23 ottobre 2012

La ricca pesca di Google nel baratto digitale

Le critiche della Ue all’uso dei dati personali
di Francesco Ognibene
 
Dicono che la crisi abbia incoraggiato a rispolverare il baratto: quando mancano i soldi per la compravendita si può sempre fare appello allo scambio tra beni di valore equivalente, qualcosa di mio per qualcosa che ti appartiene. Un gesto che, peraltro, riattiva la fiducia reciproca oscurata dal ricorso esclusivo al denaro nelle relazioni personali, chiamando le parti a mettersi in gioco assai più di quanto accada con una banconota o la carta di credito.
L’importante è che la transazione avvenga all’insegna del gratuito e su un piano di sostanziale parità, soppesando i benefici attesi da entrambi.
Dove il sistema del baratto funziona a pieno regime – pressoché non visto, ma in regime di effettivo monopolio – è dentro il "sesto continente" di Internet, nel quale vige un codice elementare quanto efficacissimo: vuoi fruire gratis di uno qualunque dei servizi oramai irrinunciabili per chiunque si muova sul Web? L’affare si può concludere, ma cosa mi offri in cambio? Ormai è chiaro che i fornitori di posta elettronica, messaggistica, mappe stradali, musica e spazi video su Internet puntano dritto sul solo bene che nel Web oggi vale come moneta sonante, ed è considerato di valore sufficiente a ripagare i considerevoli servizi offerti senza chiedere alcun corrispettivo economico: l’identità degli utenti.
Niente di più facile che cliccare nelle caselle indicate in calce alla corposissima modulistica sulla privacy – provate solo a non farlo: sarete messi alla porta, ovviamente a mani vuote – per vedersi spalancare la porta già aperta da milioni di altri utenti che hanno accettato il baratto digitale tra parti rilevanti di sé e la libertà di comunicare senza limiti.
Quello che si cede infatti non sono solo le generalità ma la propria "mappabilità", la radiografia completa di gusti, interessi, opinioni, consumi, acquisti, persino degli spostamenti. Della raccolta sistematica dei dati personali, autorizzata dai diretti interessati in cambio del piatto di lenticchie di una casella postale o di qualche video amatoriale caricato su Internet, Google ha fatto una scienza per effetto della sua tumultuosa espansione da motore di ricerca a oligopolio del Web con marchi come Gmail, YouTube, Google Maps e Google News associati a servizi trasformati in standard.
L’impero fondato da Sergey Brin e Larry Page prospera grazie alla pubblicità mirata sul profilo individuale di chi usa uno qualunque dei servizi gratuiti targati Google. La fotografia di ciascun utilizzatore dev’essere precisa al punto da permettere, a fronte di ricerche uguali, risultati differenti (e differente pubblicità) a seconda di chi interroga Google: un effetto paradossale della pesca a strascico nei dati personali, che finisce per cucire attorno a ogni utente un vestito informativo su misura, come se il sapere, le notizie, le idee o i dati che emergono dagli spazi sconfinati della rete potessero assumere infiniti volti e non possedessero più una natura propria. L’effetto-Google è che ognuno trova quel che si aspetta piuttosto che la realtà, una conoscenza parziale e non uno sguardo completo. Siamo sulla soglia di un ridisegno della conoscenza ma nessuno ci ha avvertiti: sembrava tutto facile, quando ci fu chiesto di "accettare" le condizioni per il baratto identità-servizi, ma il gioco oggi si svela assai più complesso del "tutto gratis".
È probabile che i Garanti della privacy dei Paesi Ue avessero presenti anche questi aspetti di scenario quando, ieri, hanno sottoscritto una lettera per chiedere conto a Google della sua gestione sempre più opaca della mole ingentissima di informazioni personali stivata giorno dopo giorno nei forzieri informatici del quartier generale a Mountain View. La loro offensiva diplomatica ha preso di petto la questione centrale nell’era della piena maturità di Internet: la gestione delle orme che lasciamo a ogni segnale di attività lanciato tramite computer, tablet o smartphone. Non c’è sospiro che passi inosservato.
La «privacy policy» di Google – il documento che si sottoscrive prima di accedere al servizio desiderato – costituisce ormai una cambiale in bianco della quale abbiamo perso il controllo. Ma è realistico pensare che basti aggiungere qualche pagina a questo cavilloso contratto preliminare, congegnato da uno stuolo di avvocati al solo scopo di prevenire qualunque grana legale, per rendere più trasparente il rapporto in questo scambio sempre più diseguale? La verità è che quanto maggiori sono le prestazioni che esigiamo da Google tanto più acuta dev’essere la consapevolezza nell’uso di uno strumento così potente e pervasivo. Una questione di coscienza e responsabiltà. Come sempre.


«Avvenire» del 17 ottobre 2012

Cucina, a tavola con antica Roma

di Roberto I. Zanini
 
​Dell’antichità romana pensiamo di conoscere molte cose. Ne conosciamo i grandi personaggi, la lingua, la storia, l’immenso patrimonio artistico, la poesia, la letteratura. Le ricerche archeologiche e gli scritti dell’epoca ci hanno fatto conoscere le abitudini quotidiane. Delle metropoli romane possiamo immaginare i colori e i suoni. Molto poco, però, conosciamo degli odori. In particolare di quelli alimentari, che in una città come Roma aleggiavano per fori, templi, terme e vicoli dalle prime ore dell’alba fino a notte avanzata, provenienti dalle cucine della tabernae e dai banchi degli ambulanti che, racconta Marziale negli Epigrammi, «avevano sottratto la città intera», così che «le strade sembravano sentieri». Qualche decennio prima Seneca parla di bancarelle, lixae, in cui si vendono biscotti, bibite, frutta secca (i romani erano ghiotti di pistacchi, introdotti dal 37 a.C.), frutta fresca, e cibi caldi arrostiti o bolliti (come luganeghe, interiora e pollame), conditi con salse dai sapori assai difficili per i palati contemporanei. Una pittura di Pompei presenta un giovane che acquista una porzione calda di cappone da un ambulante. In un’altra celebre pittura della città vesuviana è rappresentata una rissa al di fuori dell’anfiteatro, fra le tende e i carretti dei venditori take away dell’epoca. Odori e sapori che rivivono, corredati da esaustivi riferimenti storici, oltre che da ricette autentiche, nel volume Ars culinaria (Donzelli, pagine 444, euro 24,00) della filologa Antonietta Dosi e dell’archeologa Giuseppina Pisani Sartorio. Un po’ testo di storia, un po’ libro di cucina, riesce a rendere evidente non solo come mangiavano i romani, ma soprattutto come le ricette di duemila anni fa sopravvivano tutt’oggi, con alcune modifiche, nelle nostre cucine regionali e in molte dell’Oriente, Vicino ed Estremo. Ricette antiche poste a fronte delle loro derivate moderne. Con la possibilità, che è quel che ancor più incuriosisce, di poterle sperimentare nelle due maniere, scoprendo che la fricassea ha almeno due millenni e che il foie gras, con relativo paté, non lo hanno inventato i francesi, ma i romani, che nella versione più sofisticata lo chiamavano ficatum, perché tratto da oche ingrassate con fichi. Naturalmente necessari alcuni adattamenti. Sia per l’introvabilità di certi ingredienti, soprattutto erbe selvatiche, spezie e aromi, che i romani utilizzavano in gran numero, facendoli venire da ogni angolo del mondo; sia per l’onnipresente prescrizione del garum, nella cottura o nel condimento finale. Una salsa a base di interiora di pesce crudo, salato e speziato, che spesso doveva risultare mefitica, anche se ne esisteva una versione per commensali ricchi e raffinati, che veniva realizzata in maniera non troppo dissimile dall’attuale salagione delle acciughe. Qualcosa che somiglia al garum si trova in alcune conserve di piccoli pesci, tipiche delle popolazioni dei delta dell’Estremo Oriente, come quello del Mekong, ma anche nella più raffinata e appetitosa "sardella" calabrese, sebbene ricca di peperoncino, pianta che i romani non potevano certamente conoscere.
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno spaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto.
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo "immolare", relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine "alimentare" di cospargere la "vittima" di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato "troia", (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse. Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.

I pesci, il garum di Marziale e le sei salse di Apicio
I pesci e i crostacei piacevano talmente che i ricchi realizzavano nelle loro villae delle piscine per allevarli. Ateneo racconta che Apicio ne era così ghiotto da attrezzare una nave per andare a pescare gamberi e scampi sulle coste libiche, salvo poi scoprire che erano del tutto uguali a quelli tirrenici. Già nel primo secolo a.C. i romani allevavano sia ostriche che mitili. Le murene erano considerate una prelibatezza (Apicio indica ben sei salse diverse per condirle) e, stando a Plinio, il loro allevamento fece la fortuna di molti commercianti. Tale Gaio Irrio ne aveva un allevamento immenso tanto da poterne vendere semilia in una sola volta per i festeggiamenti dei trionfi di Cesare. Alla morte di Lucullo, i pesci dei suoi allevamenti vennero venduti per l’enorme cifra di quarantamila assi. Moltissime le ricette per cucinarli. Alcune in tutto simili alle attuali, come questo ius in pisce elixo (pesce alla creta con salsa) di Apicio, che sembra una variante del nostro pesce al sale: «Metti in un mortaio sale e semi di coriandolo, pestali bene e avvolgi il pesce ben pulito, poi disponilo in un tegame, sotto un coperchio bene ingessato e cuocilo al forno. Levalo, spruzzalo con aceto fortissimo e servilo». Esistevano anche numerose industrie di conservazione, soprattutto in Sicilia, per tonno, sgombri, sardine. Il garum migliore, invece, veniva da una manifattura di Cartagena. Per capire cosa fosse questo condimento che è alla base dell’intera cucina romana ecco la ricetta proposta da Gargilio Marziale nelle Geoponiche: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine. Si prendano erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, serpillo. Di queste erbe si disponga un primo strato nel fondo di un grande vaso. Si faccia quindi uno strato di pesci interi o a pezzi, se sono grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda e si lasci macerare per sette giorni. Poi per venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola».

Le carni e per i grandi ricevimenti struzzi, bagnet e fricassea
Si mangiava carne di ogni tipo. Ovine, caprine, di volatili come i tacchini (a smentire la credenza che vengano dalle Americhe), i polli e persino struzzi. Il cane era una prelibatezza: Festo (Breviarium rerum gestarum populi romani) racconta che nel II d.C. i "cuccioli alla mammella" figuravano nei pranzi più importanti e in quelli in onore agli dei. Il maiale era il cibo di tutti. I bovini, usati quasi esclusivamente per i tiri agricoli, vennero introdotti nell’alimentazione comune avanti nei secoli, per una sorta di sacro rispetto per il lavoro dei campi. Venivano cotte con salse ricchissime di aromi, con aggiunte di formaggio e spesso rifinite con le uova, alla maniera della fricassea. Ed è frequente imbattersi in ricette assai simili a quelle contemporanee. Catone, per esempio, riporta un intingolo dicendo serva per «liberare il ventre», ma che depurato dalle erbe lassative e dall’onnipresente pesce sembra l’antesignano di pietanze come la cassoeula lombarda: «Prendi una marmitta, versaci sei sestarii di acqua, uno zampetto di maiale, un pezzo di prosciutto, due cime di cavolo, due gambi di bieta con la radice, un germoglio di felce, un po’ di erba mercuriale, due libbre di mitili, un cefalo, un pesce scorpione, sei lumache di mare, un pugno di lenticchie. Fa cuocere finché il brodo si riduce a un terzo». E il bollito misto alla maniera piemontese sembra provenire dalla descrizione fatta da Ateneo di quel che si preparava ad Alessandria d’Egitto nei lephtopolia (botteghe del bollito), con «piedini, testa, orecchie, mascella, trippe e lingua». Espertissimo di condimenti il solito Apicio accompagnava i suoi bolliti (di singole carni) con salse fatte di pepe, levistico, menta, aceto, garum, laser, cumino, olio e miele, che ricordano il classico bagnet verde piemontese fatto con prezzemolo, aceto, olio, acciuga salata (in luogo del garum), aglio (al posto dell’introvabile laser), pepe. Nella stessa bagna cauda trionfano i sapori delle acciughe salate e dell’aglio.


 
«Avvenire» del 22 ottobre 2012

Brague: «Voi giornalisti, moderni sofisti»

di Paolo Viana
​«Il rispetto per il passato è la condizione per aprire un possibile futuro». Rémi Brague, il filosofo che Benedetto XVI ha appena insignito del premio Ratzinger per la teologia, parla con pacata mestizia, sforzandosi di essere semplice anche se in platea siedono solo filosofi come lui. Ha appena finito di spiegare che la Tradizione non è quella serie ininterrotta di crimini che si crede, che l’errore del rivoluzionario consiste nel supporre di dover fare tabula rasa del passato per costruire il futuro e quello del reazionario di "inventare la tradizione" per poterla conservare (il testo integrale della lezione, tenuta ieri alla Cattolica nell’ambito del ciclo "Tradizione e Innovazione", sarà pubblicato sul prossimo numero di Philosophical News) ma, anche se la sua relazione si intitola "Non tradire la tradizione", si capisce che considera (quasi) persa la battaglia. E per colpa dei media. Professore, a cosa serve il passato? «Non a rimanerci dentro; il punto non è restare nel passato ma restare fedeli a ciò che ci ha prodotto, perché noi siamo il prodotto del passato e dobbiamo essere in contatto con esso se vogliamo diventare passato a nostra volta; saremo il passato del nostro futuro, quello che si prepara oggi con noi. Per fare questo, servirebbe la capacità di lasciare che il passato produca i suoi effetti, l’attitudine nota a Burke ("Coloro che non guardano mai ai loro antenati non vedranno mai i loro posteri"), ma anche ai latini, che la sintetizzavano nella pietas».
E se non fosse un problema di capacità, se i nostri contemporanei non volessero proprio aver nulla a che fare con il passato? L’uomo occidentale, o per lo meno l’intellettuale di questa parte del mondo, conserva un’immagine molto negativa del passato e lo rappresenta come una serie ininterrotta di crimini. C’è qualche elemento di verità in questa descrizione che porta l’Occidente a odiare se stesso: è vero che abbiamo scoperto, conquistato e sottomesso il resto del mondo, che l’abbiamo colonizzato… Il problema principale è però la nostra inclinazione a una confessione dei peccati senza assoluzione e senza perdono, che si traduce in un esercizio perverso, in quanto impedisce di agire, ci paralizza. Per uscire da questo complesso, la confessione, che ha una sua ragion d’essere, dovrebbe essere completata, cioè resa positiva, attraverso l’assoluzione e il perdono dei peccati; ma questo perdono può venire solo da Dio».
Quali conseguenza comporta la scelta ricorrente, nella cultura e nel costume, di rompere con il passato, condannarlo e condannare se stessi? «Comporta il rischio di perdere la capacità di ricevere e trasmettere, che infatti oggi è avvelenata dal nostro rapporto con il passato. Il processo è molto avanti, investe il linguaggio. Pensiamo a quanto sia ambiguo oramai il termine "tradizione": ci piace il pane "tradizionale" e ci irrigidiamo non appena si parla di matrimonio "tradizionale". Sul piano filosofico, la tradizione è accettata quando ha un significato teleologico (purché il telos siamo noi), mentre la valutiamo negativamente quando la concepiamo come trasmissione, che è poi il significato della parola latina traditio».
Perché la trasmissione è diventata punto di rottura? «Forse perché è più difficile trasmettere qualcosa, ci vuole una volontà, un progetto positivo, ed è più semplice affidarsi alla tradizione della pigrizia, di quello che riceviamo già fatto, che non richiede fatica né progetto. Il problema di questo nostro tempo diventa allora quello del coraggio: ci vuole coraggio per trasmettere qualcosa, per preparare il futuro e non accontentarsi di ricevere quanto il passato ci ha trasmesso».
Non crede che il problema sia anche di trovare un codice per trasmettere una tradizione che risulta oramai incomprensibile per chi comunica con Twitter e Facebook? «Purtroppo quello che dice è fin troppo vero. Mi spiace ammetterlo ma è proprio così. Gli intellettuali al giorno d’oggi devono darsi il compito di trovare un linguaggio, prima di tutto, che sia comprensibile ai giovani. Quello che manca è in effetti un ponte attraverso il quale far passare alle masse ciò che pensano gli intellettuali e i media hanno la responsabilità tremenda di non far udire le idee alla gente, che di quelle idee ha invece un gran bisogno. I giornalisti sono come i sofisti descritti da Platone: ripetono, ripetono e ripetono quello che si dice in giro...».
«Avvenire» del 23 ottobre 2012

Ma non siamo tutti matti

Il nuovo manuale ridefinisce la malattia mentale. Protestano i medici: raccolte oltre 14 mila firme
di Francesca Ronchin
A maggio del 2013 arriverà l’ultima edizione del «Dsm», la «Bibbia» americana della psichiatria, già finita al centro delle polemiche. Mobilitazione in tutto il mondo: «Così il disagio diventa un’epidemia»
Mettiamo un vago senso di ansia che qualcosa di negativo stia per accadere. Oppure quel bisogno irresistibile di fare shopping o un’ora di corsa dopo il lavoro perché senza si sta peggio. Prendiamo continui sbalzi d’umore in uno stato di diffusa irritabilità. Tra pochi mesi potrebbero diventare delle vere malattie mentali. Non più semplici debolezze o inclinazioni caratteriali ma «disturbo generalizzato di ansia», «dipendenze comportamentali» e «disturbo dirompente di disregolazione dell’umore».
Un’ondata di etichette in arrivo dagli Stati Uniti a mano a mano che si avvicina maggio 2013, data prevista dell’uscita del Dsm-V, la quinta edizione del manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali, la bibbia della psichiatria redatta dall’Apa, American Psychiatric Association, e utilizzata in tutto il mondo. È il manuale che viene consultato per fare le diagnosi, prescrivere farmaci e, specie in America, fornire quel codice tassonomico che tanto serve alle assicurazioni. Non è l’unico sistema di classificazione delle malattie, in virtù di accordi con l’Organizzazione mondiale della sanità, il sistema sanitario italiano segue l’Icd (International classification of diseases), ma il Dsm è più influente a causa del ruolo di prestigio degli Stati Uniti nella ricerca scientifica. Non solo, è anche il testo sul quale i tribunali basano le loro sentenze e che orienta le ricerche delle case farmaceutiche. Pubblicato per la prima volta nel 1952, 150 pagine e 128 disturbi, negli anni si è arrivati alle 900 pagine e alle 365 malattie del Dsm-IV-Tr («text revised»), tuttora in uso.
Ad ogni nuova edizione il Dsm fa parlare di sé ma è la prima volta che suscita tanto clamore, al punto che l’uscita è stata rimandata dopo che il sito con la bozza (www.dsm5.org) è stato raggiunto da 50 milioni di contatti e 25mila critiche. La paura di scienziati e filosofi è che il nuovo Dsm-V provochi un’esplosione di malati e terapie farmacologiche in un momento in cui, secondo dati del National Institute of Mental Health, solo negli Usa, un adulto su 4 si vede diagnosticare un qualche disordine mentale e uno su 5 assume psicofarmaci. In prima linea l’American Psychological Association che ha indetto una petizione appoggiata da altre 50 associazioni e 14 mila firmatari. A preoccupare non sarebbero solo i «nuovi disordini» ma il generale abbassamento della soglia diagnostica per patologie già esistenti. Sintomi più lievi e di minor durata perché basta cambiare un numero, portare da 7 a 12 l’età di insorgenza di un episodio di iperattività per far scattare la diagnosi di Adhd (Attention deficit and hiperactivity disorder) e quindi trasformare milioni di bambini vivaci in pazienti da curare con stimolanti.
«Si rischia un’epidemia di falsi positivi — spiega Allen Frances, professore emerito della Duke University — soggetti che soddisfano i criteri diagnostici senza in realtà essere malati». Un fenomeno già verificatosi con il Dsm-IV, redatto proprio dallo stesso Frances che da allora ha fatto della difesa della normalità la sua battaglia. Complice il tam tam sui media di mezzo mondo, i risultati ci sono stati. Il lutto ad esempio. Il nuovo Dsm-V voleva introdurlo come forma di depressione maggiore, la cui diagnosi può scattare dopo un periodo di sole due settimane. Di fronte all’orrore generale, l’Apa ha pensato bene di fare marcia indietro in nome di «una più attenta revisione delle evidenze scientifiche». Dietrofront anche sulla «sindrome da psicosi attenuata» che avrebbe potuto stigmatizzare milioni di persone eccentriche ma non scollegate dalla realtà. Così come per la «dipendenza comportamentale» circoscritta, per ora, al solo gioco d’azzardo. Resta fuori la dipendenza da Internet anche se il prematuro battesimo ha già dato il via a un’infinità di pubblicazioni e proposte terapeutiche, complice il cambio di terminologia. Non più «dependence» ma «addiction» così da equiparare Internet e simili a vere e proprie droghe.
«Stiamo procedendo con lamassima attenzione — spiega David Kupfer, responsabile della Task Force Dsm-V dell’Apa — non solo per evitare che le diagnosi siano troppe, ma anche troppo poche». E anche se «alcuni segnali positivi ci sono — ammette Allen Frances — i rischi restano. In particolare la patologizzazione degli scatti d’ira dei bambini, l’introduzione del lieve disturbo neuro-cognitivo negli anziani e del “binge eating”, come se dimenticare le cose o qualche incursione notturna in cucina siano condizione sufficiente per ritenersi malati. Se devo dirla tutta, con il Dsm-III saremmo più che a posto». Una provocazione forse, ma neanche tanto. «Il Dsm-V era nato dall’idea di identificare un marker biologico che permettesse di costruire anche in psichiatria diagnosi specifiche così come accade nelle altre branche della medicina — spiega Giovanni Muscettola, ordinario di Psichiatria presso l’Università Federico II di Napoli —, purtroppo non siamo ancora a questo punto».
In sostanza, i passi in avanti di psichiatria e neuroscienze non sarebbero tali da determinare una rivoluzione nella diagnosi delle malattie mentali, anzi, proprio in assenza di indicatori oggettivi che segnino il confine tra normale e patologico sarebbe possibile estendere i confini diagnostici in un modo che in altre branche della medicina sarebbe improponibile. «Criticare il Dsm è diventato una moda — spiega Muscettola— ma di certo l’eccessiva psichiatrizzazione di ogni disagio ha alimentato l’antipsichiatria e ci ha reso meno credibili. Una cosa è la malattia mentale, un’altra il disagio». Proprio l’inquadramento biologico della sofferenza psichica, sarebbe uno dei punti criticati dalla Petizione degli Psicologi dove si rivendica l’importanza della componente socioculturale.
Lou Marinoff, filosofo e autore del bestseller mondiale Platone è meglio del Prozac, ne sa qualcosa. «Molte malattie mentali sono disagi di derivazione culturale che una volta non c’erano: dalle disfunzioni sessuali ai disturbi alimentari. I bambini di oggi fanno fatica a concentrarsi non perché sono tutti malati di Adhd bensì perché le modalità di apprendimento sono per lo più visive e uditive, il che riduce drasticamente la durata dell’attenzione. Altra grande “epidemia” è quella di obesità, ma ci si dimentica che non è una malattia bensì un sintomo e se lamedicina confonde le cause con la loro manifestazione, come si può pensare che le cure proposte siano efficaci?». Specialmente se è vero che gli psicofarmaci sarebbero poco più di un placebo, come sostenuto dallo scienziato Irving Kirsch, e se si guarda all’attuale ricerca farmacologica in ambito psichiatrico che, dopo l’entusiasmo degli anni 80, starebbe vivendo una battuta di arresto. Se lemalattie mentali aumentano, i farmaci per curarle sarebbero sempre gli stessi, antipsicotici in testa, mentre il mercato si riempie di me too drugs, farmaci fotocopia di quelli esistenti. La colpa della frenata di investimenti da parte di Big Pharma, ha spiegato l’ex direttore del Nimh Steven Hyman, sarebbe del cervello che, neanche a dirlo, continua a essere troppo complesso.
E proprio per meglio rappresentare «l’evasività» della malattia mentale, il nuovo Dsm-V rivoluziona l’attuale approccio categoriale aggiungendone uno dimensionale. Normalità e patologia come parti di uno stesso spettro favorendo, in questo modo, l’identificazione delle forme attenuate, sottosoglia e quindi la prevenzione. Un passo in avanti anche se il rischio, secondo i critici, è quello di esasperare la medicalizzazione intercettando condizioni che in realtà potrebbero essere transitorie. «Per fare una diagnosi come si deve — spiega Alessandro Rossi, ordinario di Psichiatra presso l’Università dell’Aquila — bisognerebbe effettuare un’intervista strutturata di un’ora. Cosa che nella pratica avverrà nel 20-30% dei casi. In 20 minuti un medico deve fare troppe cose e il Dsm non ha neanche il tempo di aprirlo. Se venisse usato come si deve, probabilmente vi sarebbero meno malati e meno farmaci». Insomma, il punto sarebbe che il Dsm non lo si usa troppo, ma troppo poco. Specialmente in America dove visite di 15 minuti con tanto di ricetta sono pagate tre volte tanto rispetto a quelle da 45 a orientamento psicoterapeutico, servizio che ormai offrirebbe poco meno del 10% degli psichiatri. Non solo, perché i farmaci possano essere scaricabili, le assicurazioni richiedono il codice diagnostico del Dsm delineando un sistema costruito su misura loro e delle case farmaceutiche.
Non stupisce allora — come rilevato da Lisa Cosgrove, dell’Edmond J. Safra Center for Ethics della Harvard University — che il 69% degli psichiatri alle prese con il Dsm-V avrebbe legami con l’industria. Non è d’accordo però Allen Frances secondo cui il vero conflitto sarebbe di ordine intellettuale, quello di una disciplina troppo compiaciuta nelle sue categorie. «Da tempo sollecito, invano, l’ingresso di un’agenzia esterna e indipendente che supervisioni la redazione del Dsm — conclude —, spero che la pubblicazione del manuale venga rimandata». Una prospettiva che l’Apa al momento esclude. «Le varie proposte sono state viste e riviste molte volte — spiega David Kupfer — sulla base della letteratura, dei risultati delle sperimentazioni sul campo e dei commenti ricevuti dal pubblico. L’obiettivo è quello di trasformare il Dsm in un “documento vivente” dove ogni aggiornamento periodico sarà identificato come Dsm-V.1, V.2 ecc.». Insomma, si pensa già al sequel, perché il Dsm vende milioni di copie e per l’Apa, che ne detiene il copyright, è una grossa fonte di guadagno.
Ma oltre ad essere un’operazione che non prescinde da aspetti commerciali, c’è chi la definisce addirittura «pseudoscientifica». «Il Dsm è l’unico caso in cui una pubblicazione scientifica è decisa per votazione democratica — sostiene Lou Marinoff —. È un testo politico. Basti pensare al fatto che l’omosessualità è stata considerata una malattia mentale fino al 1973, anno in cui è stata rimossa in seguito all’aumentata influenza della lobby gay, non certo in seguito a “evidenze scientifiche”. Del resto, l’impatto che l’opinione pubblica ha avuto in questi ultimi mesi non è che una ulteriore conferma. Se il malumore continua, arriveranno altre modifiche».
 

«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 7 ottobresettembre 2012

L’abuso politico del cancro

La pigrizia delle metafore, l’altalena fra allarmismo e sottostima dei rischi
di Pierluigi Battista
Proclami demagogici e semplificazioni dei media provocano disagio nelle persone che soffrono 
Molte persone, per evidenti ragioni autobiografiche, perché sono malate o vivono con persone malate oppure hanno perduto qualcuno a causa di una malattia grave e non curabile, non amano veder ostentato il «tumore» come arma di lotta politica.
Si capisce, e lo ha scritto mirabilmente Susan Sontag, che il cancro funziona perfettamente «come metafora» e che si attinge spesso in modo spensierato e come consuetudine lessicale automatica alla «mitologia del cancro». Ma un uso così strumentale del cancro, una smodatezza lessicale così ostentata, come ha scritto anche Stefania Ulivi nella «27esima ora» del Corriere.it, appare offensiva e stridente. E non perché si rimpianga il tempo antico dell’ipocrisia in cui la parola «cancro» era addirittura innominabile e ci si premurava di cancellare il vocabolo sussurrando allusivi eufemismi, ma perché l’uso politico del tumore banalizza tutto, azzera la realtà della sofferenza, fa sentire chi sta male o chi è vicino a chi sta male un ostaggio nelle mani di contendenti davvero poco rispettosi.
Renata Polverini merita rispetto per i tumori che le sono stati asportati, ma quando ha impostato la sua requisitoria alla Regione Lazio contro gli indecenti predatori dei contributi pubblici ai partiti, ha voluto deliberatamente, per dare ancora più enfasi al suo discorso, calcare la mano sui «tumori da estirpare» anche in sede politica. Ha esagerato e molti malati di tumore, ascoltando le sue parole, hanno provato un profondo ed inesprimibile disagio. Un disagio difficile da razionalizzare, ma autentico e intenso. Attorno al cancro - è sempre Susan Sontag ad aver analizzato gli usi della lingua corrente sul cancro nel suo Malattia come metafora - si addensano con grande facilità espressioni e locuzioni ricavate dal gergo militare. E forse nella Polverini, che spronava a «sradicare» i tumori, parlava un luogo comune molto frequentato nel nostro vocabolario emotivo: le cellule cancerose che «invadono», che «colonizzano » il corpo. E le «difese» che si apprestano per combattere «l’invasione tumorale» e i pazienti che vengono «bombardati» con la chemio o con i raggi, e gli agenti patogeni che «si infiltrano», e la terapia che «annienta» le cellule, l’intervento chirurgico che «sradica» o «estirpa» il cancro, eccetera eccetera. Una banale ripetizione di un luogo comune. Però, a lungo andare, e usato in un conteso discutibile, quel luogo comune può suonare irritante, impertinente, inopportuno. Persino offensivo.
Ma non è solo di parole «malate» che si ciba l’uso politico del tumore, o la «malattia come metafora». Per esempio nella leggerezza con cui vengono rilasciati dati allarmistici sulla presunta potenzialità cancerogena di sostanze, o nell’analoga leggerezza con cui vengono contestati quegli stessi dati dal fronte opposto, si ha l’impressione che si stia giocando una partita senza nessun rispetto per i malati, per chi è morto o per chi potrebbe morire a seconda della veridicità o della falsità di quei dati. Lo si è visto a Taranto, a proposito della tossicità dello stabilimento siderurgico dell’Ilva. Qui i dati ballano, vengono afferrati, manipolati, dilatati, ristretti, minimizzati, enfatizzati con una disinvoltura che fa spavento. Circolano dati in cui appare macroscopica la maggior incidenza dei tumori a Taranto. Ma circolano dati dal significato opposto, che raccontano invece di un’incidenza dei tumori a Taranto minore che in altre parti d’Italia. Non è solo il dilemma che dovrebbe interrogare chiunque non abbia una posizione preconcetta: a chi dare credito? È lo sconcerto per la facilità con cui, da ambo le parti, vengono scagliati dati contrabbandati come certi e incontrovertibili. E insieme è la sensazione che anche lì si assista sgomenti a un uso politico dei numeri e delle statistiche, con dati di un certo tipo se sono agitati da chi vorrebbe la chiusura immediata dell’Ilva e dati di tipo opposto messi sul tappeto da chi non vorrebbe spegnere gli altiforni di Taranto. E i malati? E le loro famiglie? E i vedovi e le vedove e chi ha addirittura perso un figlio? Sono fuori da questa competizione, giocati come dadi in una partita in cui non esiste più l’umanità concreta di chi soffre o di chi ha sofferto e ha finito di soffrire dentro una tomba.
E la leggerezza con cui sono stati diffusi altri dati, stavolta sulla nocività cancerogena degli Ogm? E la leggerezza con cui quelli che da sempre sono contro gli Ogm hanno accolto queste ricerche come fossero la verità, o il sussiego di chi da sempre difende gli Ogm e dunque non può che contestare a priori quei dati? Non è la scienza che parla. È il pregiudizio, l’ideologia. Ma chi si è ammalato di un tumore ha bisogno di scienza, non di pregiudizi, di ideologia, di dati forniti e pubblicati con leggerezza, commentati con distrazione, accolti come uno dei tanti «allarmi» ed «emergenze» che costellano l’informazione dei media contemporanei.
Per questo bisognerebbe essere più cauti, più rispettosi. Capire che numeri dati a casaccio o metafore usate con faciloneria nel linguaggio politico possono far male, possono aggiungere angoscia e incertezza. Bandire l’uso politico del tumore sarebbe una svolta di civiltà. Non una riedizione delle buone maniere, ma la convinzione che il rispetto per chi soffre dovrebbe essere ovvio per tutti. Per tutti, nessuno escluso. E non occorre nemmeno tanta fatica per capirlo.

Corriere della sera - Suppl. La lettura» del 7 ottobre 2012

Insegnare. È una professione non una missione

Parla Gianfranco Giovannone, a 60 anni ancora in cattedra con orgoglio e rabbia
di Paolo Di Stefano
Salari bassi, riforme sbagliate e la "vocazione" al volontariato
«Nonostante tutto, dopo 4 o 5 ore passate con degli adolescenti, sei stanco», dice Gianfranco Giovannone in un lunedì pomeriggio di fine settembre. Dopo aver studiato lingue a Pisa e aver insegnato in tutti gli ordini di scuola, escluse le materne, a sessant’anni suonati può permettersi di parlare della scuola senza l’abnegazione cieca del sentimentalismo deamicisiano e senza le cupezze del risentimento e della nostalgia. Del resto, non c’era né cuore-in-mano né rancore neppure nel libro che ha pubblicato qualche anno fa (Perché non sarò mai un insegnante, Longanesi), in cui attraverso le parole degli studenti veniva illustrato, con abbagliante sincerità, il declino della professione docente. Erano i ragazzi, appunto, nei loro componimenti, i primi a considerare i prof degli alieni, dei corpi estranei al mondo e alla realtà, ma soprattutto ben lontani dalla formulamagica «denaro, potere, immagine», in cui generalmente si riassume il prestigio sociale. Insomma, la classe degli insegnanti, che ha il compito importantissimo di formare i cittadini del futuro, appare proprio alle giovani generazioni come un manipolo di «sfigati», descritti in un’ampia gamma di coloriture che va dall’ironia alla vera e propria ostilità, dal compatimento al disprezzo. Più o meno la stessa considerazione di cui il docente gode all’interno della società.
Dunque? Al professor Giovannone, che insegna inglese al liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, è sposato con una maestra elementare e ha un figlio universitario, mancano quattro anni per raggiungere la pensione, ma non ne fa un dramma, anzi: «Grazie alla riforma dei tecnici dovrò continuare a lavorare, ma non mi interessa: sono contento, è un lavoro che mi piace e che ritengo importante per la società». In pochi, però, lo riconoscono come tale. C’è un ampio repertorio letterario e cinematografico che sta a dimostrare il contrario. Ultimo venne il film di Giuseppe Piccioni Il rosso e il blu (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che non si sottrae, sia pure con mano leggera, al cliché dell’ambiente un po’ bozzettistico e tragicomico, pieno di insegnanti frustrati e/o idealisti e di allievi depressi e/o esagitati, strafottenti e sostanzialmente ignoranti. «Non mi piace, in genere, la maniera pittoresca, sdolcinata e pezzente di raccontare la vita scolastica. C’è però una cosa che salverei nel film: la figura dell’anziano professor Fiorito, interpretato da Roberto Herlitzka, colto, tradizionalista, superbo, nevrastenico. Alla fine non tutto il bene sta dalla parte del supplente Scamarcio, animato dall’ideale di portare sulla retta via i suoi allievi. È interessante che anche il vecchio prof abbia il riconoscimento degli studenti dopo la sua ultima bellissima lezione su classicismo e romanticismo. Per il resto mi sembrano tante figurine svampite che nella scuola reale non esistono». Il confronto può essere fatto con un film canadese, Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, dove è in gioco la questione scottante della permeabilità della scuola alla realtà (anche tragica).
La letteratura ha contribuito all’immagine della scuola italiana come carrozzone folcloristico in cui gli insegnanti si barcamenano come possono, tra il menefreghismo e l’incomprensione: «Ci sono anche racconti molto divertenti, come quelli di Domenico Starnone, ma rimane sempre quel vezzo di restituire un’immagine triste degli insegnanti, come individui patetici che si arrabattano alle prese con adolescenti odiosetti, antipatici e problematici. Chissà perché i docenti vengono quasi sempre trattati da personaggi ridicoli e non da intellettuali che hanno un profilo davvero professionale e che rendono un servizio egregio alla società». È contro la rappresentazione apocalittica che Giovannone, nel suo libro, aveva puntato il dito: la scuola da buttare, il cadavere, la miseria, la catastrofe, il disastro, lo sfascio del sistema scuola eccetera. «L’errore è quello di non distinguere. In Italia abbiamo scuole pubbliche generalmente di buon livello e anche di eccellenza, le materne, le elementari, il liceo classico e lo scientifico. Basterebbe leggere con attenzione i dati Ocse Pisa». Eppure si parla un giorno sì e l’altro pure di riforme: «Non serve una megariforma globale e generica, serve invece puntare l’attenzione sul vero disastro, che è l’istruzione professionale (e in parte quella tecnica), un ghetto, un tunnel quasi senza speranza per gli studenti e difficile per gli insegnanti, che devono andare a lavorare con l’elmetto. Invece la Moratti e la Gelmini hanno affrontato una ristrutturazione generale di cui non c’era alcun bisogno».
Così però il pericolo è di passare dal pessimismo radicale a una specie di trionfalismo che rischia di essere altrettanto improduttivo: sarebbe sbagliato sostenere che la malattia della scuola italiana è limitata al corpo delle professionali. «Certo, ci sono altri problemi seri. Esiste un enorme divario tra Sud e Nord: quando lo disse la Gelmini, certi intellettuali tirarono fuori Sciascia, ma il ministro aveva ragione. Il Mezzogiorno è indietro di vent’anni rispetto al Centro e al Nord, se non si parte anche lì dalle scuole materne efficienti e dal tempo pieno non si raggiungeranno mai certi livelli di qualità che si riscontrano nel resto d’Italia». Tutto qua? No, ovviamente. «La piaga più seria è quella della incapacità della società italiana, per non dire della politica, di promuovere la mobilità. Io insegno in un prestigioso liceo di Pisa, i cui studenti sono in gran parte figli di professionisti, mentre i figli del sottoproletariato frequentano per lo più le professionali: da noi non è stato fatto niente per promuovere davvero il merito e per ridurre le barriere sociali. In Finlandia i migliori insegnanti vengono destinati ai quartieri più degradati per innalzare il livello di istruzione nelle classi meno agiate. Da noi?».
Da noi già parlare di merito e di premio ai migliori è difficile: «Non sono affatto contrario a valutare il merito dei docenti, purché non diventi un motivo buono per dividere tra pochissimi superbravi e la massa degli asini, com’era nella proposta Berlinguer. Vedo colleghi stanchi e demotivati, ma anche tanti professionisti che lavorano bene: gli insegnanti da barzelletta sono pochi ed emarginati». Una difesa della categoria? «Guardi, sono vent’anni che si parla del merito con enfasi anche eccessiva. Le esperienze in Inghilterra e nei Paesi scandinavi si sono ridotte al teach to test, insegnare a fare bene i test: ora ci stanno ripensando. Se il metro di giudizio sono i test non ci siamo. Il fatto è che sul merito non è mai arrivata una proposta accettabile». Allora come si misura il merito? «Le opinioni degli studenti e dei genitori sono valutazioni empiriche, quel che conta è il cosiddetto progresso dei ragazzi. Ma è un terreno molto spinoso».
Uscendo dalle teorie e entrando nella quotidianità, spinosa è anche la questione salariale, se si pensa che a sessant’anni il professor Giovannone non arriva a duemila euro mensili: «Credo di meritare molto di più, come lo meriterebbe la maggior parte dei miei colleghi. Non dico il doppio, ma 3.000-3.500 euro, una cifra appena adeguata al ruolo». Tullio De Mauro da ministro pose con forza la questione retribuzioni, giudicando «infame» il trattamento che la nostra Repubblica dedica alla categoria degli insegnanti, non paragonabile a quello degli altri Paesi europei. «Non solo. L’aspetto più incredibile è la totale impermeabilità deimiei colleghi sulla questione salariale: gran parte di loro, per una tradizione deamicisiana o cattolica, ritiene che insegnare sia una missione molto più vicina al volontariato che non a un’attività professionale e dunque si accontenta. L’abnegazione volontaristica delle “lodevoli eccezioni” finisce per perpetuare l’auramissionaria e l’enfasi vocazionale, grazie alle quali oggi l’insegnamento viene percepito dai ragazzi come una professione finta». Negli anni 70 e 80, spiegava Giovannone nel suo libro, cioè quando lo sciopero aveva ancora un valore, le percentuali di adesione erano penose: «Probabilmente allora la convinzione di appartenere alla borghesia — la classe di provenienza della maggior parte degli insegnanti — e il fatto che molte colleghe erano sposate a chirurghi, avvocati, dirigenti, funzionari di banca, gente insomma con un reddito serio, faceva ritenere lo sciopero una forma di prossimità ai blue-collars, una proletarizzazione che a livello economico era già in fase avanzata, ma che ideologicamente veniva pateticamente rifiutata». Più difficile, continuava, spiegare l’attuale rassegnazione. Si è perpetuato così quel tacito accordo che in gergo viene definito «teoria dello scambio politico»: «L’idea generale, diffusa soprattutto a sinistra e nei sindacati, è: lavorate pure poco, in cambio però accontentatevi di uno stipendio da fame».
Il rimprovero dell’opinione pubblica è proprio questo: gli insegnanti in Italia lavoranomeno che all’estero. Ma sarà poi vero? «Fesserie che sono state interiorizzate e hanno prodotto nella nostra classe insegnante una sorta di complesso di inferiorità. In realtà l’orario di 18 ore più una di ricevimento è affine in tutto il mondo occidentale. E a chi sostiene che si tratta comunque di un orario ridicolo rispetto a quello di altri lavoratori, bisogna ricordare il lavoro a casa, tra preparazione e correzioni, che sono la parte più odiosa e pesante: dopo i primi due-tre-quattro compiti, comincia l’effetto di ripetitività. Per la correzione a me servono tutte le domeniche mattina dalle 7 alle 2 e almeno altri due pomeriggi interi in settimana». Se confrontate con quelle del suo libro, le parole di Giovannone sembrano oggi più disincantate, forse più deluse. Colpa anche degli studenti, sempre più distratti e strafottenti come dicono? «No, devo confessarle che non ho mai avuto problemi di disciplina o di mancanza di rispetto. Le attuali generazioni di liceali, al di là dei tatuaggi e dei piercing, sono molto più conformiste di quel che eravamo noi: non ci sono grandi difficoltà di relazione. Si dice che le ragazze vogliano fare le veline, le modelle, le troniste? La cosa non mi scandalizzerebbe, ma in tutti questi anni ho avuto una sola allieva che è andata a fare l’Accademia di ballo a Roma. Probabilmente nelle scuole tecniche accade più spesso». Saranno forse cambiate le famiglie? «Certo, quando ci sono gli scrutini, davanti alla presidenza si forma la fila dei genitori che protestano perché i loro figli meritavano di più… Le famiglie sono diventate ossessive e iperprotettive, si sa». Non abbastanza da far passare la voglia di insegnare a chi ce l’ha. «Certo che no. Nel libro manifestavo la speranza che almeno una parte della categoria potesse rendersi consapevole della propria dignità professionale, proponendosi come interlocutori seri dell’accademia, della politica e dei media per migliorare il proprio status e la propria immagine, e per discutere sul destino e sugli orientamenti culturali della società. Ma se allora si poteva ancora sperare di rivendicare un ruolo simile nella società, si poteva immaginare una riscossa e uno scatto d’orgoglio, oggi la situazione è mutata e quelle speranze appaiono spaventosamente grottesche: gli insegnanti sono diventati — oggettivamente e a detta di tutti — i nuovi poveri della società, sempre più marginali, con prospettive ancora più terrificanti. Oggi ci troviamo molto al di là del peggio e quell’idea sarebbe un wishful thinking: non è più tempo di illusioni e va già bene se riusciamo a mantenere lo status di nuovi poveri».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 7 ottobre 2012

17 ottobre 2012

Dalle vignette blasfeme a Wikileaks, se la libertà dei media sfida la morale

E' giusto pubblicare qualsiasi cosa e qualsiasi immagine sempre e senza autocensure?
Quali sono i limiti da rispettare?
di Francesca Paci
 
Prima il film anti-islam "Innocence of muslims", ora le vignette della rivista satirica francese Charlie Hebdo con Maometto raffigurato senza veli. La rabbia musulmana, che il settimanale americano Newsweek ha messo in prima pagina scatenando reazioni contrastanti su Twitter, risponde alle provocazioni con un tempismo talmente fulminante e una irrazionalità indipendente dalla cronaca (quanti hanno visto il trailer e quanti il numero corrente di Charlie Hebdo?) da far ipotizzare ad analisti e studiosi la presenza di un burattinaio. Il tempo ci dirà come sono andate e stanno andando le cose.
Poste però le debite differenze tra diritto di opinione e diritto d'offesa, e solo dopo aver condannato la violenza assassina (bello, a questo proposito, l'editoriale di Thomas Friedman sul New York Times), non è la prima volta che ci troviamo di fronte a casi complicati, in cui la libertà d'informare (o anche solo di comunicare un'opinione) entra in conflitto con la morale, i costumi, la buona educazione, la legge. E non solo quando si tratta d'islam, anche se purtroppo quando si tratta di islam le reazioni degenerano rapidamente fino a produrre, negli scenari peggiori, l'inferno di Bengasi in cui sono stati uccisi l'ambasciatore americano Stevens e altri tre diplomatici.
E' giusto pubblicare qualsiasi cosa e qualsiasi immagine sempre e senza autocensure, come grossomodo indica il modello Wikileaks? Ci sono limiti, e casomai quali, a ciò che si può pubblicare, soprattutto nell'era di internet in cui le informazioni viaggiano a 360° e alla velocità della luce assumendo, una volta "postate", una autonomia quasi irreversibile? Sì? No? La questione è più che mai aperta nel mondo senza confini in cui però rinascono (per reazione?) le identità (nazionali, religiose, etniche, culturali). Ecco alcuni esempio di casi "problematici".

30 settembre 2005
Il quotidiano danese Jyllands Posten pubblica dodici caricature del Profeta Maometto, in una delle quali è raffigurato con una bomba al posto del turbante. Il giornale norgevese Magazinet le riprende e - mentre le vignette si moltiplicano in rete raggiungendo luoghi dove i giornali danese e norvegese non sarebbero arrivati mai - in tutto il mondo si scatena la rabbia dei musulmani. Il 2 novembre dell'anno precedente il regista olandese Theo van Gogh era stato assassinato da un estremista islamico come ritorsione per il suo film Submission (il film continua a venire mostrato quasi si vuole provare l'incompatibilità tra islam e democrazia, così come il cortometraggio Fitna girato dal politico olandese Geert Wilders nel 2008).

24 febbraio 2010
Tre dirigenti di Google vengono condannati per violazione della privacy (ma non per diffamazione) a sei mesi di reclusione. La sentenza del Tribunale di Milano si riferisce a un filmato pubblicato su Google video nel 2006 in cui un minore affetto da sindrome di down veniva picchiato da quattro compagni di scuola dell'istituto tecnico Steiner di Torino (condannati a un anno di messa in prova presso l'associazione di cui fa parte la vittima). ll video era stato girato nel maggio 2006, caricato su Google Video l'8 settembre e rimosso il 7 novembre. Si tratta del primo procedimento penale a livello internazionale che vede imputati responsabili di Google per la pubblicazione di contenuti sul web. La stampa anglosassone attacca l'Italia accusandola d'essere liberticida e Google replica: «Ci troviamo di fronte ad un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet. La Legge Europea è stata definita appositamente per mettere gli hosting providers al riparo dalla responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza». L'ambasciata americana a Roma la sentenza rischia di mettere a repentaglio la libertà di internet.

2 settembre 2011
Wikileaks mette integralmente in rete 251 mila cable della diplomazia statunitense senza ritocchi editoriali (unredacted), vale a dire senza cancellare i nomi di collaboratori e informatori locali che a quel punto diventano noti a chiunque. Molti commentatori attaccano l'organizzazione guidata da Julian Assange giudicandola criminale. I media ex partner di Assange - il Guardian, il New York Times, Der Spiegel, El Pais e Le Monde - pubblicano un durissimo comunicato congiunto condannando la "non necessaria" diffusione dei dati integrali. Wikileaks spiega che la colpa, casomai, ricade sul giornalista del Guardian David Leigh, il quale nel luglio del 2010 aveva pubblicato nel suo libro WikiLeaks: Inside Julian Assange’s War on Secrecy la password d'accesso cosegnatagli in precedenza da Assange. Comunque sia andata il risultato è che decine di collaboratori degli americani, residenti in zone non esattamente rispettose delle differenti scelte altrui, si trovano scoperte.

18 settembre 2012
Il settimanale francese Closer viene condannato per la pubblicazione delle foto di Kate Middleton in topless: il magazine non potrà vendere né diffondere ulteriormente gli scatti incriminati (ma ha già venduto 500mila copie, 100mila più del solito). Il direttore del giornale rischia fino a un anno di prigione e 45mila euro di ammenda. Internet nel frattempo ha ripreso e rilanciato la storia e le immagini a 360° tanto che gli avvocati della famiglia reale britannica rinunciano a chiedere il ritiro delle copie già in circolazione ammettendo implicitamente che il danno è fatto. La sentenza promette 10 mila euro al giorno di multa per ke future eventuali pubblicazioni ma non impedisce ad altri editori di pubblicare le foto, perché appartengono a chi le ha scattate. Il direttore del tabloid Irish Daily Star, che ha pubblicato le foto, viene allontanato. Ebay rinuncia alla possibilità di vendere online le copie di Closer.
«La Stampa» del 19 settembre 2012

05 ottobre 2012

Il piano nazista per l’Europa sterile

di Enrico Paventi
La sconfinata mole delle ricerche che, nel corso degli ultimi de­cenni, hanno cercato di rico­struire e analizzare la storia del lager di Auschwitz si è arricchita recente­mente di un contributo che focaliz­za la sua attenzione sugli esperimenti medici condotti sulle prigioniere. Nel suo saggio Die Frauen von Block 10 (pubblicato in Germania da Hoff­mann und Campe) lo storico Hans-Joachim Lang esamina le vicende le­gate al cosiddetto Block 10 , la barac­ca nella quale, nel campo principale di Auschwitz, dall’aprile del 1943 al gennaio del 1945 vennero effettuati esperimenti su circa 800 ebree. Due clinici, Horst Schumann e Carl Clau­berg, utilizzarono le recluse come ca­vie per mettere a punto un metodo di sterilizzazione, altri medici si de­dicarono invece a effettuare speri­mentazioni sul sangue delle detenu­te, altri ancora tentarono di indivi­duare alcune caratteristiche antro­pologiche di queste ultime. La don­ne internate nella baracca 10 furono inizialmente 264, provenienti in par­ticolare da Grecia, Belgio, Germania, Francia e Olanda: se avessero rifiu­tato di sottoporsi agli esperimenti, sarebbero state assegnate alle squa­dre di lavoro o inviate nelle camere a gas. Lo storico sostiene in ogni caso co­me l’impulso decisivo all’allesti­mento della baracca 10 di Auschwitz e ai successivi esperimenti sia venu­to da Heinrich Himmler, il Reich­sführer delle SS, che era interessato a sviluppare tecniche finalizzate a rendere sterili in maniera rapida e af­fidabile donne «razzialmente infe­riori».
Himmler intendeva cioè sele­zionare la popolazione della Polonia e delle altre regioni dell’Europa o­rientale che erano state occupate di recente per abbassare, in tutti i mo­di possibili, l’elevato tasso di nata­lità degli ebrei e dei polacchi. Si trat­tava della cosiddetta «politica de­mografica negativa» che, secondo i propositi del capo delle SS, avrebbe dovuto caratterizzare il futuro dei po­poli presenti nell’Europa dell’est, la cui «forza biologica» sarebbe stata pertanto da annientare. L’idea era in­somma di sfruttarne per un verso tutta la capacità lavorativa e di de­stinarli per l’altro – attraverso la ste­rilizzazione di massa – a un progres­sivo declino demografico. Se è vero che Clauberg e Schumann erano sta­ti chiamati dai vertici delle SS a oc­cuparsi soprattutto del programma di sterilizzazione occorre però ricor­dare, come si è accennato, che nella baracca 10 furono condotte anche ri­cerche sul sangue: l’Istituto di igiene di Berlino intendeva scoprire ad e­sempio se, attraverso determinate metodologie, si riuscisse a innalzare il numero dei titoli anticorpali dei gruppi sanguigni. Bruno Beger, un medico che arriva ad Auschwitz nel giugno del 1943, riceve dal canto suo l’incarico di studiare gli ebrei e le e­bree sotto il profilo antropologico. Queste ricerche riguardarono le mi­sure della testa e del viso, il colore della pelle, dei capelli e degli occhi nonché la forma della testa, dell’oc­cipite, del naso e della bocca.
Gli esperimenti provocano sulle “ca­vie” dolori lancinanti e causano nel migliore dei casi febbre alta, nel peg­giore infezioni, infiammazioni delle ovaie o addirittura la morte. Le numerosis­sime testimonianze raccolte da Lang e ci­tate nel saggio non la­sciano alcun dubbio al riguardo. Una volta portata a termine la prima serie dei suoi e­sperimenti, Clauberg scrive a Himmler il 7 luglio del 1943: «Il me­todo da me ideato per effettuare la sterilizza­zione dell’organismo femminile senza ope­razione è stato messo pressoché a punto. Consiste in una sola i­niezione eseguita nel­l’apertura dell’utero e può essere praticato – nel corso dei consue­ti, noti esami gineco­logici – da ogni medi­co».
Alcuni mesi dopo, nell’inverno dell’anno seguente, torna a scri­vere a Himmler sostenendo di aver portato a termine gli esperimenti, i cui risultati avrebbero potuto essere sottoposti al vaglio di una commis­sione. Afferma inoltre, a riprova del successo della sua attività di ricerca, di aver sterilizzato di propria mano, fino all’autunno del 1943, 23 donne; il suo collaboratore Goebel, fino al tardo autunno del 1944, ne avrebbe sterilizzate altre 127. Il 18 gennaio del 1945 il lager viene evacuato e le re­cluse vengono costrette a intrapren­dere una marcia nella neve e senza cibo in varie direzioni. Alcune di loro raggiungeran­no Ravensbrück, altre Cracovia, altre Bergen­ Belsen. Successiva­mente alla fuga delle SS, saranno liberate rispettivamente dalle truppe russe e da quel­le inglesi. Carl Clauberg morì il 9 agosto del 1957. Si tro­vava in regime di cu­stodia cautelare. Il processo nei suoi confronti non era an­cora iniziato. Le po­che sopravvissute ai trattamenti subiti nel­la baracca 10 e alle successive marce del­la morte non potero­no dunque deporre contro di lui. Come non poterono depor­re contro Horst Schu­mann, poiché il giudizio di primo grado per gli esperimenti di steriliz­zazione non venne avviato a causa del cagionevole stato di salute del­l’imputato.

«Avvenire» del 3 ottobre 2012

03 ottobre 2012

Solzenicyn è ancora nel Gulag: in Italia lo leggiamo censurato

di Giuseppe Ghini
Esattamente cinquant'anni fa, con il fragore di uno sparo nella notte, fece la sua comparsa sulla scena letteraria mondiale un nuovo grande scrittore russo, Aleksandr Solzenicyn. Il suo primo racconto lungo, Una giornata di Ivan Denisovic, venne infatti pubblicato alla fine del 1962, dopo lunghe trattative, sulla rivista russa più liberale del tempo, il Novyj mir. La storia della pubblicazione, con il decisivo intervento di Chruscev che vi aveva visto un'esaltazione del lavoro socialista, è cosa nota. Altrettanto noto è il fatto che lo scrittore riuscì a pubblicare ancora un paio di racconti, tra cui La casa di Matrëna all'inizio del 1963, prima che l'onda della destalinizzazione spiaggiasse definitivamente nell'ultimo anno dell'era chruscioviana. Nel giro di pochi mesi, infatti, l'autore del primo testo di letteratura concentrazionaria venne messo al bando e la mannaia della censura calò su tutte le sue opere: in Urss non solo non vennero più stampate, ma vennero perfino ritirate per decreto dalle biblioteche pubbliche.
Può essere interessante chiedersi qual è stato il destino italiano di quei primi racconti che rivelarono al mondo la voce del più noto dissidente russo. Certo, il clima culturale italiano degli anni Sessanta e Settanta del '900 non era propriamente favorevole a Solzenicyn; certo, il conformismo sinistrorso impedì a tanti di leggere senza pregiudizi le sue opere, soprattutto l'Arcipelago Gulag costruito proprio sulla pietra angolare dell'Ivan Denisovic. Ma oggi, cosa ne è oggi? Un giovane italiano che volesse leggere questi primi racconti di Solzenicyn a cinquant'anni dalla loro pubblicazione cosa troverebbe disponibile sul mercato?La situazione è francamente poco consolante.
L'unica edizione attualmente in commercio è quella dell'Einaudi, la quale presenta le traduzioni di Raffaello Uboldi (Ivan Denisovic) e Vittorio Strada (La casa di Matrëna). Ora, pur riempiendo gli scaffali delle biblioteche italiane, nessuna delle due traduzioni corrisponde alla versione definitiva licenziata da Solzenicyn. Com'è comprensibile, infatti, non appena lo scrittore si liberò dal cappio della censura sovietica pubblicò versioni riviste e corrette di entrambi i racconti presso case editrici occidentali. Quando poi tornò in Russia, nel 1994, ne curò la versione definitiva. Di tutto questo, però, non è rimasta traccia nel mercato editoriale italiano che aspetta ancora le traduzioni dal testo non censurato.
Tanto per fare un esempio, la vicenda della Casa di Matrëna, che presentava un detenuto del GULag rilasciato nel 1956 - cioè, in piena epoca chruscioviana - venne retrodatata dai censori al 1953: insomma, era tutta colpa di Stalin! E la versione dell'Einaudi, che pure può contare su di un traduttore come Strada, presenta ancor oggi al lettore italiano queste interpolazioni dovute alla politically correctness chruscioviana. Peraltro, anche l'unica altra traduzione italiana del racconto, ad opera di Piero Panolo, oggi rintracciabile solo in biblioteca, è tratta dalla primissima versione poi rigettata dall'autore.
La situazione dell'Ivan Denisovic è perfino peggiore. Anzitutto, anche qui l'edizione Einaudi è tratta dalla prima versione del testo poi modificata dall'autore (ma lo stesso vale per le traduzioni di Chiara Spano e Giorgio Kraiski, le uniche altre versioni italiane del racconto). Modificata significa che Solzenicyn ha ripristinato la versione originale mediante decine e decine di interventi sul testo. Alcuni di questi, per esempio, restituiscono la visione negativa dei carcerieri che i censori avevano purgato.Si parla, ad esempio, dell'obbligo di togliersi il berretto incontrandoli nel campo. «Quanti ne avevano mandati in cella di punizione per quel berretto, cani maledetti!» - è la versione autentica. «Quanta gente è andata in cella per via del berretto!» - troviamo invece nella traduzione Einaudi. Anonimo e debole. Costringono Ivan Denisovic a lavare il pavimento della stanza delle guardie. «Lavori per le persone, lo fai per benino; lavori per il capo, lo fai per finta» - sentenzia Ivan nella versione autentica. «Per la gente fai le cose bene, per gli stupidi fai solo finta» - è la versione Einaudi. «Capo» invece di «stupidi»: sostituzione non banale. Nella famosa scena della costruzione del muro, scena che portò Chruscev a equivocare il senso dell'intero racconto, incontriamo un detenuto di origine lèttone. Nella versione ripristinata da Solzenicyn si legge: «Kil'digs diventò cattivo. Non amava le sfacchinate. Da loro in Lettonia, diceva, lavoravano tutti lentamente, ed erano tutti ricchi». La versione Einaudi, attribuisce al Lettone un altro nome e perde un'intera frase censurata: «Kilgas diventò rosso di rabbia. Non gli piaceva lavorare a quel ritmo diabolico».
Il problema più grave, però, è che lo stile del testo è stato largamente modificato dal traduttore. Solzenicyn adotta una prosa ellittica, spigolosa, con frasi coordinate indipendenti tra loro (paratassi) e piena di espressioni di registro basso. Molto spesso, invece, la prosa di Uboldi è ampia, rotonda, elegante, con frasi subordinate complesse (ipotassi). «Adesso - tirar su il muro, non c'è via d'uscita: se non vuoti la cassa, domani tutta la cassa finisce ai porci, la calcina diventa pietra, non la cavi neanche col piccone» - scrive Solzenicyn. E Uboldi traduce: «Ormai non c'era altro da fare che continuare ad alzare il muro: se non si vuotava la cassa, il giorno dopo la calcina sarebbe diventata dura come pietra, e non l'avrebbero cavata fuori neppure col piccone». Tutta un'altra cosa.«Ech, glaz - vaterpas» scrive Solzenicyn in tre parole. «Aveva un occhio che era meglio di una bolla d'aria», traduce Uboldi, invece di un più aderente «Eh, che occhio: una livella!».Fermiamoci qui con gli esempi e iniziamo a celebrare Solzenicyn. Sarebbe meglio però se potessimo celebrarlo con una nuova traduzione dei suoi testi sulle versioni definitive approvate dall'autore.
«Il Giornale» del 30 settembre 2012

Addio Cicerone: il quadro te lo spiega l'iPhone

di Philippe Daverio
Tutto inizia ovviamente dall’archetipo per eccellenza: il cicerone classico, quello che arrotondava lo stipendio da custode museale percependo piccole mance dal visitatori ai quali spiegava l’importanza delle opere appese alle pareti. Ed è nella complessa figura di quest’utilissimo protagonista, ormai scomparso per motivi sindacali, che si annidano le contraddizioni successive dei 'servizi aggiuntivi', come li definiva la legge Ronchey e il successivo codice Urbani. Se il cicerone era attratto solo dalla mancia raccontava ciò che era necessario per ottenerla, il minimo indispensabile, o ciò che serviva a carpire la simpatia del visitatore, ciò che rendeva la questione ironica o misteriosa. Se invece era egli morso dalla passione per la storia delle arti, poteva trasmettere talvolta utilissime informazioni e altre volte trasformare la visita in un autentico supplizio retorico. Comunque sia, i servizi aggiuntivi hanno fatto fare un salto qualitativo all’umanità. Da un lato è sorto il mestiere delle guide museali, ragazze e ragazzi, anche signore e signori, laureati nelle varie discipline dove l’Università italiana offre futuri professionali attraenti, che si dedicavano a spiegare a gruppi di visitatori ciò che stavano vedendo e talvolta addirittura guardando.
La qualità della comunicazione era una combinazione fra i testi, preparati dai loro allenatori e coordinatori, e la loro stessa abilità nel restituirli. Pregio: parlare a tanti consente di lasciare ai partecipanti una sensazione sociale della visita; difetto: parlare a voce alta rende la presenza assai ingombrante per chi al gruppo non partecipa e avrebbe la voglia di guardare in santa pace. Il successo di questi interventi è legato in gran parte alla forte quantità di mostre che organizzatori, assessori, editori e promotori inventano per campare e far campare. La terza fase inizia con la modernizzazione delle macchinette dette 'audioguide' che si affittano all’inizio del percorso e diventano un piccolo vate sonoro collocato del padiglione dell’orecchio. Tutto dipende ovviamente da chi sta seduto nell’auricolare e parla. Certo la parte folkloristica e dialettale del cicerone è stata superata, ma per il resto il ventaglio delle declinazioni stilistiche è quello di ieri: si va dalla lezione ben impartita e ben recitata allo spadellamento delle più nozionistiche fra le ovvietà. Dipende da chi ha vinto la gara d’appalto, e se la gara è stata vinta al massimo ribasso, vedete un po’ voi. Comunque l’utente, che ha pagato, tende a consumare tutto ciò che ha erogato e quindi segue la lezione con attenzione dall’inizio alla fine. È una vittima consenziente della comunicazione.
Per fortuna stiamo entrando nella quarta fase del sistema dei servizi aggiuntivi, quella interattiva. Non è una rivoluzione da poco. La generazione iPad, iPhone ecc. ecc. offrirà in futuro un rapporto interattivo al visitatore, il quale potrà scegliere di interrogare l’elettronica come interrogava una volta il cicerone intelligente. Ben meglio ancora, l’apparecchio, se puntato sull’opera che si decide di guardare, si metterà in moto automaticamente aprendo un vaso di Pandora di informazioni. Il che richiederà ovviamente due passi evolutivi conseguenti: una maggiore consapevolezza dell’utente, cosa che appare possibile visto l’acculturamento suo in corso, e una flessibilità estremamente sofisticata dei testi e dei contenuti, il che dipenderà dalla crescita qualitativa di chi vi pone i contenuti. Cosa non affatto evidente e automatica. E forse sarà necessario rivedere i criteri delle gare d’appalto, scommessa questa realmente difficile nell’Italia d’oggi, dove le microlobby del sistema museale sembrano non scalzabili.
«Avvenire» del 30 settembre 2012

Questione di speranza non di scienza

La contrarietà all'ergastolo
di Francesco D'Agostino
Che argomenti può usare chi, come me, è contro l’ergastolo? Uno solo: quello della speranza. Alludo alla speranza in senso forte, alla speranza cristiana, quella secondo la quale non esiste colpa dalla quale non ci si possa redimere, non esiste crimine che non possa essere espiato, non esiste un reo che non possa essere (con saggezza) riammesso nel vivere sociale.
Qualifico questa speranza come "cristiana", perché essa non ha come fondamento l’esperienza, ma fa riferimento unicamente alla grazia di Dio, che può raggiungere e salvare chiunque e dovunque, imperscrutabilmente e imprevedibilmente. Se invece cerchiamo di dare alla speranza un fondamento esclusivamente umano, affidandoci alle tante tecniche di recupero sociale dei delinquenti che periodicamente vengono proposte e riproposte, dobbiamo purtroppo riconoscere che nessuna di esse regge davvero a una verifica rigorosa e che la probabilità che il carcere possa garantire la rieducazione dei rei (in specie di coloro che siamo soliti qualificare come "efferati") è pressoché nulla o comunque così bassa che non giustificherebbe alcun impegno socio-pedagogico nei loro confronti.
Ecco però che all’argomento della speranza cristiana sembra aggiungersene un altro. Umberto Veronesi (su Repubblica del 26 settembre) sostiene che la «scienza» sta dalla parte di chi vuole abolire l’ergastolo. Egli ci spiega che il nostro sistema neuronale è così plastico, da rimodellare in vent’anni, e in senso buono, l’identità criminale di un reo, così da rendere superflua e al limite sadica la prosecuzione a vita della pena carceraria.
L’argomento è suggestivo, ma (ahimè!) prova troppo. Se è innegabile che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, chi ci garantisce che negli anni esso non possa evolvere in direzione antisociale, attivando o potenziando nella persona pulsioni criminali che in ipotesi non le erano né congenite, né comunque riconducibili alle sue situazioni contingenti di vita? Il principio di legalità (cioè la certezza della durata massima della pena cui si venga condannati) viene a perdere in questa prospettiva ogni senso; dovremmo sostituirlo con nuovi sistemi di controllo neurologici, capaci di verificare periodicamente l’aggressività non solo di ogni carcerato, ma al limite di ogni singolo individuo. Anche, infatti concordando con la dolce prospettiva che Veronesi ci propone, cioè che l’essere umano sia antropologicamente e biologicamente predisposto alla fraternità e alla solidarietà, come escludere che in ognuno di noi (magari a seguito della semplice lettura delle cronache politiche dei quotidiani) non possano scattare reazioni neurologiche incontrollabili di aggressività criminale? La prevenzione neurologica dei delitti dovrebbe diventare il primo dovere di ogni politica sociale, rispettosa delle scoperte della scienza!
La verità è che il principio di legalità, gloria del diritto penale moderno, è una straordinaria sintesi antropologica tra un pessimismo empiricamente molto ben fondato e un doveroso ottimismo, che ha le sue radici nel messaggio evangelico. E qui concordo con Veronesi, quando conclude che la critica all’ergastolo si muove in sintonia con l’appello universale alla conversione di Giovanni Battista; ma proprio a causa di questa sintonia essa ha ben poco a che fare con la scienza. I neuroscienziati meritano tutto il nostro rispetto, non perché confermino l’annuncio evangelico, ma perché ci illuminano sul funzionamento del cervello, un funzionamento che può, nel mistero della libertà, orientare la persona sia verso il bene che verso il male.
Per orientare l’uomo verso il bene dobbiamo chiedere l’aiuto di Dio, più che quello della scienza, che è in sé eticamente cieca. Un riconoscimento, questo, che non ne sminuisce per nulla il valore e contribuisce anzi a salvarla contro ogni deformazione e utilizzazione ideologica.
«Avvenire» del 2 ottobre 2012

Ma il '900 fu davvero «secolo breve»?

Storia
di Franco Cardini
How to change the world ("Come cambiare il mondo", Rizzoli 2011): questo il titolo dell’ultima opera di Eric Hobsbawm, all’apparenza quasi ottimistico per i tempi che attraversiamo e per l’età dell’autore, che aveva 94 anni al tempo della pubblicazione; a ben guardare, invece, un’opera di coraggiosa sintesi rispetto al proprio pensiero politico e alla realtà del secolo nel quale aveva vissuto e al quale aveva dedicato tanti scritti, così come mostra il sottotitolo inglese: Tales of Marx and Marxism. Scomparso ieri a Londra, era nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, allora protettorato inglese. Figlio di un ebreo inglese di origini polacche, Leopold Hobsbawm, e di una viennese, Nelly Gruen. Rimasto orfano, era stato adottato da uno zio con la famiglia del quale si era trasferito a Berlino dove rimase fino al 1933, quando per ragioni politiche gli Hobsbawm tornarono in Inghilterra.
L’impegno marxista per Eric era già cominciato in Germania e continuò in Inghilterra, dove nel 1946 (dopo aver fatto la guerra) entrò a far parte del "Communist Party Historians Group": il gruppo si divise nel 1956 sulla questione dell’Ungheria, ma al contrario di chi scelse di uscire dal "British Communist Party", Hobsbawm decise di non abbandonarlo, nonostante fosse critico sulla gestione sovietica della crisi. Solo anni dopo dichiarerà di non aver voluto sminuire quanto accadeva in Urss, ma che aveva creduto che «un nuovo mondo stava nascendo tra il sangue e l’orrore della rivoluzione... Grazie al collasso dell’Occidente, avevamo l’illusione che anche questo sistema brutale e sperimentale fosse destinato a funzionare meglio dell’Occidente». Hobsbawm seguì l’evolversi della situazione politica inglese (e in genere occidentale), affermando già negli anni Settanta che la sinistra europea non poteva più eleggere la classe operaia quale ceto di riferimento, perché i processi di deindustrializzazione lo rendevano impossibile. Anche questo ha fatto sì che lo storico si sia molto avvicinato alla fine di quel decennio alle politiche Labour di Neil Kinnock. E questo nonostante le lotte operaie contro le politiche della Thatcher avessero fatto intravedere a molti la possibilità di una classe operaia ancora protagonista.
Un’illusione, come i tempi a venire avrebbero dimostrato. L’avvicinamento al Labour Party e le riconsiderazioni critiche delle scelte del passato non hanno mai significato per Eric Hobsbawm, al contrario di quanto avvenuto per tanti, un’abdicazione dei propri principi e degli ideali socialisti. In questa prospettiva Come cambiare il mondo è un libro significativo perché rappresenta la riflessione di uno storico (che ha attraversato il Novecento e che ha visto fallire il progetto marxista) su come questi ultimi anni ci dicano che anche il trionfo del capitalismo è solo apparente. In una delle sue ultime interviste al Guardian nel gennaio 2011, lo storico inglese concludeva: «I problemi di fondo del XXI secolo richiederanno soluzioni che né il puro mercato, né la pura democrazia liberale posso affrontare adeguatamente. E per farlo dovrà essere elaborata una differente combinazione di pubblico e privato, di azione dello Stato, di rapporto tra controllo e libertà. Come lo chiamerete non lo so. Ma potrebbe non esser più il capitalismo, certamente non nel senso in cui l’abbiamo conosciuto in questo Paese o negli Stati Uniti».
Per gli italiani, Hobsbawm è comunque due cose: lo storico del "mito" di Robin Hood, inventore della geniale definizione di "banditismo sociale" e il teorizzatore del XX secolo come "secolo breve" (nel volume The Age of Extremes: The Short Twentieth Century 1914-1991, uscito nel 1994 e tradotto in Italia da Rizzoli nel ’95). Per lui, dopo il "lungo" Ottocento, il Novecento era anzitutto, se non esclusivamente, l’età dei due grandi totalitarismi e del loro esito, tragico per il nazionalsocialismo e laborioso, faticoso, drammatico per il comunismo. Ma oggi, questo suo secolo cominciato con la prima guerra mondiale e terminato nel 1991 col crollo dell’impero sovietico, ci lascia perplessi. Evidente la copia di un altro secolo breve, quello tale per eccellenza, il Settecento, cominciato, com’è stato detto, con la morte del Re Sole nel 1715 e terminato con la presa della Bastiglia. Analizzando gli anni tra il 1914 e il 1991, lo storico scrisse: «Il secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità».
Oggi però ci chiediamo se il Novecento non sia stato un secolo lungo se non lunghissimo, già avviato con il 1870 (l’anno della débacle della Francia dinanzi alla Germania, avvìo di una lunga révanche) e con il 1878, l’anno del Congresso di Berlino che s’illuse di sistemare le questioni balcanica e orientale (le medesime che ci troviamo dinanzi oggi) per finire ben oltre il fatidico 11 settembre del 2001, nella crisi ormai avviata.
Novecento come ultimo secolo di quella che Zygmunt Bauman ha definito «Modernità solida», come avvio del mondo postmoderno. A esso Eric Hobsbawm ha fornito un contributo essenziale, insegnandoci con L’invenzione della tradizione che le tradizioni non sono arcaiche, metastoriche ed eterne, ma si rinnovano e si ridefiniscono di continuo. L’uomo non ricorda, ricostruisce. Una lezione forse da non accettare integralmente, certo però da meditare.
«Avvenire» del 2 ottobre 2012

01 ottobre 2012

L'inutile rito dello sciopero dei trasporti

Arma spuntata
di Dario Di Vico
L'agitazione sembra un virus che obbliga le città a fermarsi per un giorno, slegata dalle relazioni con le controparti

Al via una settimana di disagi per i trasporti. Bus, tram e metro si fermeranno domani per l'intera giornata per lo sciopero nazionale proclamato unitariamente dai sindacati di categoria Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Uiltrasporti e Faisa-Cisal, per il mancato rinnovo del contratto scaduto nel 2007. Tra oggi e domani (a partire dalle 21 e per 24 ore) incroceranno le braccia anche tutti gli addetti ai servizi ferroviari di pulizie, accompagnamento notte e ristorazione a bordo treno. Lo sciopero nazionale di domani fa seguito alla protesta di 4 ore dello scorso 20 luglio. Si svolgerà secondo diverse modalità città per città e nel rispetto della garanzia dei servizi minimi. Queste le modalità delle principali città: Roma dalle 8.30 alle 17.30 e dalle 20 a fine servizio; Milano dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 al termine del servizio; Napoli dalle 8.30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio; Torino dalle 9 alle 12 e dalle 15 a fine servizio; Venezia-Mestre dalle 9 alle 16.30 e dalle 19.30 a fine turno; Genova dalle 9.30 alle 17 e dalle 21 a termine servizio; Bologna dalle 8.30 alle 16.30 e dalle 19.30 a fine servizio; Bari 8.30-12.30 e dalle 15.30 a fine servizio; Palermo dalle 8.30 alle 17.30; Cagliari dalle 9.30 alle 12.45, dalle 14.45 alle 18.30 e dalle 20 alla fine del servizio.

Domani gli autoferrotranvieri di tutt'Italia sciopereranno ancora una volta per il rinnovo del loro contratto che è stato firmato per l'ultima volta nel 2007. Come è avvenuto in svariate altre occasioni il fermo di tram, bus e metropolitane finirà per colpire gli strati più deboli del mercato del lavoro perché le cosiddette fasce orarie di salvaguardia non sono più da tempo uno strumento che va veramente in aiuto degli utenti. Il traffico delle grandi città e soprattutto quello che si muove dall'hinterland verso il centro non può essere più inscatolato in un unico format come ai tempi del fordismo e la grande massa dei lavoratori precari e a partita Iva, che si sposta durante il giorno in segmenti orari fortemente differenziati e che spesso non ha un unico indirizzo in cui lavora, subisce interamente il peso dello sciopero del trasporto locale.
In più gli osservatori di cose sindacali sono abbastanza convinti che l'agitazione di domani, a prescindere dalla sua riuscita, non smuoverà gli ostacoli. Gli enti locali che sono gli azionisti delle aziende di trasporto pubblico non sembrano focalizzati sulla risoluzione di questo conflitto, vivono una stagione di turbolenza tra spending review, taglio delle province ed episodi di malapolitica e di conseguenza non hanno risorse e lucidità per affrontare davvero i nodi aperti. Il guaio è che i sindacati degli autoferrotranvieri sono i primi ad essere coscienti di questo stallo, eppure insistono a convocare scioperi che finiscono per contrapporli all'utenza popolare piuttosto che incalzare le naturali controparti.
Così come l'epoca del budget zero ha reso inutile la tradizionale azione lobbystica della Confindustria, qualcosa di analogo sta succedendo per le forme di lotta sindacali. Lo sciopero è un'arma spuntata, spesso come nel recente caso del pubblico impiego le percentuali di adesioni sono basse, i leader lo chiamano «generale» più per minacciarlo nelle interviste che per organizzarlo veramente. Ci sarebbe tutta l'urgenza di una riconsiderazione degli strumenti di lotta sindacale, che però non arriva vuoi per l'oggettiva difficoltà a disegnare il nuovo vuoi per una ormai patologica pigrizia intellettuale.
In questo modo quello degli autoferrotranvieri si presta ad assomigliare a uno «sciopero endemico», una sorta di virus che periodicamente obbliga le città a fermarsi per un giorno, scisso da qualsiasi dinamica di relazione con le controparti. Non si sciopera per ottenere un obiettivo che è realmente alla portata di mano bensì solo per ribadire la propria esistenza organizzativa e per tener vivo il consenso della parte più militante degli iscritti. Poi se i lavoratori scioperano veramente oppure no cambia poco, anche perché in settori come quelli del trasporto pubblico per realizzare l'effetto ingorgo basta già il solo annuncio amplificato dai media.
Si può andare avanti? I sindacalisti più lungimiranti se lo stanno chiedendo, così come si interrogano sul dilagare delle forme di lotta spettacolari e autolesioniste. Ormai una vertenza aziendale non è tale senza il copione che vede salire su una torre, una gru o un grattacielo, almeno due o più lavoratori. Che ad uso delle tv e della stampa recitano il rosario della propria irriducibilità e intransigenza. Le confederazioni sindacali appaiono come spiazzate da questi episodi di radicalità o almeno fingono che sia così, senza però rendersi conto che ogni volta che il copione si ripete se ne va una fetta della propria titolarità di rappresentanza sociale. Il guaio del sensazionalismo conflittuale è che non solo oscura il prezioso lavoro quotidiano di tanti operatori sindacali che vivono a ridosso del disagio, ma alla lunga si annulla da solo. Arriveremo al punto che l'estremizzazione del gesto di protesta non farà più notizia, nella grande insalatiera mediatica si confonderà con qualcosa che è successo il giorno prima o che sta per accadere il giorno dopo.

«Il Corriere della sera» del 1 ottobre 2012