03 ottobre 2012

Ma il '900 fu davvero «secolo breve»?

Storia
di Franco Cardini
How to change the world ("Come cambiare il mondo", Rizzoli 2011): questo il titolo dell’ultima opera di Eric Hobsbawm, all’apparenza quasi ottimistico per i tempi che attraversiamo e per l’età dell’autore, che aveva 94 anni al tempo della pubblicazione; a ben guardare, invece, un’opera di coraggiosa sintesi rispetto al proprio pensiero politico e alla realtà del secolo nel quale aveva vissuto e al quale aveva dedicato tanti scritti, così come mostra il sottotitolo inglese: Tales of Marx and Marxism. Scomparso ieri a Londra, era nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, allora protettorato inglese. Figlio di un ebreo inglese di origini polacche, Leopold Hobsbawm, e di una viennese, Nelly Gruen. Rimasto orfano, era stato adottato da uno zio con la famiglia del quale si era trasferito a Berlino dove rimase fino al 1933, quando per ragioni politiche gli Hobsbawm tornarono in Inghilterra.
L’impegno marxista per Eric era già cominciato in Germania e continuò in Inghilterra, dove nel 1946 (dopo aver fatto la guerra) entrò a far parte del "Communist Party Historians Group": il gruppo si divise nel 1956 sulla questione dell’Ungheria, ma al contrario di chi scelse di uscire dal "British Communist Party", Hobsbawm decise di non abbandonarlo, nonostante fosse critico sulla gestione sovietica della crisi. Solo anni dopo dichiarerà di non aver voluto sminuire quanto accadeva in Urss, ma che aveva creduto che «un nuovo mondo stava nascendo tra il sangue e l’orrore della rivoluzione... Grazie al collasso dell’Occidente, avevamo l’illusione che anche questo sistema brutale e sperimentale fosse destinato a funzionare meglio dell’Occidente». Hobsbawm seguì l’evolversi della situazione politica inglese (e in genere occidentale), affermando già negli anni Settanta che la sinistra europea non poteva più eleggere la classe operaia quale ceto di riferimento, perché i processi di deindustrializzazione lo rendevano impossibile. Anche questo ha fatto sì che lo storico si sia molto avvicinato alla fine di quel decennio alle politiche Labour di Neil Kinnock. E questo nonostante le lotte operaie contro le politiche della Thatcher avessero fatto intravedere a molti la possibilità di una classe operaia ancora protagonista.
Un’illusione, come i tempi a venire avrebbero dimostrato. L’avvicinamento al Labour Party e le riconsiderazioni critiche delle scelte del passato non hanno mai significato per Eric Hobsbawm, al contrario di quanto avvenuto per tanti, un’abdicazione dei propri principi e degli ideali socialisti. In questa prospettiva Come cambiare il mondo è un libro significativo perché rappresenta la riflessione di uno storico (che ha attraversato il Novecento e che ha visto fallire il progetto marxista) su come questi ultimi anni ci dicano che anche il trionfo del capitalismo è solo apparente. In una delle sue ultime interviste al Guardian nel gennaio 2011, lo storico inglese concludeva: «I problemi di fondo del XXI secolo richiederanno soluzioni che né il puro mercato, né la pura democrazia liberale posso affrontare adeguatamente. E per farlo dovrà essere elaborata una differente combinazione di pubblico e privato, di azione dello Stato, di rapporto tra controllo e libertà. Come lo chiamerete non lo so. Ma potrebbe non esser più il capitalismo, certamente non nel senso in cui l’abbiamo conosciuto in questo Paese o negli Stati Uniti».
Per gli italiani, Hobsbawm è comunque due cose: lo storico del "mito" di Robin Hood, inventore della geniale definizione di "banditismo sociale" e il teorizzatore del XX secolo come "secolo breve" (nel volume The Age of Extremes: The Short Twentieth Century 1914-1991, uscito nel 1994 e tradotto in Italia da Rizzoli nel ’95). Per lui, dopo il "lungo" Ottocento, il Novecento era anzitutto, se non esclusivamente, l’età dei due grandi totalitarismi e del loro esito, tragico per il nazionalsocialismo e laborioso, faticoso, drammatico per il comunismo. Ma oggi, questo suo secolo cominciato con la prima guerra mondiale e terminato nel 1991 col crollo dell’impero sovietico, ci lascia perplessi. Evidente la copia di un altro secolo breve, quello tale per eccellenza, il Settecento, cominciato, com’è stato detto, con la morte del Re Sole nel 1715 e terminato con la presa della Bastiglia. Analizzando gli anni tra il 1914 e il 1991, lo storico scrisse: «Il secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità».
Oggi però ci chiediamo se il Novecento non sia stato un secolo lungo se non lunghissimo, già avviato con il 1870 (l’anno della débacle della Francia dinanzi alla Germania, avvìo di una lunga révanche) e con il 1878, l’anno del Congresso di Berlino che s’illuse di sistemare le questioni balcanica e orientale (le medesime che ci troviamo dinanzi oggi) per finire ben oltre il fatidico 11 settembre del 2001, nella crisi ormai avviata.
Novecento come ultimo secolo di quella che Zygmunt Bauman ha definito «Modernità solida», come avvio del mondo postmoderno. A esso Eric Hobsbawm ha fornito un contributo essenziale, insegnandoci con L’invenzione della tradizione che le tradizioni non sono arcaiche, metastoriche ed eterne, ma si rinnovano e si ridefiniscono di continuo. L’uomo non ricorda, ricostruisce. Una lezione forse da non accettare integralmente, certo però da meditare.
«Avvenire» del 2 ottobre 2012

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