26 dicembre 2012

Humanitas & humanities

Motivazioni dello studio della cultura classica
di Elisabetta Degl'Innocenti
È un confronto pressoché quotidiano quello degli insegnanti con la richiesta degli studenti delle motivazioni del loro studio: richiesta che si fa più pressante nei riguardi delle discipline umanistiche, insidiate da alcuni decenni da un processo di marginalizzazione nella scuola e di perdita di ruolo nella società. La domanda "a che cosa serve il latino?" (per non parlare del greco), sollevata da studenti e genitori e accompagnata da dubbi sull"`utilità" anche di altri studi umanistici, si colloca nella drastica riduzione quantitativa e qualitativa delle discipline classiche nei sistemi scolastici europei, dagli anni sessanta del secolo scorso. L’Italia non ha confinato il latino in un solo indirizzo specialistico (come l’Austria o la Danimarca), né l’ha reso opzionale (come la maggioranza degli stati europei); tuttavia l’ha lentamente ridimensionato nel corso degli anni, fino alla notevole contrazione della recente riforma Gelmini. Lo scarso attaccamento che italiani ed europei sembrano dimostrare nei confronti delle lingue e della cultura dei loro progenitori contrasta con il rapporto che altri popoli instaurano con il loro "latino e greco". Tullio De Mauro - nell’introduzione al saggio della Nussbaum di cui parleremo - ha ricordato che in Cina, Giappone, India, nei paesi arabi e in Israele la conoscenza delle rispettive lingue classiche (il cinese e il giapponese classici, il sanscrito, l’arabo del Corano, l’ebraico biblico) è considerata centrale nei processi educativi e praticata come elemento di identità nazionale. Eppure sono proprio questi alcuni dei paesi protagonisti oggi di tumultuosi progressi economici, dai quali provengono scienziati, tecnici ed economisti di altissimo livello. Nel saggio Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2011) Martha C. Nussbaum analizza le logiche che ispirano i sistemi scolastici dei paesi avanzati. La filosofa americana lancia un grido d’allarme sulla "silenziosa crisi" che sta colpendo i sistemi formativi a livello mondiale, da lei identificata nella perdita di ruolo delle discipline umanistiche. Ciò deriva da un asservimento della missione educativa a logiche economicistiche, secondo una visione semplificata del rapporto tra scuola e sviluppo economico. La scelta del PIL come indicatore prevalente del successo economico di un paese (peraltro messa in discussione da economisti come Amartya Sen) ha infatti indotto i governi a privilegiare le discipline direttamente funzionali alle innovazioni tecnologiche e alla crescita economica, a netto discapito delle discipline umanistiche, percepite come "fronzoli superflui". Ora, sempre secondo la Nussbaum, la dissociazione o il disequilibrio tra le due culture deprime le potenzialità di innovazione, di creatività, di pensiero indipendente, necessarie a conseguire risultati in campo tecnico-scientifico ed economico, e, al tempo stesso, ostacola il formarsi di cittadini pienamente inseriti nella vita democratica, capaci di esercitare i propri diritti. Alla deprecata "istruzione per il profitto" la Nussbaum oppone un’"istruzione per la democrazia". Secondo la Nussbaum, infatti, le capacità intellettuali favorite dagli studi umanistici sono «fonda-mentali per mantenere vive e ben salde le democrazie [...] per consentire [loro] di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parti di un mondo interdipendente». Ella le identifica in tre aree: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell"`altro". L’educazione per la buona cittadinanza e la democrazia non è del tutto alternativa a quella per il profitto, perché - aggiunge la Nussbaum - l’interesse di «una democrazia moderna [per] un’economia forte e una cultura di mercato fiorente [...] richiede proprio l’apporto degli studi umanistici e artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa». Il taglio esplicitamente politico dell’analisi della filosofa americana rappresenta una novità nel dibattito sui destini della cultura classica, perlopiù condotto su un piano culturale. Not for profit è divenuto subito un successo planetario e il clima prevalente è di consenso alle posizioni della Nussbaum, ma non mancano le critiche. C’è chi le attribuisce una visione troppo ottimistica e forse illusoria della democrazia, salvata dalle discipline umanistiche grazie al metodo del confronto socratico e del critical thinking. Alessandro Pagnini ha scritto che quella della Nussbaum sembra una «teologia secondo la quale il bene finirà per trionfare in virtù della sola conversazione», ricordando che «Pol Pot leggeva Rousseau e Sartre, e che il neonazista della recente strage di Oslo leggeva Kafka!» (Humanities alla luce della ragione, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 4 settembre 2011). Un’altra obiezione rivolta alla Nussbaum è che il suo saggio sembra riproporre l’antinomia tra la cultura scientifica e quella umanistica. Il problema delle "due culture", posto per la prima volta nel 1959 dal celebre saggio di Charles P. Snow, risulta oggi complicato dal parcellizzarsi delle scienze e delle tecnologie, che sembrano generare non due o tre, ma una pluralità di culture. Da ciò le preoccupazioni di chi vede - citiamo ancora Pagnini - nella «pur sacrosanta rivendicazione del valore formativo delle humanities» il rischio che possa di nuovo assumere i tratti di una pretesa egemonica, soprattutto in paesi i cui sistemi formativi non forniscono un’adeguata «forma mentis scientifica, che faccia con naturalezza pensare le cose in modo oggettivo e le faccia prima di tutto confrontare con le evidenze». È questo, in particolare, il caso dell’Italia, viziata da un persistente deficit di cultura scientifica. Non mancano d’altra parte i richiami alla primigenia unità di cultura umanistica e cultura scientifica. La scissione tra le due culture non è "naturale", ma si colloca storicamente alla metà del XIX secolo, e il valore di quella unità – scrive Bruno Arpaia – appare se ci chiediamo per esempio come sia possibile oggi «parlare di sentimenti o di emozioni senza sapere nulla di sinapsi e neuroscienze» (Non due, ma mille culture, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 10 luglio 2011). Tra coloro ai quali va riconosciuto il merito di condurre con convinzione questa battaglia per l’unità del sapere stanno certamente i classicisti. Tra gli altri si distingue il Centro Studi La permanenza del Classico dell’Università di Bologna, diretto da Ivano Dionigi, cui si deve un convegno sui rapporti tra scienza e cultura classica tenutosi nel 2005, nel quale intervenne il fior fiore dell’intellettualità classicista, filosofica e scientifica italiana e internazionale. Nel contributo Classici perché, classici per chi (comparso nella miscellanea di saggi Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008) Dionigi ricorda la diversità degli statuti disciplinari scientifico e umanistico, uno basato su un paradigma sostitutivo in quanto incrementato da nuove scoperte, l’altro su un paradigma cumulativo in quanto incrementato dalla memoria storica, ma depreca l’autonomia "sciagurata" tra classici e scienza. C’è un terreno sul quale in particolare gli umanisti rivendicano da sempre una comunanza metodologica ed epistemologica con gli scienziati: la filologia. Nel saggio Filologia e libertà (2008) Luciano Canfora attribuisce a questa disciplina quei requisiti di indipendenza di pensiero e di lotta contro il dogmatismo che ne fanno «la più eversiva delle discipline». Canfora ricorda che il «metodo Lachmann», punto di svolta della storia della filologia, venne salutato al suo apparire a metà dell’Ottocento come metodo scientifico, in grado stabilire una "legge", identificata con lo stemma codicum, cioè con l’albero genealogico dei codici tramandati di un testo. Ma poi – prosegue lo studioso – quel metodo fu messo in discussione dagli studi successivi e la "norma" dello stemma divenne l"eccezione", mentre quella che prima era considerata l’eccezione, cioè la contaminazione dei codici, divenne la norma: un capovolgimento che sembra parallelo a quello che riguardò matematica, fisica, astronomia, le cui "norme" vennero messe in discussione dagli inizi del Novecento. Da un protagonista delle rivoluzioni culturali novecentesche, Albert Einstein, viene un’altra riflessione sul legame tra cultura scientifica e cultura umanistica. Nella sua autobiografia intellettuale Einstein ricorda il rapporto profondo che esiste tra concetti, cioè tutto quel che sappiamo e pensiamo, e parole, che apprendiamo dalla tradizione. E la tradizione da cui sono nate le nostre parole (lo sottolinea De Mauro nella già citata prefazione alla Nussbaum) è quella greco-latina, dalla quale proviene in maniera pressoché esclusiva il lessico intellettuale delle lingue europee. Conoscere quelle parole nella precisione e densità del loro significato è indispensabile per parlare con un linguaggio non stereotipato o banale, per accedere ai testi del proprio patrimonio culturale, per progredire nella conoscenza. Ma, se sono vere e da tanti condivise tutte queste qualità della cultura classica, perché assistiamo al suo declino? Basta a spiegarlo l’interpretazione economica della Nussbaum, che si lega alle conseguenze dell’attuale mondo globalizzato? Quali effetti provoca la globalizzazione sul piano culturale, sul senso comune delle persone, sul loro modo di interpretare la realtà e se stessi? E questi effetti confliggono con la cultura umanistica e classica in particolare? Salvatore Settis (nel saggio Futuro del "classico", 2004) individua nel postmoderno il sistema culturale che corrode dall’interno la cultura classica, soprattutto attraverso due elementi che lo caratterizzano: la perdita di senso storico, cioè l’appiattimento sul presente percepito come virtualmente simultaneo a qualunque momento del passato; il citazionismo, cioè la scomposizione della tradizione in frammenti decontestualizzati e sottoposti ai più arbitrari rimontaggi. I due elementi si combinano in quanto le "citazioni" – per esempio gli elementi architettonici classici inseriti in edifici di oggi, o le vignette che raffigurano George W. Bush vestito da imperatore romano – corrispondono a «un uso della storia per exempla, e non secondo una concatenazione di eventi, stabiliti mediante l’indagine storica e legati da nessi di causa ed effetto». Così, nell’orizzonte globalizzato l’antichità classica si guadagna il suo piccolo posto in mezzo a tante altre antichità (indiane, cinesi, maya), oppure viene «ridotta a un retroterra nebbioso e indistinto, conservando semmai solo una qualche funzione ornamentale» (i "fronzoli superflui" di cui parla anche la Nussbaum). Le amare constatazioni di Settis si accompagnano alle sue accuse contro certi sostenitori della classicità, involontari alleati dei suoi peggiori nemici. Attribuire al classico un carattere paradigmatico e di perenne attualità, investirlo della responsabilità di esprimere un valore identitario in risposta alle ansie della globalizzazione, farne la bandiera della civiltà occidentale come contenitore di radici comuni: tutto ciò da una parte esprime una concezione eurocentrica ed egemonica, destinata a fallire nel mondo globalizzato, dall’altra banalizza la stessa cultura classica perché ne semplifica la complessità, riducendo ad unum ciò che invece è plurale. Insomma, proiettare la classicità su un piano universale equivale a "estirparla dalla storia", esattamente come fa la cultura postmoderna. Un analogo rifiuto dell’"iconizzazione" del classico è espresso da Giuseppe Cambiano. Per rispondere alla domanda posta dal titolo del suo saggio Perché leggere i classici (2010), Cambiano contesta uno dopo l’altro i luoghi comuni sulla validità della cultura classica, lasciandoci in un disarmante disorientamento. Non è vero che i classici sono dotati di intramontabile verità e bellezza: anch’essi soffrono di finitudine e precarietà. Non è vero che sono per forza attuali, perché le risposte che, per esempio, i filosofi antichi danno alle esigenze del presente possono essere viziate da quella che egli chiama la "cosmetica" dei classici, cioè da un’operazione di occultamento di ciò che non è considerato ideologicamente valido al momento, oppure possono essere più proficuamente sostituite dalle risposte offerte dalla filosofia contemporanea. Non è corretto neppure affermare che nella cultura classica risiedono le radici della cultura occidentale: questa metafora esprime una concezione teleologica, secondo la quale il presente è il frutto inevitabile del passato e non avrebbe potuto essere diverso da quello che è, mentre sappiamo che la storia scritta dai vincitori tende a cercare nel passato solo ciò che li giustifica e li esalta. E dunque? La soluzione sta nell’accettare la realtà multiforme della classicità e nel rifiutarne l’immagine di modello armonico a senso unico, o compatibile con nostre scelte di valore. Sta, in altre parole, nel farla emergere nella sua irriducibile complessità, «come rete di alternative che di volta in volta sono state fatte valere e si fanno ancor oggi valere» (Cambiano), nella consapevolezza che non esiste un "classico" perché ogni epoca se n’è inventata un’idea diversa (Settis). Bisogna insomma accettare che gli antichi sono "altro" da noi e rapportarsi a loro con procedimenti simili a quelli che l’antropologia usa per studiare culture diverse dalla propria, considerandoli un "altrove" (nel tempo) analogo a quello di altre culture extraeuropee (l’altrove" nello spazio). Questi procedimenti di "straniamento" consentono di misurare la distanza che ci separa dai Greci e dai Romani per esempio in materia di amore e sessualità, o di giudicare con i nostri parametri la schiavitù e i giochi gladiatori, o di confrontare il nostro concetto dei diritti femminili con la condizione giuridica delle matrone (come fa Maurizio Bettini, Noi e i romani. Un problema di giusta distanza, nel volume collettaneo Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008). Un relativismo culturale, dunque, nel quale la cultura classica "vale" per noi quanto le grandi civiltà asiatiche o le culture cosiddette "primitive"? In realtà, il confronto che stabiliamo con i nostri maiores è profondamente diverso. Il fatto è – afferma ancora Cambiano – che essi si sono così profondamente sedimentati nella nostra cultura da fornire oggi un patrimonio di "credenze comuni" (concetti filosofici, principi giuridici, tòpoi letterari e artistici, pratiche di vita quotidiana ecc.) che costituiscono non un blocco omogeneo, anzi «una sorta di multiculturalismo nel cuore stesso di quella cultura che si crede unitaria, e che siamo abituati a chiamare occidentale», ma tuttavia esplicitamente o implicitamente condiviso. In questa polarità tra alterità e persistenza del classico risiede la motivazione più profonda del suo studio, e del nostro insegnamento. Come dice Settis, «sia perché lo sentiamo nostro, sia perché lo riconosciamo "diverso" da noi; sia in quanto esso è intrinseco alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, sia in quanto ci apre la porta a studiare e comprendere le culture "altre"; sia perché serbatoio di valori in cui possiamo ancora riconoscerci, sia per quello che esso ha di irriducibilmente estraneo». In conclusione, possiamo rispondere ai nostri studenti che la cultura classica "serve" per gli strumenti di critical thinking (su cui tanto insistono gli americani), per «l’apertura e la radicalità delle argomentazioni, il conflitto delle idee, la fiducia nella capacità della ragione di decidere di questo conflitto, l’instancabile curiosità nell’esplorare prospettive e orizzonti di conoscenza» (Mario Vegetti, Di fronte ai classici, 2003). Serve perché ci aiuta a pensare, parlare e leggere bene, comprendendo il significato del patrimonio letterario (il che, di questi tempi, rappresenta un’emergenza educativa nazionale). Serve perché, con la sua identità plurale, costituisce una sorta di pre-globalizzazione che aiuta a "trascendere i localismi", e, con il suo cosmopolitismo, offre strumenti per affrontare i problemi mondiali come "cittadini del mondo", come dice la Nussbaum. Serve perché, con la sua alterità, ci abitua a un sano relativismo nemico del pensiero unico e perché, come si augura ancora la filosofa americana, offre la raffigurazione simpatetica della categoria dell’altro. E, ancora, serve perché aiuta ad acquisire una profondità di senso storico e per l’eredità insieme linguistica e di fondamenti e strutture del pensiero europeo. Serve, infine, perché ci aiuta ad abitare le città e le campagne del nostro paese e di tanti paesi di quello che fu un tempo l’impero romano, il cui immenso patrimonio archeologico non può essere compreso se non se ne conosce la cultura; il che, come ricorda Ivano Dionigi, tra l’altro offre, o offrirebbe, straordinarie prospettive economiche.
Autori vari, «Cultura umanistica e scuola: riflessioni e analisi», Pearson Italia, 2011 (pp. 49-54)

14 dicembre 2012

De lege naturali

di Roberto Spadaro
In fabulis tragicis, quas veteres Graeci egerunt, persaepe dramatis personae, potestatum iniuriis despectis, leges naturales numquam violandas vindicant. Quae, ante homines eorumque civitates constitutas, praecipiunt ut omnibus tempestatibus sive secundis sive adversis serventur. Sed homines in civitatibus administrandis sunt haud raro consilia sua secuti, quae, cum illis essent legibus contraria, malorum causa fuerunt. Ideo Sophocles, maximus fabularum tragicarum auctor, Antigonam, animosissimam Oedipi filiam, Creontem, dirum Corinthiorum regem, arguisse atque increpuisse enarrat. Tyrannus enim prohibuit ne Polynicis cadaver, Antigonae fratris, cum esset in pulvere relictum, postremis mortis muneribus donaretur. Quae suis perfecit manibus Antigona ipsa. Memoranda illa videntur verba, quae nobilissima mulier, ullo sine metu, est coram tyranno vehementer proferre ausa. Quae quidem verba hoc modo in Latinum sermonem verti possunt: "Numquam crederem edicta mortalis hominis tantam habere vim, ut immortalium deorum leges revocent atque abrogent. Quae, cum sint in hominum animis insculptae, numquam deleri possunt. Leges vero, cum sint nec hodie nec hesterno sancitae die, aeternae vivunt nec quisquam quo die exortae sint cognoscit". Nostra quoque aetate Antigona, si viveret, coram Creonte asperrime pro illis dimicaret legibus tuendis, quae vel ad vitam colendam, vel ad vinculum matrimoniale servandum, vel ad pueros instituendos, vel ad egenos sublevandos pertinent. Verum tamen non desunt qui, perinde ac Creo, asseverant ius, a natura promulgatum, non esse cui magistratus, legibus faciendis deputati, obnoxii sint. Nihilo minus omnes fere homines, ratione usi, per saeculorum decursus, hoc duxerunt pro certo: ius naturale veluti limitem esse, ultra quem hominum dignitas amplius non exstet. Iure naturali contempto luceque humanae rationis fuscata, tantum saevientium libido, insolentia dominantium rem publicam occupabunt. Leges naturales igitur sunt sacra principia ducendae, quae nemini violare licet.
«Avvenire» dell'11 dicembre 2012

Se il bene comune è debitore a Dio

Al Pirellone la polis apre una finestra sull’Europa
di Cesare Alzati
Si tiene oggi a Milano, nella sala Pirelli dell’omonimo grattacielo sede della regione Lombardia il seminario «La religione e la Polis, a 1700 anni dall’editto di Costantino 313-2013», organizzato dall’Associazione Sant’Anselmo. Con inizio alle ore 11 parleranno, tra gli altri, Cesare Alzati, dell’Università Cattolica, Mihai Barbulescu e Iulian Damian dell’Accademia di Romania a Roma, Emre Oktem dell’università Galatasaray di Istanbul, Costante Portatadino, presidente della Fondazione Europa e Civiltà. Verrà presentato nell’occasione anche il programma promosso dall’Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis insieme alla Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana tra marzo e giugno 2013 che prevede incontri con Franco Loi, Roberto Mussapi, Armando Torno sui temi della Bibbia. Anticipiamo in questa pagina alcuni stralci della relazione di Alzati
Porsi il problema degli ordinamenti istituzionali del vivere civile, della loro legittimità, del loro fondamento è un aspetto della più generale questione – ineludibile per ogni società – di cosa sia la giustizia, di quale sia la sua fonte ultima, di come si rapporti a essa il diritto positivo. La riflessione ellenistica al riguardo nel I secolo a. C. (non senza influssi del patrimonio religioso ebraico, come ha mostrato recentemente Bruno Centrone) era venuta configurando la giustizia quale riflesso a livello umano dell’ordine armonico immesso dalla divinità nel cosmo. In conformità a tale armonia celeste deve – per il filosofo neopitagorico Ecfanto – configurarsi anche la città terrena, che trova il proprio principio armonizzante nella giustizia. In modo non molto diverso si sarebbe espresso poco dopo, ormai in contesto imperiale romano, anche l’ebreo Filone. In anni assai prossimi a quest’ultimo vediamo l’Epistola ai Romani insistere fortemente sul nesso costitutivo sussistente tra giustizia e autorità, presentando la seconda come voluta da Dio quale ministra della prima. È perfettamente coerente con tali premesse l’episodio verificatosi nel 272 ad Antiochia, quando i vescovi della regione rimisero al giudizio dell’imperatore (pagano) Aureliano la definizione del contenzioso che li opponeva al loro collega, il vescovo locale Paolo Samosateno. La percezione dell’istituzione imperiale romana quale ordinamento di giustizia agli occhi dell’antica Roma trovava il proprio fondamento nella sussistenza, preservata con scrupolosa cura, della pax Deorum, ossia nel corretto rapporto tra la Res publica e la realtà trascendente del divino, che della giustizia è la fonte. Proprio la preoccupazione per la pax Deorum sta all’origine della concessione della libertà di culto ai cristiani elargita da Galerio (imperatore pagano) nel 311. Le ragioni che ispirarono la decisione sono esplicitamente enunciate nel testo del relativo editto, promulgato a Nicomedia il 30 Aprile di quell’anno: "Prima di questo momento, in verità, noi avevamo voluto ristabilire ogni cosa in conformità alle antiche leggi e alla norma pubblica dei Romani, e provvedere affinché pure i cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro avi, ritornassero al retto sentire ... Ma poiché in moltissimi perseveravano nel proprio proposito, e noi abbiamo constatato ch’essi né mostravano la doverosa devozione verso gli Dei celebrandone il culto, né rendevano ossequio al Dio dei cristiani ... abbiamo ritenuto opportuno accordare loro prontamente la nostra indulgenza, affinché di nuovo possano essere cristiani e ricompongano le loro comunità, in modo tale che il loro comportamento in nulla sia contrario a ciò che è doveroso ... Essi saranno tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della Res publica e loro, affinché per ogni dove la Res publica prosperi intatta ed essi possano vivere sicuri nelle loro sedi"... Di tale modo di sentire una testimonianza ancor più significativa ci offre un documento successivo alla vittoria su Licinio, che nel 324 fece di Costantino l’unico signore dell’Impero. La consistenza delle comunità cristiane nelle regioni orientali acquisite aveva spinto alcuni a ipotizzare iniziative di coartazione delle tradizioni religiose pagane. Costantino lo segnala esplicitamente: "Sento alcuni dire che i riti dei templi e la potenza delle tenebre sono stati cancellati". Ma - afferma l’imperatore - "nessun uomo dotato d’intelletto dovrebbe lasciarsi turbare dalla vista di molti che sono portati verso scelte contrarie ... è il Dio eccelso che detiene l’autorità assoluta nel giudizio ... Ciascuno abbia ciò che la sua anima desidera e ne sia appagato ... Che il popolo viva in pace e non sia turbato da lotte intestine, per il bene comune dell’intera ecumene e di tutti gli uomini. E anche coloro che persistono nell’errore traggano pari giovamento dalla pace e dalla tranquillità ... noi preghiamo anche per loro, affinché, grazie alla comune concordia, essi pure ottengano la gioia". Questa ricerca di armonia religiosa nella società non è il riflesso di un’aspirazione ideale: agli occhi di Costantino trova fondamento nella struttura stessa della realtà: "Il sole e la luna compiono il loro percorso secondo leggi stabilite e gli astri non attuano il loro movimento nella volta celeste in modo casuale, l’alternanza delle stagioni è regolata da leggi cicliche ... il mare è circoscritto entro rigidi confini e tutto ciò che trova spazio sulla terra e nell’oceano è costruito con meravigliosa e utile generosità". Il rilievo della dimensione religiosa per il vivere civile non è, dunque, una pretesa cristiana: è stato costantemente avvertito fino alla ideologizzazione secolaristica della vita istituzionale. Al di là dei problemi storici connessi a quanto stipulato a Milano nel 313, se il Centenario che stiamo celebrando servirà a farci riflettere sui grandi temi della nostra storia istituzionale, credo che possa considerarsi un evento di vita culturale e sociale estremamente prezioso.
«Avvenire» del 14 dicembre 2012

09 dicembre 2012

A lezione di calligrafia: la bella scrittura come brand

Crescono i corsi mentre le agenzie pubblicitarie cercano amanuensi E nell’era del web il lettering diventa ancora di più espressione dell’anima
di Michele Boroni
Scrivere con i segni, disegnare attraverso le lettere. Questa è, in estrema sintesi, l’essenza della calligrafia. In realtà, dietro una disciplina che a molti potrà sembrare desueta e ricordare l’opera paziente di antichi amanuensi o gli esercizi di bella scrittura d’altri tempi, si nasconde un universo multiforme e una pratica contemporanea che tutti noi possiamo frequentare. Dopo l’ubriacatura tecnologica e l’omologazione dei software, era inevitabile un ritorno alla manualità. In Italia e in tutta Europa nascono corsi sia per migliorare la scrittura manuale, sia per scoprire il proprio potenziale creativo. «Con l’avvento della stampa si pensava che la scrittura amano sarebbe scomparsa — raccontaMonica Dengo, calligrafa e ideatrice di corsi di scrittura —. Invece è diventata uno strumento propulsore che ha dato vita a una moltitudine di scritture individuali desiderose di pubblicazione. Allo stesso modo, ora che stiamo gradualmente perdendo la scrittura manuale in favore di quella digitale, ci si rende conto che la calligrafia non serve solo a trasmettere un messaggio, ma anche un bisogno profondo di esprimere la propria specifica, inimitabile personalità». Cambiano le finalità: scrivere a mano porta alla riscoperta della funzione espressiva, al piacere del puro gesto. «Nei corsi si lavora persino sulla scrittura illeggibile: dunque non solo “bella calligrafia”, ma una perlustrazione completa del mondo della scrittura manuale, vista anche come arte visiva personale», continua Dengo, che è anche presidente del Centro internazionale di Arti calligrafiche con sedi a Roma e Arezzo. Stiamo assistendo alla rinascita di una disciplina che, specialmente in Inghilterra, è stata viva fin dagli inizi del secolo scorso, ma che negli ultimi vent’anni ha avuto un grande impulso anche nel resto dell’Europa grazie amolti gruppi di studi di calligrafia occidentale in Giappone, dove la scrittura a mano (shodo, letteralmente «la via della scrittura») è considerata al pari dell’arte figurativa. Solitamente si tende, piuttosto, ad apparentare il tratto intimo emeditativo dell’arte calligrafica alla danza: entrambe implicano il senso dello spazio, del ritmo, dell’azione e persino delle pause. Pratiche del corpo con uno spessore meditativo e corporale che si trova anche nello yoga. La scrittura corsiva consente al nostro pensiero di arrivare fluido sul foglio, senza particolari cesure, fratture o intermediazioni; in un certo senso è la nostra lingua privata che permette di raccontarci meglio. Oggi però oltre il 40% dei giovani tra i 14 e i 19 anni non sa più utilizzare il corsivo, con il risultato che la fatica raddoppia a prendere appunti durante la lezioni. Quindi per molti è necessario iniziare il percorso da bambini, magari cambiando il metodo di insegnamento. Lo scorso anno la stessa Dengo, insieme con altri calligrafi, ha reintrodotto il corso di calligrafia (cessato nelle scuole negli anni Settanta) all’Istituto paritetico di Terranuova Bracciolini (Arezzo) con un metodo innovativo, in cui viene ripreso il corsivo italico — tipo di carattere a mano le cui semplici forme risalgono al Rinascimento e vengono eseguite con un unico tratto di penna — in una modalità facilitata e più divertente per i bambini rispetto ai quattro tipi di scrittura (stampatello e corsivo minuscolo e maiuscolo) imposti dai programmi ministeriali. Dunque la voglia di scrivere a mano è un ritorno ai tempi antichi? Un fenomeno vintage? Non proprio. Semplicemente, come scrive anche il sociologo Richard Sennett nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli), un ritorno coscienzioso a saper fare bene le cose, all’apprendimento di una disciplina e all’utilizzo dell’intelligenza della mano. Per affermare la contemporaneità della calligrafia è uscito recentemente il libro Take Your Pleasure Seriously (Lazy Dog Press), dedicato alla figura di Luca Barcellona, classe 1978, nato come writer e graffitista e oggi tra i più stimati calligrafi di lettering artistico e commerciale. Brand e agenzie pubblicitarie sono, infatti, particolarmente attratti dalla grande forza comunicativa del lettering scritto a mano. Ma la rinnovata passione per la calligrafia non deve esser vista come una ribellione al mondo digitale. «In Italia — racconta Roberta Buzzacchino, che usa la calligrafia per realizzaremappe mentali, rappresentazioni grafiche del pensiero attraverso la scrittura radiale — i corsi di calligrafia sono stati promossi attraverso Twitter ideando l’hashtag #scriviamoamano, per dimostrare che anche un momento intimo e personale come la scrittura a mano può essere condiviso e social». La biografia di Steve Jobs, che iniziò la propria avventura proprio con l’iscrizione a un corso di calligrafia presso il Reed College di Portland, diventa un esempio paradigmatico. Come ricorda Jay Elliot in Steve Jobs. L’uomo che ha inventato il futuro (Hoepli) nei suoi appunti da studente, colui che ha ideato l’iPhone e l’iPad scriveva: «È la mano la parte del corpo che più di ogni altra risponde ai comandi del cervello. Se potessimo replicare la mano, avremmo realizzato un prodotto da urlo».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 9 dicembre 2012

La nuova vita della carta

Animazioni 3D, architettura, software: la fruizione è digitale, il processo artistico analogico
di Cristiana Raffa
La creatività passa ancora da matita e foglio. Lo conferma Armani: il disegno nasce solo lì
Nei Walt Disney and Pixar Animation Studios, in California, dove si va a lavorare in scarpe da ginnastica e si gioca a minigolf in sala riunioni, sono impiegati fino a quindici disegnatori per ogni produzione. Più avanza la tecnologia che rende verosimili le animazioni in pixel, più c’è bisogno di precisi schizzi a matita. I 27.555 disegni per A Bug’s Life sono raddoppiati per Alla ricerca di Nemo, triplicati per Ratatouille, quintuplicati per Ribelle. Quel che fanno dietro le quinte gli animatori lo vediamo ogni volta che viene allestita una mostra che ne celebra la magica attività; è stato così proprio per la retrospettiva sulla Pixar che ha girato il mondo passando anche per l’Italia, o per quella dedicata dal Moma a Tim Burton nel 2009. Ancora oggi, con gli storyboard, lavorano quasi tutti i registi, come ha ben documentato lo scorso anno il Museo del Film e della Televisione di Berlino. È la carta il trait d’union tra ieri e domani: ieri c’era un mondo che «sulla pasta di carta ha fondato le sue rivoluzioni», come ha scritto il critico americano Clement Greenberg nella sua lettura dell’arte del XX secolo. E domani, forse, anche. La carta è ancora il materiale che consumiamo maggiormente, persino più del cibo. Non è pronta per entrare in un museo, come proponeva provocatoriamente qualche giorno fa Ian Sansom sul quotidiano inglese «The Guardian» (che continua a smentire le voci che ne danno per spacciata la versione cartacea a causa di perdite per 100 mila sterline al giorno), semplicemente perché non è ancora un pezzo da museo. Il processo creativo di chi produce per l’industria culturale e dello spettacolo — anche se il fine è un’interfaccia multimediale — passa ancora da lì. Si pensano su carta le applicazioni per smartphone, che siano giochi o servizi, partendo da strutture che sono trasferite più volte dalla mente al block notes. Spiega Pietro Saccomani, cofondatore di Fifty Pixel, start-up italiana a Londra fornitrice per Groupon e Apple: «Vivendo immersi nella tecnologia abbiamo provato soluzioni completamente digitali — un’ottima app per iPad si chiama proprio Paper — che offrono il vantaggio di rimediare facilmente a un errore o di ripercorrere a ritroso velocemente i progetti, ma nulla ha la flessibilità, la leggerezza e l’immediatezza della carta. Quando programmiamo per mobile o per un sito Internet disegniamo l’interfaccia con un pennarello, così non ci facciamo distrarre dalla tecnologia e ne discutiamo più agevolmente col gruppo di lavoro». È nato così anche Arduino, l’hardware open source italiano per lo sviluppo di oggetti interattivi che ha cambiato la vita ai «makers» (gli artigiani del digitale) di tutto il mondo. Racconta il suo inventore Massimo Banzi: «Continuo a disegnare architetture e appunti su grandi fogli, anche se i giornali e i libri li leggo ormai solo sul tablet». Che la via stia dunque nella convivenza, magari nella cooperazione, tra i mezzi, senza che l’uno debba necessariamente uccidere l’altro? Per mostrare ai fan come prendono forma i suoi spropositati look, Lady Gaga pubblica su Instagram i bozzetti fatti amano per lei dai grandi stilisti (basta digitare «Gagapedia sketches» su Google). Giorgio Armani, che ha disegnato gli abiti più d’avanguardia per l’ultimo tour della popstar italoamericana, dichiara: «La tecnologia è un acceleratore utilissimo, ma un modellista lavora manualmente: la mano è molto diversa da un tasto, con matita e foglio io tengo fede alla mia origine di designer puro». Generati da un fumetto analogico sono anche gli uccellini che hanno rivoluzionato la storia dei giochi digitali, gli Angry Birds della finlandese Rovio (lo scorso 8 novembre la versione Star Wars ha segnato un record di downloads sull’AppStore a sole 2 ore dal lancio): «È cominciato tutto quando uno dei designer ci mostrò lo schizzo su carta di un uccellino infuriato perché un maiale verde, probabilmente ammalato di influenza aviaria di cui si parlava in quel periodo, gli aveva rubato le uova», spiega Ville Heijari, vicedirettore della divisione Media Franchise. E cosa ha portato gli sviluppatori Nintendo a continuare la saga di Paper Mario (versione «di carta» dell’idraulico più amato del pianeta) con il nuovo gioco Sticker Star per la consolle 3DS? La «paperisation» dell’icona Super Mario e del suo mondo, col merchandising, ovviamente di carta, che continua ad appassionare i ragazzi. Alla carta ha reso omaggio la scorsa estate il genio dell’architettura Frank O. Gehry con il grandioso allestimento di un Don Giovanni di Mozart a Los Angeles, fatto completamente di scartoffie. Lui, padre della «paper architecture», dice: «Non posso pensare a un processo creativo senza carta», e continua a insegnarlo ai giovani del suo studio. E se «The Daily», il primo quotidiano solo per iPad pubblicato da Rupert Murdoch, chiude dopo neanche due anni di attività, lontano dagli Usa e dall’Europa i giornali «di carta» stanno vivendo oggi la loro stagione d’oro: in India, Cina, Brasile, Sudafrica avanza una classe media desiderosa di notizie da sfogliare, magari mentre si sorseggia un caffè al bar. Il nostro rapporto col materiale che più apre le porte alla mente è un bisogno pratico. Non c’è da stupirsi se il foglietto più pop della storia, il Post-it, regga sulmercato nonostante l’aspra concorrenza: oltre 4 miliardi di dollari di fatturato nel 2011, con un segno sempre positivo rispetto agli anni precedenti. Un caso emblematico per capire quanto sia cieco ipotizzare un’apocalisse del mezzo cartaceo è stato raccontato dal «Wall Street Journal» che ha preso in esame l’iter produttivo di Paperless Post, una delle start-up di maggior successo a New York negli ultimi tre anni, fondata da due ventenni di Harvard. L’azienda, oggi 50 impiegati e 10 milioni di dollari di fatturato, produce dal 2009 biglietti di auguri digitali. Dalmese scorso la svolta: «Abbiamo iniziato a produrre cartoline di carta perché il 50% dei nostri clienti ce le chiedeva, disposti a pagarle 10 volte di più: 2 dollari per cartoline reali, 20 centesimi per quelle virtuali», spiega il fondatore James Hirschfeld, 26 anni, che prevede un futuro ancora ibrido. «Benché avessimo un’impresa che puntava tutto sul digitale — continua —, ci troviamo a invertire parzialmente la rotta. I consumatori ci hanno messo 15 anni per abituarsi all’e-commerce, ora vogliono soluzioni buone sia online che offline. Su questo stanno ora puntando anche grandi portali comeWarby Parker, Bonobos, Piperlime». Se dunque la fruizione prende l’inevitabile (seppure altalenante) strada della smaterializzazione, il processo creativo segue sempre le stesse puntuali logiche (analogiche): una palletta di carta che fa canestro nel cestino, fino al lampo di genio che ci avvicina al futuro.
«Corriere della sera - supll. Lettura» del 9 dicembre 2012

08 dicembre 2012

La «dittatura» dell’oroscopo: i creduloni e i veri credenti

Dati preoccupanti delle ricerche su Google
di Mauro Cozzoli
Induce a pensare la notizia – divulgata in questi giorni – che una delle tre parole più cliccate quest’anno sul motore di ricerca Google sia 'oroscopo' (insieme con 'facebook' e 'meteo'). Indice dell’esteso e crescente interesse della gente per gli oracoli delle stelle. L’oroscopo è un vaticinio basato sull’astrologia, la quale – leggiamo nel Vocabolario Treccani – «presume di determinare i vari influssi degli astri sul mondo terreno e in base a essi prevedere avvenimenti futuri o dare spiegazione di fatti passati». Previsioni e spiegazioni aleatorie, per la ascientificità e arbitrarietà di quegli influssi, che fanno capo a una lettura mitica e chimerica dell’universo astrale, al limite della superstizione e del feticismo. È vero che l’oroscopia e l’astrologia – demitizzate da sempre dalla Bibbia e dalla Chiesa – vengono da lontano. Se esse potevano ostentare una parvenza di plausibilità in epoche prescientifiche, sotto influssi e retaggi di paganesimo, non hanno ragion d’essere in una socio-cultura che si avvale dei contributi della scienza, che ne certifica l’infondatezza. Il National Science Board negli Usa dichiara l’astrologia «una credenza pseudoscientifica». Ciononostante il fenomeno è ampiamente diffuso e provocato, in una spirale di domanda e offerta che si alimentano a vicenda, trovando nei media di largo consumo – giornali, riviste, tv, radio, internet – terreno di coltivazione e propagazione. Non importa – anche per media che menano vanto di ascendenza e osservanza 'illuministica' – l’irragionevolezza e inconsistenza scientifica del fenomeno. Ma così non si educano, si fuorviano piuttosto le coscienze verso quel neopaganesimo strisciante che rode sempre più terreno all’intelligenza, prima ancora che alla fede. Laddove la fede intercetta l’anelito di trascendenza e di essere (l’invocazione salvifica) dell’uomo, in dialogo fecondo con l’intelligenza, l’astrologia lo tira fuori da sé, lo estranea, proiettandolo in un universo illusorio e mistificante. Il Dio Persona è nebulizzato nel dio senza volto del numinoso astrale e magico. Non ne va solo dell’intelligenza, bypassata dall’inverosimile. Ne va anche della libertà. Perché interlocutore dei vaticini degli astri non è il volere intelligente e responsoriale della fede, ma la sottomissione ingenua e gregaria della credulità. Se non dichiari il segno zodiacale e non credi nell’oroscopo sei un alieno. Fino a manifestazioni di vera e propria dipendenza. Vi sono maniaci dell’oroscopo, tali da non poter fare a meno del presagio delle stelle. Nell’approssimarsi di un nuovo anno il fenomeno conosce picchi record di espansione, nel tentativo di catturare miraggi e presagi. Tutto questo non viene da Dio. Anzi prolifica in un vuoto di Dio, surrogato da idoli, forze occulte, energie cosmiche, neopanteismi. Come diceva Gilbert K. Chesterton, «chi non crede in Dio comincia a credere a tutto». Da questo credere avventato e insipiente ci libera la fede, rapportandoci a Dio come a nostro Padre. Rapporto di libertà filiale, annodata da Cristo, il Figlio: «Cristo ci ha liberati, perché fossimo liberi» (san Paolo). Perché tornare allora al determinismo opprimente di potenze occulte, sottratte alla signoria liberante e provvidente di Dio? «Perché – ci dice l’Apostolo – lasciarvi imporre precetti e cose destinate a scomparire? Sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini con la loro falsa religiosità». Passa da questa demarcazione tra la relazione liberante a Dio e quella asservente a feticci antichi e nuovi la differenza tra il sapiente e l’insipiente. Il primo è un credente, il secondo un credulone.
«Avvenire» del 7 dicembre 2012

A quelli che non intendono: laicità non è secolarizzazione di Stato

Alcune strane polemiche sull'attualissima riflessione del cardinale Scola
di Carlo Cardia
In un passaggio centrale del discorso di Sant’Ambrogio quest’anno dedicato anche alla celebrazione del XVII centenario dell’Editto di Milano del 313, l’Arcivescovo della Diocesi Ambrosiana ha ricordato che «imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti». Il cardinale Angelo Scola ha quindi segnalato il rischio di una laicità negativa che si afferma quando lo Stato pretende di agire sulla società civile, comprimendone le identità più profonde, strutturando istituti essenziali della vita collettiva in una visione secolarizzata che diviene egemonica, dimentica il contributo che la religione e le comunità religiose recano alla coesione, alla solidarietà, alla promozione della persona umana.
Si tratta di una riflessione di ampio respiro sui problemi della modernità interculturale, sulle tensioni che in alcuni Paesi affiorano, si radicalizzano, per una chiusura delle leggi e delle istituzioni alla dimensione antropologica e sociale della persona. Il tentativo di fare leggi e agire nel pubblico come se la religione non esistesse è propria della tradizione illuminista e francese, ma oggi diviene più gravido di conseguenze perché si rivolge contro la concezione umanistica della nascita, del matrimonio, dell’educazione, della tutela della vita, sfiora il destino stesso dell’uomo.
Gli esempi sono davanti a noi tutti i giorni. Con grande imbarazzo, in alcuni ordinamenti si vuole stravolgere il concetto di matrimonio radicato da sempre nella storia umana, negandone la base dell’eterosessualità, con il conseguente affidamento dei minori a coppie non eterosessuali, e la definitiva aberrante conclusione di cancellare i concetti di padre e di madre, per sostituirli con quelli di genitore 1 e di genitore 2, genitore A e genitore B. In Francia, addirittura, gli interventi a difesa della naturalità della famiglia e del matrimonio dei cattolici, dei protestanti e del gran rabbino di Francia sono stati criticati come 'invasivi' del campo della politica, quasi che le Chiese e chi ha una visione antropologica umanista delle relazioni elementari debbano tacere perché lo Stato li giudica 'incompetenti' a pronunciarsi su queste materie. In altri Paesi, le comunità confessionali si vedono imporre obblighi che violano la liberta religiosa in modo clamoroso, dovendo assicurare ai propri dipendenti i mezzi per interventi contraccettivi, abortivi, o dovendo dare in affidamento i bambini che accudiscono a coppie di persone dello stesso sesso.
In Italia e in Europa si profila una strategia punitiva verso le attività senza fini di lucro che la Chiese e altri soggetti svolgono nell’educazione, nell’assistenza, nella sanità, che rafforzano l’ossatura dello Stato sociale ad esclusivo vantaggio di chi ha di meno o, come gli immigrati, non ha niente di proprio su cui sperare o investire.
Basterebbero questi riferimenti per cogliere l’attualità e il valore strategico del discorso del cardinale Scola nell’affrontare un tema che interessa tutti. Si rimane perciò stupefatti di fronte ad alcuni interventi sulla stampa che ne hanno stravolto il significato quasi che contenesse un attacco alla laicità dello Stato, alla sua neutralità in ambito religioso. La riflessione sull’Editto di Costantino dice esattamente il contrario. La libertà religiosa è conquista preziosa per la società e per l’umanità, come lo è la laicità dello Stato, ma né l’una né l’altra possono essere deformate, rovesciate per farne strumenti di emarginazione. La libertà religiosa non può diventare la libertà di praticare il culto in privato e di tacere in pubblico, come la laicità dello Stato non può essere il grimaldello per abbattere la visione solidarista dei rapporti umani e interpretarli e disciplinarli in ottica egoistica e secolarizzata. Se la laicità dello Stato comporta la cancellazione dei credenti e la riduzione dei loro diritti, se implica l’emarginazione delle Chiese a mere associazioni prive di dimensione pubblica, che devono nascondere i propri simboli e alle quali si impongono obblighi di ogni genere, anche contrari alle rispettive identità, non siamo di fronte ad una Stato laico, ma ad un ordinamento che fa della secolarizzazione una ideologia di Stato, uno strumento per dare voce solo a quanti vogliono oscurare e spegnere la voce della fede, la pratica dell’altruismo, la solidarietà per i più piccoli.
Benedetto XVI ha ripetutamente insistito su questo punto: laicità non vuol dire chiusura e ostilità alla religione, ma deve significare libertà piena, accoglienza, condivisione di valori, crescita culturale e spirituale per tutti.

Avvenire» dell'8 dicembre 2012

Quali valori sono «non negoziabili»

di Francesco D'Agostino
​La categoria della "non negoziabilità" è emersa per la prima volta nel Magistero della Chiesa nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica emanata il 24 novembre del 2002 dalla Congregazione per la dottrina della fede. La Nota era firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, nella qualità di Prefetto della Congregazione e venne approvata da Papa Giovanni Paolo II. Nel paragrafo 3 della Nota si ribadisce che «non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete – e meno ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno». Se però, aggiunge la Nota, il cristiano è tenuto ad «ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali», egli è ugualmente chiamato «a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili». Nel prosieguo della Nota, e in particolare nel paragrafo 4, si procede a una esemplificazione di questi principi, dopo aver ribadito che «la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona». Le esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, nelle quali è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona, sono quelle che emergono nelle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia, quelle che concernono la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso, protetta nella sua unità e stabilità e alla quale non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza; quelle che garantiscono la libertà di educazione ai genitori per i propri figli. L’esemplificazione ovviamente non è esaustiva. La Nota infatti continua richiamando la tutela sociale dei minori e la liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù (come la droga e lo sfruttamento della prostituzione), includendo in questo elenco il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo per un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà. E infine si richiama come essenziale in questa esemplificazione il grande tema della pace. Non deve destare meraviglia il fatto che l’espressione principi non negoziabili, elaborata da Joseph Ratzinger Cardinale, sia stata da allora ripresa molte volte da Joseph Ratzinger come Papa Benedetto XVI e, naturalmente, in altri documenti del Magistero, fino al punto che tale espressione è ormai divenuta frequente ogni qual volta si discuta sulle posizioni in merito alle quali la Chiesa e i cattolici non possono e non devono transigere. È chiaro, in base ai testi che abbiamo citato, che l’ammonimento del Papa a difendere fino i fondo questi principi è rivolto in primo luogo ai cattolici che partecipano alla vita politica. Ma è lecito interrogarsi se i giuristi non debbano sentirsi anche loro destinatari di un invito così autorevole. La risposta, ovviamente, è positiva. I giuristi non solo possono, ma devono assumere i principi indicati da Benedetto XVI (la promozione del bene comune, l’impegno per la pace, la difesa della vita e della famiglia, il pieno riconoscimento della libertà di educazione) come giuridicamente non negoziabili e assimilarli a quei principi che, nel loro lessico tradizionale, costituiscono l’ossatura del diritto naturale. Ai giuristi è infatti sufficiente rilevare che, se non si assumono questi principi come non negoziabili, la costruzione di un qualsivoglia sistema giuridico diviene impossibile. Facciamo alcuni esempi. Un potere rescisso dal bene comune può pure imporsi sulla faccia della terra (e storicamente si è imposto innumerevoli volte), ma non come ordinante e pacificante (secondo quella che è la vocazione del diritto), bensì nella sua dimensione di forza bruta e cieca. Se la vita non è tutelata giuridicamente dal suo inizio fino alla sua fine naturale, l’esistenza dell’individuo cade inevitabilmente nelle mani di poteri biopolitici, governati dalla logica glaciale della funzionalità riproduttiva. Se la famiglia non viene riconosciuta come l’ordine antropologico primario, antecedente a qualsivoglia ordine politico, perché, a differenza di questo, è dotato di una naturalità non convenzionale, l’identità personale di ogni essere umano diviene evanescente e cade nella disponibilità delle forze occasionalmente prevalenti. Se si nega ai genitori la libertà di educare ai propri valori i figli per affidarla unicamente allo Stato, la formazione delle nuove generazioni verrà inevitabilmente modellata sui paradigmi impersonali della politica e non su quelli personali dell’unico luogo, cioè il contesto familiare, nel quale l’individuo può farsi riconoscere e riconoscere l’altro in una logica di comunicazione totale. Negoziare su tali principi implica mettere in discussione non opzioni individuali per il bene (cosa che è sempre, in linea di principio, lecita), ma l’esistenza stessa di un bene umano universale, al quale tutte le persone hanno il diritto di attingere. Se è diverso l’orientamento al bene umano proprio dei politici, rispetto a quello proprio dei giuristi, non può essere diverso l’impegno di testimonianza che nei confronti del bene devono assumere gli uni e gli altri. La coerenza eucaristica, che il Papa cita come ammonimento ai credenti, va tradotta e professata dai giuristi cattolici come una vera e propria coerenza antropologica o, se si vuole, di servizio limpido e infaticabile al bene dell’uomo.
«Avvenire» del 7 dicembre 2012