27 settembre 2012

L’algoritmo dell’ego. Così il self-publishing travolge l’editoria

Nell’era dei libri autoprodotti Ferrari teme il caos Piccioli spera nell’educazione Cortellessa invita a resistere
di Paolo Di Stefano
Viene meno la mediazione qualificata. Spazio a marketing e narcisismo di massa
Si parla sempre più di ebook, ma sembra che la battaglia tra la vecchia e la nuova editoria si giochi su un’altra questione cruciale: il cosiddetto self-publishing. Perché il meccanismo digitale che conduce all’autopubblicazione è fondato davvero su una mentalità nuova rispetto a quella tradizionale. Ne parla Marco Ferrario, fondatore, nel 2010, della libreria di libri digitali BookRepublic: «Il self-publishing nel contesto digitale è una modalità di pubblicazione alternativa rispetto al tradizionale passaggio attraverso l’editore: ti mette a disposizione una piattaforma per pubblicare online il libro che hai nel cassetto». Non è questo, però, l’aspetto principale del self-publishing secondo Ferrario. «Il vantaggio maggiore è per gli autori già affermati che vendono centinaia di migliaia o milioni di copie: mentre Random House pubblica il loro libro tra i 4 e gli 8mesi dopo la consegna e offre il 15 per cento su ogni copia venduta, Amazon assicura l’uscita immediata e garantisce all’autore il 70 per cento di diritti». Certo, converrebbe a chiunque, anche se il prezzo di copertina online è inferiore a quello della libreria. Ci sono autori che nascono dal self-publishing e che poi vengono proposti su carta: è il caso ben noto di Amanda Hocking. Per avere successo, continua Ferrario, bisogna da una parte «crearsi una reputazione in rete, essere molto attivi nei social network, in modo che quando poi sbarchi su Amazon per proporre i tuoi libri, i lettori già ti conoscano». A quel punto, è indispensabile attivare un lavoro di contatti negli store digitali: «Ci sono tecniche molto sofisticate per guadagnare visibilità, per esempio per entrare nelle classifiche di Amazon». Un’attività di autopublishing: dall’autoediting all’automarketing, tutto va fatto in proprio utilizzando la piattaforma digitale. Il risultato è che nel 2011 i libri autoprodotti presenti nella top ten mensile di Amazon erano dagli 11 ai 26. Come può succedere? Facile: «Amazon li propone in esclusiva e dunque punta soprattutto su quelli, perché non sono vendibili altrove». E gli altri stanno a guardare? Non proprio. Penguin (con Book Country) e Harper Collins, per fare solo due esempi stranieri, mentre in Italia si muovono, tra gli altri, Mondadori, Gems e Feltrinelli. (p.ds.) Il famoso linguista russo Roman Jakobson individuava, nella comunicazione, la coesistenza di sei funzioni essenziali: quella artistica o poetica, riguardante le scelte di lingua e di stile, era finora la componente che definiva meglio di altre il livello e il valore letterario di un’opera. La comunicazione digitale, non c’è dubbio, enfatizza da una parte quelle che Jakobson chiamava la funzione emotiva e la funzione conativa: la prima concentrata sui sentimenti e sulla spontaneità dell’emittente, la seconda sulla figura del ricevente. Spesso, nello scambio in rete, emittente e ricevente finiscono per confondersi e per coincidere in un meccanismo autoreferenziale; c’è poi la funzione fàtica, di contatto, quella che mette in evidenza il canale, cioè internet, il web eccetera. Su queste tre funzioni prevalenti si gioca per lo più l’interazione online. Perché l’io trionfi, si tratta di moltiplicare al massimo i propri contatti, non importa in che modo (funzione artistica), non importa l’oggetto della comunicazione (funzione referenziale), tanto meno importa la grammatica della lingua utilizzata (funzione metalinguistica). Il self-publishing rappresenta forse il momento apicale di questa comunicazione dimezzata. Ne parliamo con Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro; con Gianandrea Piccioli, direttore editoriale di lungo corso presso Rizzoli e Garzanti fino al 2003 e ora osservatore esterno del nuovo mondo del libro; con Andrea Cortellessa, critico letterario e saggista, redattore di «Alfabeta2» e tra gli animatori del gruppo Generazione TQ.
FERRARI: «La funzione generale dell’editoria fino a oggi è stata quella di mediare tra gli autori-produttori e i lettori- fruitori. Questa funzione, per come si è evoluta, ha generato un’industria. Con il self-publishing l’autore non entra in contatto diretto con il pubblico, perché l’editore viene sostituito da una figura che dispone di una piattaforma capace di creare il contatto con il lettore. Cambia il ruolo, perché lamodalità di intermediare è completamente diversa. L’editoria classica era fondata sul fatto che l’atto di rendere pubblico (to publish) aveva un costo molto alto, un investimento che lo scrittore non poteva permettersi. Dunque l’editore si fidava e investiva per lui traducendo la scrittura in inchiostro, carta, stampa eccetera. Con il libro digitale, questo segmento non c’è più, perché il rendere pubblico non ha più un costo: posso rendere pubblico un mio scritto senza spendere un solo euro, ma quel mio scritto entra nel caos universale della rete,mentre se lo affido ad Amazon accede in una specie di mega-negozio virtualemolto potente. Oggi il gestore guadagna per la disponibilità che offre all’autore, non perché investa su di lui. L’idea è che ilmio libro entra così in un circuito in cui ciò che accade è spontaneo, come se si realizzasse una specie di esperimento di selezione naturale in un ambiente chiuso. Ma appena un libro si muove, scattano degli algoritmi che moltiplicano l’effetto in modo tale che si va formando un’aggregazione di gusto non più determinata dalla volontà di un editore ma dall’ambiente stesso che profila il libro, lo comunica sempre di più e ne determina il successo spontaneo. È una specie di passaparola algoritmizzato, perché al primo manifestarsi di una tendenza, questa propensione viene immediatamente accentuata. Su questomeccanismo si è costruita un’ideologia: fondandosi su scelte effettuate dal basso e non dall’alto, il mondo digitale, per esempio quello dei libri, viene ammantato di democrazia a fronte dell’autoritarismo tradizionale».
A questo punto, però, si innesta un’obiezione radicale: la cosiddetta «disintermediazione » snatura e svilisce il compito tradizionale dell’editore. È un ruolo che non serve più alla società?
PICCIOLI: «Lo status di pensionato dovrebbe esimermi dal sospetto di corporativismo, spero. Penso infatti che il ruolo dell’editore, anche di quello più cinicamente commerciale, sia ancora insostituibile. Non solo per la responsabilità della scelta, che oggi, nella tarda modernità diffidente dei grandi progetti, non è mai solo culturale, inutile fare i bovaristi culturali: ogni scelta editoriale è frutto di un compromesso fra conto economico, condizione del mercato, esigenze commerciali. Però l’editore è un collaboratore dell’autore, lo sostiene, spesso anche psicologicamente, lo consiglia, gli propone temi o correzioni di sviluppi narrativi. Basta pensare, per citare una persona che tutti rimpiangiamo, a Grazia Cherchi: ancor oggi molti noti scrittori la ricordano con riconoscenza. Il self-publishing nasce anche, credo, sull’onda di una leggenda, che cioè gli editori scelgano in base a raccomandazioni, camarille, pressioni varie di cerchie intellettuali chiuse e impenetrabili. È la classica reazione di chi si sente rifiutato, non accetta la propria mediocrità e vive il rifiuto come un affronto. Ma gli editori ricevono centinaia dimanoscritti illeggibili. Poi magari sbagliano nelle scelte, però davvero niente che minimamente meriti resta impubblicato. Personalmente ho rifiutato libri che poi, magari a distanza di qualche anno, ho visto uscire da altri editori (ma non per questo ho rimpianto la decisione). Si potrebbe interpretare il fenomeno anche come la manifestazione clamorosa del narcisismo di massa, di cui la rete è moltiplicatore inesauribile. O come una sorta di spin off tecnologico del mito dello spontaneismo, che è uno dei frutti bacati degli anni Settanta del secolo scorso. Intendo dire che il self-publishing ha anche un risvolto psicologico e sociologico da non sottovalutare. Poi naturalmente gli editori, terrorizzati dalla paura di perdere il treno, ci mettono del loro, a partire dal marketing».
CORTELLESSA: «Colpisce non tanto che le persone vogliano pubblicare a pagamento, ma la disintermediazione furibonda che caratterizza la rete. È vero che il web, per certi versi, è uno strumento capace di abbattere le caste e i potentati: per la diffusione della poesia, per esempio, si sono creati movimenti e iniziative che gli editori non potrebbero sopportare. La rete offre notevoli potenzialità, ma si trascura il fatto che più si pubblica online e meno si riesce ad arrivare ai contenuti. In questo contesto, il ruolo del marketing delle case editrici viene sempre più esaltato, perché è lì che si decide che cosa mettere in primo piano e che cosa relegare sullo sfondo della comunicazione. Questo già avviene con i libri di carta, ma l’incremento del digitale moltiplica il potere dei commerciali, mentre viene completamente abbattuta la funzione dell’editore, a cui secondo me invece bisognerebbe tornare, visto il caos indifferenziato promosso dalla rete: una funzione di indirizzo e di progetto. Il fatto che gli editori tradizionali investano nel self-publishing significa che hanno abdicato al ruolo, alla selezione, alla proposta di contenuti e stili, che è una forma di potere, certo,ma è anche l’essenza del mestiere. Procedendo su questa strada, la letteratura diventerà un passatempo per ricchi che possono permettersi il self-publishing o per persone ricche di contatti e di comunicazione online. C’è un social networking aggressivo che da una parte comporta la disintermediazione degli editori, dall’altra produce una iperintermediazione commerciale. Il self-publishing occuperà sicuramente una quota crescente di mercato ma io non sono un catastrofista e non credo che arrivi a sostituire del tutto il nostro modo di fare libri. Però è indicativo dell’ideologia e della demagogia che circolano: è un colpo micidiale alla credibilità e alla dignità dell’editoria che ha sempre fatto cultura in questo Paese. Siamo in presenza di una mutazione genetica».
È il prezzo della democrazia della rete, che non tollera autorità e gerarchie…
FERRARI: «In certa misura la rete è davvero democratica: gli editori in qualche modo imponevano i loro gusti, mentre nel web nessuno impone più niente. Il paradosso però è che quella funzione oggi la svolgono i detentori delle piattaforme: sono loro ad avere in mano il pallino. Ma l’aspetto più sinistro è che esiste un solo operatoremondiale, Amazon: è unmeccanismo più chemonopolistico. Un paradosso. Il massimo della democrazia, in cui tutti sono contemporaneamente produttori e fruitori, gestita da un gruppo piccolissimo di iperscienziati che tengono le redini non dei contenutima del canale: non è un sistema orwelliano, perché i detentori del sapere vero sono quelli che controllano la macchina e la migliorano per rendere più democratico il sistema e assicurarsi sempre più profitti. È un paradosso. Inoltre, fino a prova contraria, è difficile che i vecchi editori si possano convertire alla piattaforma digitale, perché siamo di fronte a una funzione e a un modello di business diversi che richiedono know how completamente nuovi e molto raffinati: mentre i vecchi editori sono entità essenzialmente nazionali e monolingui, queste nuove figure sono naturalmente globali. In più il concetto fondamentale del self-publishing, la totale neutralità per un numero di accessi potenzialmente infinito, richiede apparati di governo molto efficienti ma a loro volta neutrali. È ovvio che questo meccanismo nega la possibilità di esistenza di qualsivoglia giudizio di valore. La categoria del giudizio non c’è più: non si prevede più l’esistenza di un esperto, di un professionista che ne sappia di più degli altri o di un orientamento dall’alto. Il self-publishing è attraente perché non prevede nessun giudizio esterno: sono io che produco la storia della mia vita, della mia infanzia o della mia famiglia senza nessun vincolo e nessuna vergogna. Non sono sottoposto a nessun filtro e sono legittimato a farlo dal meccanismo stesso. Le motivazioni che stanno alle spalle di questi sistemi non hanno niente a che vedere con la cultura, è semplicemente un business».
Diciamo allora che la rete e il self-publishing porteranno alle estreme conseguenze una tendenza già presente da anni nell’editoria tout court: il giudizio di valore coincide con il risultato di mercato.
PICCIOLI: «Il self-publishing ripropone una serie di problemi fondamentali e non risolti e forse non risolvibili: quello della formazione del canone, ad esempio, che dalla selezione dei testi sacri alla produzione contemporanea è sempre vivo; e ancor più quello del giudizio di valore. Vale a dire: come si forma oggi il valore culturale? Chi stabilisce, e attraverso quali vie e quali strumenti, le regole dell’economia culturale? Chi decide, inmancanza di Giulio II o del gruppo di Bloomsbury e in presenza di un sistema scolastico e universitario minimamente decente e di un mercato globalizzato, che un romanzo, un film, un disco di musica classica, una canzone, un quadro vale? Solo il successo di mercato? O la pubblicità? O le classifiche dei più venduti, dove qualità e quantità pretendono di coincidere, come il reale e l’ideale nel sistema dell’idealismo trascendentale? Dato che non credo a un valore in sé, metafisicamente intrinseco nell’”opera”, penso che in una società pluralista, con un consumo culturale uniformato a livello planetario e insieme segmentato in nicchie minoritarie, spesso alternative, il “valore” non consista nell’aura perduta dell’autenticità ma venga stabilito dal gruppo che fruisce e accoglie la proposta dell’autore e risponde alla sollecitazione. Come a teatro, dove il coro del pubblico partecipe invera dentro di sé l’azione drammaturgica e se ne fa responsabile. Naturalmente ogni gruppo, globale o piccolissimo, si riconosce in base alla propria cultura e ai propri gusti. Di qui la necessità inderogabile di un’educazione del gusto, che abitui a distinguere fra esperienze estetiche e culturali che ci rendono spaesati, dilatando la nostra percezione del mondo e di noi stessi all’interno di esso, e prodotti che, all’opposto, ci confermano nella banalità del già noto e del quotidiano. E per questa educazione del gusto la scuola ha un ruolo assolutamente fondamentale».
CORTELLESSA: «L’editoria, come l’informazione culturale, continua ad abbassare l’asticella in nome di quel che vuole la gente. Una volta c’era magari un’idea classista per cui un editore o una pagina culturale imponevano una linea di alto livello; oggi c’è la volontà di schiacciarsi su una presunta volontà popolare, ignorando che c’è una minoranza che ci tiene alla sua “distinzione” e che va accontentata. Questa demagogia si insinua a livello di produzione, ma anche a livello di promozione, dunque sono le richieste del pubblico a creare il catalogo e a essere amplificate. È deleterio che questo meccanismo, in cui la qualità è un tabù, si diffonda in modo gigantesco nella rete. L’etimologia di “qualità” ha a che fare con la differenza, si lega a un’idea di molteplicità delle specie. È per questo che ritengo essenziale conservare la bibliodiversità, le differenze di qualità contrastano il pensiero unico della letteratura commerciale e aumentano la libertà. Tutto questo è stato messo a repentaglio dalla massimizzazione dei profitti».
Con 60 mila novità all’anno è difficile sostenere che non c’è bibliodiversità.
FERRARI: «Io, alla fine, a dire la verità, non so fino a che punto il self-publishing avrà un grande sviluppo e potrà diventare un modello. Quel che più mi preoccupa è la divaricazione molto forte tra la produzione editoriale molto bassa, che ha un pubblico sempre più vasto, e la produzione media o alta che ha difficoltà sempre maggiori e pochissimo spazio nei punti vendita e nei processi di comunicazione. È possibile che il self-publishing finisca per alimentare ancora di più la parte bassa».
CORTELLESSA: «È vero che escono tantissimi libri. Il punto, però non è solo la produzione, ma la visibilità, l’accesso e la vendita. Quante delle 60 mila novità arrivano in una libreria Feltrinelli? Negli anni ’60 la percentuale di libri usciti che arrivavano in libreria era molto più alta del coefficiente attuale: quel che conta è la possibilità che hai di arrivare sullo scaffale. In termini assoluti viviamo in una società più democratica, ma ragionare in termini assoluti è deformante. Il fatto è che il populismomediatico si è esteso alla società e il livello di guardia ormai è ampiamente superato: per fortuna si sono creati movimenti di opposizione molto interessanti. Negli ultimi due anni ho visto controspinte notevoli: gente che si dà da fare con il volontariato culturale, nelle biblioteche, nei circoli di lettura, nelle scuole, con la consapevolezza che la lettura è un’attività sociale e civica. Non sono d’accordo con Walter Siti, il cui nuovo libro si intitola Resistere non serve a niente: penso che il degrado inarrestabile possa essere modificato remando contro e sperando che prima o poi ci siano delle zone in cui il flusso rallenta e in cui il ciclo possa prendere una direzione opposta. Solo l’andare controcorrente ci rende umani».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 6 maggio 2012

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