individui le cause dei recenti moti civili e rivoluzionari e suggerisca le soluzioni ai problemi. Su tale programma Cicerone tornò in un passo del trattato retorico De oratore, in cui sono però maggiormente sottolineate quelle esigenze di obiettività e di scrupolo storico che nella lettera a Lucceio apparivano messe quasi tra parentesi. L’imparzialità e il rigore sono, afferma Cicerone, i fundamenta, gli ovvi presupposti della storiografia; la loro traduzione concreta (exaedificatio) spetta poi ai contenuti (res), che devono essere i più precisi possibile, e allo stile (verba), cui si chiede il pregio della bella forma. Cicerone guarda a una storiografia consapevole degli artifici retorici che sono alla base dell’eloquenza, anche se poi l’effetto finale sarà diverso: allo storico si addice infatti "uno stile diffuso e pacato, che fluisce con dolcezza e privo di asperità, senza gli sbalzi e le punte polemiche tipiche dell’eloquenza dei tribunali" (De oratore II, 64). Il modello è qui offerto dalle opere di Erodoto e, più ravvicinatamente, dallo stile isocrateo, che ricorreva solo moderatamente ai colores della retorica e che risultava piacevolmente scorrevole e sintetico, Grazie a tale cura stilistica, l’opera storica potrà davvero divenire opus oratorium maxime ("opera essenzialmente di scrittori"), come Cicerone riassume nel De legibus (I, 1, 5). Si può ricordare anche un altro passo dello stesso De oratore: «la storia è testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita (magistra vitae), messaggera dell’antichità», che è, come commenta Domenico Musti, «il condensato della poetica storiografica di stampo isocrateo, come ha trovato accoglienza e fertile terreno in Roma».

La crisi della respublica nelle due monografie storiche di Sallustio
Agli auspici di Cicerone non rispose il suo amico Lucceio, ma Sallustio. Tuttavia, benché abbia effettivamente interpretato il genere storico come opus oratorium maxime, il primo grande storico romano non si scelse come modello Erodoto, bensì Tucidide; si adatta benissimo a definire lo stile sallustiano un ritratto dello stile tucidideo offerto, nel De Thucydide, dal retore greco Dionigi di Alicarnasso, che visse a Roma pochi anni dopo Sallustio: «Quelli che scrivono opere storiche, a cui si richiede magnificenza, solennità e un discorso che produca stupore, devono anzitutto mirare a uno stile ricco di termini insoliti, antichi e metaforici, lontani, perché strani e inusuali, dai costrutti comuni». Effettivamente ciò che colpisce immediatamente il lettore di Sallustio è proprio l’uso di uno stile «tucidideo», con gli arcaismi in funzione poetica, le trasposizioni nell’ordine del discorso, il troncamento di frasi e di periodi. Anche il modello di storia «drammatica» della scuola peripatetica, incentrato sull’ethos del personaggio, agiva però su Sallustio: in effetti le sue due monografie storiche, il De Catilinae coniuratione (sulla congiura di Catilina del 63 a.C.) e il Bellum Jugurthinum (sulla guerra in Numidia contro Giugurta del 111 - 105 a.C.), s’incentrano su un personaggio (Catilina nella prima, Mario nella seconda) cui è attribuito grande rilievo anche dal punto di vista dell’analisi psicologica e attorno al quale ruotano altri protagonisti di contorno (Cesare, Catone l’Uticense, Fulvia nella prima opera; Giugurta, Silla, Bacco nella seconda). A tale concentrarsi dell’attenzione attorno a una vicenda centrale, con le sue principali diramazioni, contribuisce la scelta, originalissima, del sottogenere monografico: l’unico precedente di un qualche rilievo era lo sguardo monografico dedicato, in senso però più ampio, da Celio Antìpatro alla seconda guerra punica. L’impostazione monografica consente a Sallustio di focalizzarsi su un singolo problema storico, pur entro una visione più ampia della storia romana, e di confrontarsi così con le «malattie» di cui soffriva la respublica. Di tale crisi sono diagnosticate la genesi e le manifestazioni più acute e viene indicata una possibile terapia: la storiografia sallustiana è, secondo la migliore tradizione dell’historia a Roma, strettamente legata alla prassi politica. All’origine di tutto vi sono il deterioramento del mos maiorum (il moralismo è una componente decisiva in Sallustio e tale rimarrà in tutta la grande sto­ riografia romana, da Livio a Tacito) e la corruzione della nobilitas, incapace di porsi come guida autorevole dello stato. In Catilina lo storico emblematicamente incarna il rischio dell’avventura sovversiva e senza ritorno, connesso allo scadimento della lotta politica tra le factiones. Quanto ai rimedi, infine, la speranza dell’autore è riposta in Cesare, colui che potrebbe risolvere la crisi della respublica e ristabilire l’ordine su basi politiche nuove. Dopo l’uccisione di Cesare, tutte le speranze di Sallustio paiono però venire meno: un cupo clima di pessimismo domina le Historiae, l’opera sua di maggiore respiro, rimasta incompiuta per la morte (avvenuta nel 35 o 36 a.C.) e della quale ci sono giunti pochi frammenti.


Erodoto
Storico greco ( 484-424 a.C), nato ad Alicarnasso, in Asia Minore, da famiglia illustre. Poco sappiamo della sua vita; ancora giovane, andò esule a Samo, essendo la sua famiglia coinvolta nel fallito. tentativo di rovesciamento del tiranno Ligdami. Viaggiò molto, anche in Oriente e in Egitto. In Atene fu attivo nell’entourage di Pericle; leggeva pubblicamente, a pagamento, sezioni delle sue Storie. L’opera, suddivisa in nove libri, è dedicata ai rapporti greco-persiani (dal VII secolo a.C. fino alle guerre persiane del V secolo a.C.); non segue un ordine preciso, cronologico o geografico, ma ospita continue digressioni: perciò si è pensato che fosse nata da una serie di monografie autonome. Conobbe in ogni caso molti rimaneggiamenti nel corso dell’intera vita dell’autore, cosa che evidenzia il suo legame con l’arcaica cultura orale, anche dal punto di vista culturale (presenza di eventi favolosi; apertura enciclopedica a interessi etnografici, geografici ecc.; ambizione di dilettare il lettore, preservando la memoria delle imprese). Perciò, a paragone della storiografia più «scientifica» di Tucidide, le Storie furono ritenute opera «primitiva»; le recenti rivalutazioni hanno invece messo in luce lo straordinario talento narrativo di Erodoto e la sua sostanziale attendibilità.

Tucidide
Storico ateniese (460 ca - 404 a. C.), nato da famiglia agiata, forse imparentata con Milziade e Cimone; fu stratego in Tracia nel 424-423 a.C., ma non riuscì a impedire che il persiano Brasida conquistasse Anfipoli. Fu perciò esiliato da Atene; nei venti anni successivi (dall’inizio del 431 all’estate del 411 a. C) si dedicò alla sua opera storica, La guerra del Peloponneso, in otto libri dedicata al conflitto tra Sparta e Atene. Tucidide poté ritornare in patria e vedere la fine della guerra (403 a .C). Rimasta incompiuta, la Guerra del Peloponneso si apre con l’Archeologia, una serie di capitoli dedicati alla storia greca arcaica, e poi analizza minuziosamente le cause prossime del conflitto. Il racconto dei fatti bellici comincia dal secondo libro e procede scandito per estati e inverni, con grande rigore documentario e limitandosi unicamente alla sfera politica e militare. Grande rilievo «drammatico» assumono nella sua opera i discorsi, messi in bocca a diversi personaggi «così come mi sembrava - scrive lo storico - che potessero parlare». Tucidide, che adotta un linguaggio complesso, ricco di ipotassi, si pone lo scopo di un’analisi spassionata della natura umana, cosi da poter prevedere i futuri comportamenti degli uomini. La sua storiografia «scientifica» e politica ebbe molti imitatori, tra cui Polibio e Sallustio.
Postato il 20 gennaio 2013

15 gennaio 2013

Aborto post-nascita, si riapre la polemica

di Lucia Bellaspiga
Per chi avesse ancora il dubbio - assai lecito e comprensibile - di non aver capito bene la tesi di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, ieri all’università di Torino i due giovani studiosi italiani docenti in Australia la ribadivano a chiare lettere: «Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita». Ovvero: al pari del feto, anche il bambino già nato non ha lo status di persona, pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, anche quando il neonato non ha alcuna disabilità ma ad esempio costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia.
«È la prima volta che ci invitano a parlarne in Italia e per noi è una grossa occasione», hanno esordito i due colleghi dell’università di Melbourne ringraziando Maurizio Mori, direttore del master di Bioetica all’ateneo di Torino, per aver organizzato il dibattito. «Le nostre non sono idee nuove - hanno ammesso i due -, già filosofi come Singer negli anni ’70 le hanno elaborate, ma il nostro intento era rendere esplicite certe conseguenze normative e tenere conto di implicazioni socioeconomiche: se queste sono importanti per ammettere l’aborto, allora lo sono anche se il bambino è già nato». Uno dei loro maestri è Peter Singer, dunque, caposcuola a Melbourne della bioetica utilitarista, ma loro lo superano persino: «Singer finora ne aveva parlato solo in caso di imperfezioni, in particolare lui citava i bambini nati con sindrome di Down in quanto vite non degne di essere vissute. Noi accettiamo che la sindrome di Down e le altre malattie sono una buona ragione per abortire, tutelando così gli interessi di chi dovrà sobbarcarsi l’onere di crescere queste persone, ma coerenza vuole che ciò valga anche per uccidere un neonato dopo la nascita».
Quali siano allora queste caratteristiche che ci rendono persona è presto detto: «Non basta per esempio provare piacere o dolore, perché ciò avviene anche a un feto, serve uno sviluppo neurologico superiore, cioè avere degli scopi, delle aspettative verso il futuro, provare un interesse per la vita. E un neonato non li ha».
Teorie che i due studiosi avevano già pubblicato nel 2012 sul Journal of Medical Ethics con un articolo dal titolo esplicito - "After birth abortion: why should the baby live?" -, scatenando polemiche a tutte le latitudini e, obiettivamente, trovando ben pochi estimatori anche nel mondo più laico. «Prima di oggi abbiamo subìto una gogna mediatica - ha lamentato Francesca Minerva - ci hanno minacciati, ho persino avuto paura di morire. In fondo alle idee di Singer di 30 anni fa, quando non eravamo nemmeno nati, noi abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia disabile per poterlo uccidere». Ma a Maurizio Mori, già tra i più decisi sostenitori dell’eutanasia di Eluana Englaro (e a nostra esplicita richiesta enumerato tra i maestri cui i due australiani si sono ispirati), la loro tesi è invece sembrata argomento degno di serio dibattito: «Siete troppo modesti. Non avete aggiunto solo un pezzetto, avete anche inventato un nome: aborto post-nascita».
«Non è vero che di tutto bisogna poter parlare nelle università - gli ha opposto Assuntina Morresi, membro del Comitato nazionale di bioetica -, non esiste una neutralità del mondo accademico: come nessuno si sognerebbe di sostenere da una cattedra il negazionismo della Shoah o una tesi discriminatoria contro i neri, così l’omicidio dei neonati è un tema che non va ospitato. Astrarre vuol dire abbracciare un’ideologia pericolosa che ci permette di fare tutto».
Le tante incoerenze e aporie logiche le ha sottolineate anche Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica della Cattolica di Milano: «Se per essere persona occorre provare un interesse per la vita, allora chi chiede l’eutanasia non va ascoltato, perché non gli interessa vivere, dunque è una non persona. Già le premesse, insomma, sono sbagliate». Non solo: se è vero che il neonato in fondo è la stessa persona che un attimo prima era feto, «il ragionamento è vero anche all’inverso, e allora è l’aborto a diventare illecito». Artificiosa, secondo Pessina, anche l’identificazione aborto/omicidio: il primo infatti sorge quando non si possono tutelare entrambi i diritti, della madre e del nascituro, «ma quando il figlio è nato, posso senz’altro correre incontro ai diritti della madre senza eliminare il bambino, ad esempio con l’adozione».
In una situazione "paradossale" si è detto Giovanni Fornero, storico della filosofia e dichiaratamente laico: «Sono uno dei maggiori teorici della differenza tra bioetica cattolica e laica, ma sull’uccisione dei neonati le due non possono che coincidere. Mi stupisce che Giubilini e Minerva si lamentino della gogna: oggi viviamo in società democratiche che hanno come idea fondamentale il fatto che tutti gli esseri umani hanno pari diritti. Per far valere tale uguaglianza si sono versati lacrime e sangue, fino alla "Dichiarazione dei diritti dell’Uomo" del 1948, non a caso scritta dopo il nazismo. La tesi dell’infanticidio mina la base su cui poggiano tutte le Carte internazionali. La bioetica laica reagisca: come dice Bobbio, non lasciamo ai soli cattolici la prerogativa di combattere affinché il precetto di non uccidere sia rispettato».
Più volte abbiamo chiesto ai due studiosi quale valore aggiunto porti infine il discettare di omicidio dei neonati. Non abbiamo ottenuto risposta.
«Avvenire» del 12 gennaio 2013

11 gennaio 2013

La censura sta cadendo

La vita è vita, una foto aiuta a capirlo
di Carlo Bellieni
Ha fatto il giro della rete una foto postata nei giorni scorsi su Face­book: un feto che stringe il dito del me­dico che lo sta facendo nascere col par­to cesareo. Si tratta, scrivono, della pic­cola Nevaeh di Glendale, Arizona; e colpisce il numero di siti di quotidiani che riportava la foto (pubblicata an­che da Avvenire venerdì 4 gennaio nel­la pagina degli editoriali), nonostante sia "politicamente scorretta": che an­titesi con la vulgata che vorrebbe la vi­ta fetale una vita non di persona uma­na! Ci ricorda altre foto di feti-bambi­ni attaccati alla vita e simbolicamente alla mano del chirurgo che li sta ope­rando ancora nel pancione. Già ricor­diamo lo stupore per le immagini trasmesse durante una puntata della se­rie Tv «House Md», in cui il dottor Hou­se, cinico e ateo, resta a bocca aperta di fronte alla manina del feto che lo sfiora uscendo dall’utero materno, mentre lui sta decidendo se farlo vive­re. Cosa anima tanto stupore se non la rimozione per un breve momento del­la censura che non vuole che si parli di vita del feto, e che si mostri al grande pubblico?
Censura che crolla in campo scientifi­co: la vita fetale è ormai sempre più og­getto di studi. Per i ricercatori dell’U­niversità di Washington (Acta Paedia­trica 2012) il nascituro inizia ad ap­prendere le parole sin da quando cre­sce nel ventre materno, durante i me­si di gestazione. Non è una cosa nuo­va, simili studi già erano stati fatti, ma colpisce l’eco mediatica che trovano, per la bellezza che esprimono e per il paradosso di affermarla in un mondo culturale che è pronto a negarla quan­do non gli convenga più. E la presti­giosa rivista Nature nel giugno 2012 pubblicava un dettagliato articolo sul­lo sviluppo dei gusti per gli alimenti già nella vita fetale, a seconda di quel­lo che la mamma mangia e che viene filtrato nel sangue fino ad arrivare alle labbra del feto. Anche un recente nu­mero del Journal of Developmental and Behavioral Pediatrics spiega come il fe­to reagisca differentemente alla voce materna a seconda del suo stato di sa­lute; e come non ricordare Sento dun­que sono (Cantagalli 2012), libro in cui vengono raccolti gli scritti dei maggiori studiosi mondiali di sensibilità tattile, gustativa, dolorosa, olfattiva, che si e­sprimono su una semplice domanda: cosa prova un feto prima di nascere?
Si tratta di non censurare: già prima di nascere il nostro cervello è ben in a­zione e pronto ad apprendere e sor­prendere. Perché immagazzina nozio­ni e informazioni che gli serviranno per crescere armonico (gli stimoli for­giano il cervello fetale) e anche per co­noscere quello che lo aspetta fuori del­l’utero materno, perché il latte, le vo­ci, le carezze non lo colgano imprepa­rato. Una sensibilità prenatale che ov­viamente impone rispetto, che non viola nessun presunto 'diritto all’au­todeterminazione', ma semplicemente afferma una verità: la vita inizia prima di vederla all’aria aperta, e sic­come la scienza è anche l’arte di mo­strare tramite dimostrazioni e prove quello che gli occhi non vedono, la scienza aiuta a capire che la vita è vita anche quando non si vede: nessuno è autorizzato a considerarla non-vita so­lo perché nascosta o estremamente piccola.
Quello che ci colpisce della foto della manina che esce dall’utero è però l’ambivalenza nell’accogliere queste sem­plici verità: si riconosce che il feto è vi­ta umana dai dati scientifici, ma si è pronti a negarlo. Si negherà quando si tratta di trarre le conseguenze etiche, nonostante le decisioni contrarie alla vita cozzino con l’evidenza scientifica; si negherà con una triste forma di cen­sura applicata proprio da chi invece si fa a parole paladino delle libertà indi­viduali. Ma come tutte le censure, è de­stinata a breve vita.
«Avvenire» del 9 gennaio 2013

Spaemann: senza fini che vita è?

«Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico» il saggio di Robert Spaemann edito da Ares (pagine 464, euro 19,50) viene presentato oggi a Roma, nell’aula magna Giovanni Paolo II della Pontificia Università della Santa Croce (piazza Sant’Apollinare, 49), alle ore 17. Sarà l’occasione per riflettere sull’intero percorso di studio del grande filosofo tedesco. Apre l’incontro il cardinale Camillo Ruini, cui seguiranno il rettore monsignor Luis Romera, i sociologi Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi, mentre le conclusioni saranno dello stesso Spaemann.
di Andrea Galli
«Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al perché». Il famoso frammento che Friedrich Nietzsche scriveva sul finire dell’800 fotografava il disorientamento di fronte a un mondo in cui venivano meno i valori tradizionali, tra cui, in filosofia, la caduta verticale del finalismo o teleologia, per usare il termine introdotto oltre un secolo prima da Christian Wolff. L’idea per cui nella comprensione del mondo abbiamo bisogno non solo della dinamica causa-effetto, ma anche della domanda sul fine per cui qualcosa viene fatto o è considerato buono. Nel ’900 si è intonato da più parti il de profundis per la teleologia, con un azzardo che più passa il tempo, più si rivela tale. A dimostrare come e perché sia avvenuto l’oscuramento della teleologia, a partire dal tardo medioevo, e come sia possibile oggi un suo recupero, aveva dedicato un corso universitario tra il 1976 e il 1977 Robert Spaemann. Da quelle lezioni, trascritte dall’allievo Reinhard Löw e poi rielaborate, uscì nel 1981 il libro Die Frage Wozu (La questione del perché), che in una nuova edizione del 2005 ha preso il titolo di Natürliche Ziele (Fini naturali, che esce a giorni in libreria per le edizioni Ares. Si tratta di un’opera poderosa per ampiezza dell’analisi storica, da Platone all’epistemologia della scienza contemporanea, e per acribia polemica. Sicuramente il capolavoro di Spaemann, oggi il maggior filosofo cattolico di lingua tedesca, anche se la definizione non gli piace. Preferisce definirsi un filosofo che contemporaneamente è cattolico.

Coetaneo del Papa, per la cronaca, è nato da genitori convertiti : il padre, rimasto vedovo, fu anche ordinato sacerdote.
Professore, cos’è in pillole la teleologia?
«Con teleologia intendiamo l’interpretazione dei processi dal punto di vista della loro finalità. Quando uno entra in un ristorante e ci si chiede il perché, la risposta è: per mangiare qualcosa. C’è naturalmente anche una spiegazione intermedia di tipo materiale, di cui si è occupato già Socrate. Alla domanda rivolta a Socrate sul perché non evade dal carcere, la sua riposta è: perché le mie gambe non si muovono oltre. La risposta al perché non si muovono oltre è: perché io voglio rimanere qui. In questo caso la spiegazione scientifica sarebbe invece la descrizione della contrazione dei muscoli: solo la metà della realtà».
Allargare il nostro concetto di ragione. È un richiamo che Benedetto XVI ha fatto diverse volte, in primis nel discorso di Ratisbona del 2006. Il recupero della teleologia è una via per questo obiettivo?
«Io non direi che la teleologia è la via e l’allargamento della ragione è il fine. Piuttosto che questo allargamento ha come conseguenza la riabilitazione della riflessione teleologica. Alla domanda perché uno entra in un ristorante, non è solo ragionevole rispondere perché le sue gambe lo portano lì, ma anche affermare che ciò avviene perché c’è un fine: mangiare qualcosa. È ragionevole prendere atto di ciò e del fatto che, limitandosi alla causalità, non si ha una descrizione completa della reale».
Quali sono oggi gli ostacoli per questa riabilitazione?
«Dietro alla negazione della teleologia c’è stato e c’è ancora l’interesse al dominio della natura. La riflessione teleologica permette di capire i fenomeni, l’osservazione e lo studio della causalità dei fenomeni conferisce invece il potere di manipolarli. Francis Bacon l’ha espresso in modo efficace: “L’osservazione dei processi naturali sotto l’aspetto del loro orientamento a un fine è sterile, è come una giovane vergine votata a Dio: essa non genera nulla”. O si pensi a Thomas Hobbes, secondo cui conoscere una cosa significa “immaginare cosa possiamo farne, una volta che la possediamo”. Oggi comunque la riscoperta della teleologia è già in atto. I biologi hanno cercato a lungo di farne a meno, ma non ce l’hanno fatta. Così hanno introdotto un altro concetto, la teleonomia, un surrogato della teleologia, con cui si indicano processi che si svolgono come se avessero un fine, ma che in realtà obbediscono solo a una causalità meccanica. Per il biologo la teleologia, ha scritto John B.S. Haldane, “è come un’amante, non può vivere senza di lei, ma non vuole essere visto in pubblico con lei”».
Sempre sul versante della biologia, ha fatto rumore negli ultimi anni la critica alla all’evoluzionismo di matrice darwiniana in nome di un “intelligent design”. Considera anche questo un contributo al recupero della teleologia?
«Penso che la teoria dell’intelligent design – che parla di un progettista al di fuori del mondo – abbia messo in luce una paura che riguarda anche chi è ostile alla teleologia: la paura di Dio. La fede in Dio non è il presupposto della conoscenza di processi teleologici – che può avvenire con mezzi di ragione naturali – semmai è la sua conseguenza. Quando si ha paura di questa conseguenza, cioè di Dio, ci si rifugia spesso in soluzioni fantastiche e irragionevoli. È comunque una paura infondata. Il creatore risiede al di fuori dei processi della creazione. È come se dovessimo analizzare un film sulle vicende dell’umanità. All’origine del film deve esserci sicuramente un proiettore: senza di lui, scompare anche il film. Ma il proiettore non “entra” nelle varie scene. Chi guarda il film può riconoscere dei validi motivi per ipotizzare che ci sia un proiettore alla sua origine, ma non vi s’imbatte direttamente. Così come il fisico non si imbatte direttamente in Dio. Solamente quando parla del Big Bang, lo scienziato si trova di fronte un muro: su cosa ci sia oltre non può dire nulla. Il credente può invece fornire una spiegazione, il che fa dire che le ambizioni della ragione vengono rafforzate dal collegamento con la fede».
Perché la lingua, come lei sostiene in “Fini Naturali”, è un baluardo della teleologia?
«Perché essa è il medium nel quale appare primariamente il significato e nel quale i fatti, in modo irriducibile, non si presentano semplicemente come tali, ma significano qualcosa, stanno come simboli per qualcosa che presuppone un destinatario, qualcuno in grado di comprenderli. Ogni biologo che scrive un libro, non può spiegare la scrittura del libro in modo causale-meccanico. Discutendo una volta con un biologo a Tubinga, dopo la sua relazione ho detto che a noi non interessava capire i processi neuronali sottostanti il suo intervento, ma capire se quello che aveva detto era giusto o no. La lingua non può essere abolita e il suo carattere teleologico neppure. Nietzsche lo aveva compreso e aveva ammesso che, quando un uomo si impegola nel parlare e nell’argomentare, è spacciato: perché “la lingua contiene, fossilizzati, gli errori fondamentali della ragione”».
«Avvenire» del 10 gennaio 2013

L’Europa e il populismo di Pilato

I fini della natura e della ragione a confronto con la fede nel pensiero del filosofo Robert Spaemann e del cardinale Ruini
di Gian Guido Vecchi
«Se si rinuncia a cercare la verità, tutto diventa una questione di potere»
«Vede, sono cresciuto all'epoca del nazismo e ho visto da giovane che la maggioranza degli uomini può pensare in modo sbagliato. Io e la mia famiglia stavamo dall'altra parte. E per me è come un riflesso, ho imparato che l'uomo e il senso comune vanno difesi, sempre, nel caso anche contro la maggioranza». Robert Spaemann, 85 anni, già successore di Gadamer nella cattedra di Heildelberg, è uno dei massimi filosofi contemporanei, coetaneo e amico di Joseph Ratzinger. All'università della Santa Croce di Roma, dalle 17 di oggi, verrà presentato il suo capolavoro Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico (Ed. Ares) tradotto in italiano con la prefazione del cardinale Camillo Ruini. Che riflette sul «mancato riconoscimento delle basi morali e prepolitiche dello Stato» ricordando il discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino: una «ragione positivista» che si presenti come esclusiva «non può creare alcun ponte verso l'ethos e il diritto» e somiglia «agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo clima e luce da soli e non vogliamo più riceverle dal mondo vasto di Dio». Il volto affilato e lo sguardo penetrante, il professor Spaemann siede accanto a Ruini a casa del cardinale. Il suo libro ripercorre l'idea di télos come «fine» o «scopo» da Platone e Aristotele, la rinuncia alla «causa finale» e al pensiero di un finalismo nella natura e nella ragione a partire dalla rivoluzione scientifica del XVI secolo, fino alle aporie della riflessione contemporanea e alla proposta di un ritorno al vecchio télos. Questioni ardue, anche se Spaemann rovescia il cliché del filosofo lontano dal senso comune, la serva tracia che nel Teeteto di Platone deride Talete caduto nel pozzo: «Io difendo dallo scientismo il senso comune delle persone semplici, la ragione».
Le riflessioni ontologiche del libro riguardano questioni attuali. Vita, morte, temi etici, biopolitica. Molti partiti tendono a lasciare libertà di coscienza. Che ne pensate?
Spaemann: «Il Papa parla di dittatura del relativismo. E il relativismo radicale è una cosa molto pericolosa. Alcuni pensano sia la condizione della tolleranza, ma è vero il contrario. La tolleranza si fonda sul rispetto dell'uomo, della persona. Se questo scompare, se qualcosa come la natura dell'uomo non esiste, allora con l'uomo ? e la natura ? si può fare di tutto. Solo se la tolleranza si fonda su una convinzione profonda, è stabile. Del resto una cosa sono i giudizi, un'altra la decisioni di coscienza. Coscienza è convinzione che certe cose siano buone o giuste. Se c'è un confronto tra due coscienze e dicono cose diverse, si deve tollerare l'altro ma non è possibile siano ambedue corrette».
Ruini: «Il professore mette in chiaro che le convinzioni di coscienza non sono solo un fatto individuale ma riguardano il vero e il falso. L'umanità del XXI secolo si trova di fronte a questioni fondamentali che prima non erano rimesse alle nostre scelte personali, sociali, politiche. Sui grandi temi etici e antropologici, allora, è certamente una questione di coscienza, ma non solo. Io ricorrerei piuttosto al concetto di obiezione di coscienza. Una forza politica può dire: se qualcuno non è d'accordo, è concessa l'obiezione di coscienza. Ma non si può ridurre tutto alla coscienza personale dei singoli esponenti, senza che ci sia una presa di posizione e una linea da seguire. Non è adeguato alla rilevanza pratica del problema oggi».
Ne «L'infanzia di Gesù», Ratzinger sembra porre come icona dello scetticismo moderno Pilato che chiede: cos'è la verità?
Spaemann: «Sono d'accordo, la sentenza di Pilato è la vittoria del populismo sul diritto. Gesù muore a causa della mancanza di coraggio di un giudice. Se non c'è la verità tutte le questioni diventato questioni di potere. Ed è quanto accade oggi. In Europa c'è grave limitazione della libertà di opinione. Non si dice: ciò che sostieni è falso. Si dice: questo non lo puoi sostenere! Non ci si chiede se sia vero o no, ma se sia politicamente corretto o meno. E ciò che è politicamente corretto lo decide chi ha il potere».
Ruini: «Ci può essere mancanza di coraggio, ma io vedo soprattutto una grande confusione di idee: proprio perché si pensa che la verità sia un concetto vecchio, superato».
Si mettono in discussione le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» di Galileo. Non è antimoderno?
Spaemann: «In Hobbes dietro la conoscenza di una cosa c'è la volontà di cambiarla, di potere. Francis Bacon sosteneva che l'orientamento al fine in natura è come "una giovane vergine votata a Dio, essa non genera nulla". Ma l'esito è che ci resta solo in big bang, non c'è nulla che l'uomo sappia. Così non abbiamo bisogno di una nuova scienza, la scienza è come è, ma ci vuole una valutazione nuova dell'insieme della vita umana e della natura».
Ruini: «Il libro di Spaemann non è contro la scienza moderna ma contro l'assolutizzazione del sapere scientifico come unica forma di sapere autentico. La scienza esclude metodologicamente la questione della causa finale, ma questo non significa che se ne debba prescindere in assoluto».
Professore, si dirà: questioni astratte...
Spaemann: «La teleologia è la convinzione della ragione verso se stessa. Cartesio dice che se dai un calcio a un cane non prova dolore, è una macchina, ma ciascuno vede quando un animale soffre, lo sa. Viviamo in un mondo che tenta sistematicamente di dire che non è corretto ciò che l'uomo sa, da sempre, su se stesso. Il senso comune va difeso dalla manipolazione delle masse».C'è il rischio, eminenza, che un pensiero «orientato alla verità» venga usato ipocritamente, come falsa bandiera elettorale?
Ruini: «Il quadro è complesso, c'è anche chi cerca voti parlando contro i valori etici. Il rischio di strumentalizzazione, in politica, c'è sempre, è difficile distinguere. Ma è un rischio che si supera con la verifica di ciò che veramente le forze politiche fanno quando ne hanno la possibilità. Sul tema della famiglia, per dire, un po' tutti sono disposti a dichiarare. Se poi si va a verificare è stato fatto pochissimo...».
«Corriere della Sera» del 10 gennaio 2013

«Sì ai diritti per le coppie gay. Ma si nasce da uomo e donna»

Il dibattito sulle famiglie omosessuali dopo l'articolo di Galli della Loggia
di Daniela Monti
Ogni libera scelta comporta delle conseguenze. Apriamo un confronto nelle università. Il filosofo Pessina: non si cerchi la parità a tutti i costi
Differenze da tutelare. Differenze «niente affatto indifferenti». Quante volte Adriano Pessina, cattedra di Bioetica alla Cattolica di Milano, nomina la parola differenze? Tante. È il termine chiave, spiega, nell'affrontare un tema caldo, che fa accapigliare, come è quello delle famiglie gay e del loro desiderio, che chiede spazio, di avere una famiglia. L'intervento di Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere, ha riaperto il dibattito: giusto che gli omosessuali abbiano figli? Sì, ha risposto un papà gay, chiedendo per sua figlia gli stessi diritti riconosciuti agli altri bambini. No, ha risposto la psicanalista Silvia Vegetti Finzi, spiegando l'importanza di crescere «con entrambe le figure genitoriali». «Ma oggi l'identità si costruisce su una rete di persone, che diventano affettuosi riferimenti al di là del grado di parentela», ha sostenuto lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, aggiungendo la propria voce. Ora il filosofo Pessina, cattolico, che ritiene l'omosessualità «una scelta libera, un certo modo di essere e di esistere che va compreso» lasciando però aperta la questione, «che vale per qualsiasi altra scelta di vita», di come debba essere valutata e di come, e se, debba essere socialmente e giuridicamente tutelata. «Nel dibattito sull'omosessualità si tende a negare che esista una differenza fra maschile e femminile, sostenendo che sia indifferente essere maschio o femmina e che sia dunque indifferente che una coppia sia formata da un uomo e una donna oppure da due donne o da due uomini ? premette ?. Tanto l'importante sarebbe amarsi...». Ma il maschile e il femminile, continua, sono necessari per la definizione stessa della condizione umana, «e non si può certo sostenere che la differenza fra uomo e donna sia una teoria cattolica: è invece fondamentale persino per l'evoluzionismo». Dove ci porta tutto questo? «All'idea che la complementarietà fra i due sessi è decisiva per tutti: una società matura deve valorizzare la differenza, non mortificarla. Gli omosessuali negano l'importanza di una relazione con un partner di sesso differente. Scelta libera, che va accettata. Dobbiamo però convenire che, come qualsiasi altra scelta, l'omosessualità deve poter essere valutata e giudicata». E la valutazione che Pessina ne dà è in chiaro scuro. «Ogni libera scelta comporta delle conseguenze. I figli nascono da relazioni eterosessuali, non omosessuali. Quando si sceglie il proprio comportamento sessuale bisogna tenerne conto e assumerne le conseguenze con serena responsabilità. È forse una banalità, ma va detta». La scienza ci consente di raggiungere risultati un volta difficili da immaginare: questo ha cambiato notevolmente le cose. «La scienza e la tecnologia hanno trasformato in modo profondo la nostra esperienza ? concorda Pessina ?. Ma dobbiamo essere noi a gestire la tecnica, non il contrario». Le tecniche di procreazione assistita, per esempio: erano nate all'interno di un disegno che voleva agevolare la relazione di coppia, continua il bioeticista, «ora però siamo passati da un'idea di aiuto a quella di un indiscriminato diritto ad avere figli». Se sono omosessuale devo dunque rassegnarmi a non avere figli: è così? Quali scelte una società deve tutelare e quali lasciare aperte alla discussione? «È giusto che lo Stato tuteli con maggior vigore la famiglia eterosessuale come luogo della nascita. Un conto è parlare del riconoscimento di alcuni diritti giuridici degli omosessuali (che ritengo giusti), un conto è sostenere il diritto ad avere figli (come se esistesse, poi, questo diritto: nessuno ha diritto a un figlio, perché i diritti si hanno sulle cose, non sulle persone)». Il rischio e che si dica che una cosa «è buona solo perché è frutto di una libera scelta. Ma la vera domanda è: qual è il "valore aggiunto" proprio dell'omosessualità che lo Stato può tutelare?». Lei come risponde? «Non credo che nell'omosessualità ci sia un "di più", ma sono disposto ad ascoltare dialogare. Vedo però qual è il "di più" dato dall'eterosessualità: il difficile equilibrio di una relazione che comprende le differenze fra maschile e femminile, che va anche al di là della questione dell'avere figli». Il primo studio sui figli di genitori omosessuali risale al 1972: quarant'anni di lavori scientifici, in larghissima parte favorevoli a queste coppie e alle famiglie che hanno creato, vorranno dire qualcosa. «Come tutti i dati della scienza vanno verificati, ma il problema va posto all'origine e non guardando i risultati. Di fatto ci sono bambini equilibrati che sono stati allevati da famiglie poligamiche, o che sono cresciuti in orfanatrofio. Il problema resta un altro: qual è il contesto ideale nel quale pensare lo sviluppo della persona? Le differenze fra maschile e femminile sono un aspetto decisivo dell'umano. Che non può essere negato».In Europa molti Paesi sono più avanti di noi in materia di diritti, per tutti. «Questa è una valutazione di cui discutere. Le differenze non possono essere viste sempre e solo come un problema, ma anche come una possibilità. Perché invece di copiare dagli altri paesi non maturiamo insieme una scelta argomentata, non ideologica, in cui contino i valori umani e non solo la lotta per difendere i propri interessi più ancora dei diritti condivisi?».Il punto d'arrivo del discorso di Pessina: discutiamone, «apriamo un tavolo, senza ideologia, con "simpatia", cioè capacità di comprendere ciò che anche gli altri sentono, ragionando, argomentando». Un tavolo dove? «Il luogo più adatto è quello della cultura alta: l'università, dove però oggi si rivendicano diritti più che affrontare, in modo serio, le discussioni (ma noi siamo il paese delle emergenze, le discussioni su gay e figli diventeranno materia da campagna elettorale, dunque sono già bruciate. E intanto non ci rendiamo conto che, in questo genere di cose, o vinciamo tutti o perdiamo tutti)».
«Corriere della Sera» del 4 gennaio 2013

Le famiglie gay e i figli «Più attenzione ai bambini per essere buoni genitori»

Lo psicoterapeuta: «Difficile coniugare politica, etica e ideologia. Proviamo ad ascoltare chi vive queste esperienze»
di Luisa Pronzato
Scaparro: l'identità si costruisce su una rete di persone
Niente guerre sui bambini, niente fanatismi né da parte di chi sostiene le famiglie omoparentali né da parte di chi non le accetta. Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e neuropsichiatra che sulla famiglia lavora da una decina di lustri, non prende parte. «Concordo con Silvia Vegetti Finzi sul Corriere di ieri: i bambini hanno diritto di crescere per quanto le circostanze della vita lo consentiranno con una mamma e con un papà», dice. «Ma non seguo il discorso di Ernesto Galli della Loggia che nel suo editoriale di domenica ha sostenuto che i genitori omosessuali non possono creare buone famiglie». I genitori, sostiene Scaparro, non sono buoni sulla base del loro orientamento sessuale. Due mamme, due papà. Genitori dello stesso sesso. La società sta attrezzandosi a considerarli al pari di ogni padre e ogni madre. La politica (le leggi) e l'etica spesso non trovano accordo. Galli della Loggia nel suo editoriale ha investito la psicanalisi perché legga, al di là delle morali, le dinamiche che si creano crescendo con genitori dello stesso sesso. Silvia Vegetti Finzi, seguendo le teorie freudiane, ha rimesso il punto sulla necessità della figura maschile e femminile nella costruzione dell'identità. «Per dirla con Freud, è costruttivo crescere con modelli nei diversi generi», dice Scaparro. «Ma oggi l'identità non si costruisce solo nel rapporto con i genitori. Si diventa grandi attraverso un'intensa rete di persone di ogni sesso, dagli zii all'allenatore, agli amici dei genitori che diventano affettuosi riferimenti al di là del grado di parentela». Scaparro riporta al pensiero di Winnicott e alla definizione di «ambiente sufficientemente buono». Necessario per uno sviluppo cognitivo e psicologico equilibrato», dice Scaparro. L'elenco è lungo qualche decennio di studio ma si sintetizza con il contenimento, la stimolazione cognitiva e affettiva, l'attendibilità e coerenza degli adulti, l'empatia, l'ascolto, la flessibilità. In pratica la sicurezza e guida della famiglia. «Un clima attento anche a dire no quando è il momento. Un ambiente non dico privo di tensioni ma dove si imparano le regole della convivenza tra diversi e la difficile arte di non trasformare i conflitti in guerra né il confronto in opposizione muro a muro. Non c'è una di queste voci che genitori dello stesso sesso non possano garantire». È una questione di diritto alla famiglia più che di genere dei genitori... «Si parla delle nuove famiglie ma la discussione è al calor bianco quando si tocca il tema, ormai la realtà, delle famiglie omoparentali», insiste lo psicoanalista. «Di fronte ad attacchi forsennati come quelli di chi sostiene che crescere con genitori omosessuali è un'aberrazione che produrrà psicotici e psicotiche, ci sono studi che lo smentiscono. Come quello del francese Boris Cyrulnik che mostra come i bambini cresciuti con genitori omosessuali non abbiano più difficoltà psicologiche degli altri. Forse il problema è che i loro genitori devono dimostrare di essere migliori degli altri. Devono essere perfetti. E perfetto non è nessun genitore». E allora, continua lo psicoanalista «non gridiamo allo scandalo, non fa bene ai bambini. Ascoltiamo piuttosto chi queste esperienze le vive, i genitori gay e i loro figli. Loro sono in grado di dirci come si cresce con due mamme o due papà. Forse non sempre bene. Esattamente come con una madre e un padre che non riescano a essere genitori sufficientemente buoni». Mi ha colpito, conclude Scaparro la testimonianza di un bambino. «Sto bene in questa casa con i mie due papà, peccato che non possa parlarne. Mi prendono in giro».
«Corriere della Sera» del 3 gennaio 2013

Quando le religioni sfidano il conformismo sui gay

Ebrei e cattolici
di Ernesto Galli Della Loggia
Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese, destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa d'ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso ? bisogna dirlo ? con il tacito assenso di molta intellighenzia d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea ? bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» ? che in fin dei conti l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo! Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica qualifica come «reazionarie».A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione».Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell'interesse generale e a vantaggio di quello di un'infima minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall'esigenza della protezione giuridica del potenziale congiunto, all'importanza del volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell'amore e dell'unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce l'umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia».Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all'adozione. Il bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio implica una strumentalizzazione inaccettabile».Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei sessi ? egli scrive ? appartiene alla costruzione antropologica dell'umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto l'umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco in questo caso ? vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti, l'alleanza dell'uomo e della donna nell'istituzione chiamata a regolare la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale successione ? nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l'importanza che ha e deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere ? da parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera ? ciò che queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze. Dove ? in specie quando si tratta di certe questioni ? non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.
«Corriere della Sera» del 30 dicembre 2012