27 settembre 2012

Creazione, Dio non è contro Darwin

di Fiorenzo Facchini
​Tra evoluzione, come teoria scientifica, e creazione, come verità teologica, se si prendono nei contenuti propri di ciascuna, non dovrebbero esserci contrapposizioni. Stephen Gould (1992) ha osservato che esse appartengono a due ordini di conoscenza diversi, a due magisteri non sovrapponibili (noma: non overlapping magisteria) e quindi non possono entrare in conflitto tra loro. La verità della creazione non implica che la realtà, così come noi la vediamo, provenga direttamente da Dio, da un cenno della sua volontà, dalla sua parola, come dice la Bibbia, quasi che non abbia avuto un passato, una storia, e neppure implica che la realtà creata debba essere vista, secondo un’idea cara alla teologia naturale del teologo Paley e fortemente osteggiata da Darwin, come un orologio perfettamente predefinito, funzionante e sempre uguale a se stesso. Tra le sollecitazioni culturali dell’evoluzionismo quella del carattere storico della vita, cioè delle vicende che l’hanno caratterizzata sulla terra, è tra le più forti. Variazioni negli esseri viventi e vicende ambientali complesse fanno apparire il mondo della natura come una realtà dinamica e non statica, che ha portato al popolamento degli spazi acquatici e terrestri con i milioni di specie che oggi si contano. Vi sono stati eventi casuali ed eventi di tipo deterministico dovuti alle leggi della natura. Tutto si è succeduto in diverse centinaia di milioni di anni. Sarebbe illusorio riferire la storia della vita a un progettista o un operatore, come se tutto, in ogni particolare, fosse stato progettato in vista di uno scopo. Nello stesso tempo il mondo della natura ci appare ordinato e armonico nel suo insieme. È un sistema che funziona. E il Creatore? Come può essere visto in questa storia della terra e della vita sulla terra, segnata da eventi aleatori e da eventi di tipo deterministico? Con quale rapporto con la realtà presente? La teologia, sulla linea del pensiero di san Tommaso, vede Dio come «causa prima» che fa esistere le cose, cioè gli elementi della natura, come «cause seconde», nel loro inizio e nei cambiamenti che le caratterizzano. I fattori della natura vengono considerati come «cause seconde». Si può dire che nella evoluzione si prolunga la creazione. Questo modo di agire di Dio corrisponde a un’economia che lascia autonomia e spazio alle «cause seconde», cioè ai diversi fattori, anche casuali, che agiscono nella natura. Dio non fa le cose, fa in modo che si facciano, diceva Teilhard de Chardin. Il Catechismo della Chiesa cattolica così si esprime: «Dio e la causa prima che opera nelle e per mezzo delle cause seconde» (n. 308). Dunque una creazione che si manifesta nel tempo attraverso le trasformazioni della natura creata da Dio. Nell’economia divina, che include lo sviluppo e il manifestarsi delle potenzialità della creazione, può essere visto il Big Bang, la grande esplosione a cui vengono ricollegati gli inizi e la formazione dell’universo. Alcuni vedono nel Big Bang una prova scientifica della creazione, ma ciò non è corretto, proprio perché il concetto di creazione è essenzialmente di ordine filosofico, e il Big Bang è una teoria scientifica, per quanto attualmente la più accreditata, che si fonda su un modello e su ragionamenti, non su dati empiricamente rilevabili. Il passaggio dal nulla all’esistenza non è documentabile. Le vicende che sono seguite da quel primo istante per l’energia e la materia possono inquadrarsi nello sviluppo di potenzialità della creazione e quindi nell’economia delle «cause seconde». Nessuno può negare la sintonia delle forze della natura e l’armonia che la caratterizza nel suo insieme. La regolarità del movimento degli astri, come le interazioni a livello infra-atomico e molecolare, non sono inquadrabili nella casualità. Si può parlare di razionalità scientifica nella natura che rimanda a una mente superiore, ha osservato Benedetto XVI. Ma risalire a una causa intelligente superiore, in qualunque modo essa abbia operato, è ragionevole e non impedisce di cercare spiegazioni alle forze della natura e alla loro interazione ai vari livelli. L’intelligibilità del reale induce a pensare a una intelligenza che sta a monte di tutto. Questo ragionamento è a sua volta possibile perché c’è una intelligenza, quella umana, che è in grado di conoscere la realtà nelle sue diverse espressioni. Il riferimento dell’universo e della vita a una causa intelligente di ordine trascendente diventa congruente con la realtà che si osserva. Dalla visione scientifica o dalla visione teologica possono sorgere difficoltà o incongruenze tra l’una e l’altra. Un certo modo di intendere la creazione può far pensare a un mondo bene ordinato in tutte le sue parti, a un sistema perfettamente funzionante. La creazione viene intesa come sinonimo di opera perfetta. A ciò può avere contribuito l’attribuzione diretta di tutte le cose al Creatore, secondo il racconto biblico. Per le diverse realtà create nei sei giorni si dice: «Dio vide che era cosa buona». E chi potrebbe dubitare della bontà intrinseca degli elementi della natura? In realtà un mondo che si è formato per una serie infinita di trasformazioni ed è passato attraverso varie tappe di organizzazione dei viventi, un mondo che ha conosciuto cataclismi, terremoti, estinzioni di specie non può essere un mondo perfetto. Lo rileva il Catechismo che, pur non usando il termine di evoluzione, osserva che il mondo non è stato creato come noi lo vediamo, ma «in stato di via verso la perfezione ultima». La presenza del male nel mondo è un’altra incongruenza con l’idea di creazione e di progetto di Dio Creatore che spesso viene rilevata. Darwin stesso ne era disorientato. Non riusciva a rendersi conto di come vi sia tanta sofferenza in un mondo voluto da Dio. Ciò che lo turbava era soprattutto la sofferenza cosciente, la sofferenza umana innocente, lui che era stato provato dalla morte di una figlia appena dodicenne. Tutto questo in un mondo che non ha un riferimento trascendente può essere più facilmente spiegato. Ma se si ammette un Creatore all’origine di tutto, se si ammette un suo disegno, come è possibile pensare che egli abbia creato un mondo che produce tanta sofferenza? Non avrebbe potuto farlo migliore? È questa una delle obiezioni o degli interrogativi più forti che si pone chi ammette un progetto di Dio Creatore. Certamente vi sono limiti intrinseci al sistema della natura. Il carattere contingente delle cose si manifesta nella precarietà e provvisorietà e nell’inevitabile logorio prodotto nel tempo. La morte degli individui fa parte del ciclo della vita e dà spazio ad altri. È inevitabile. Il vero problema non è questo. Piuttosto ci si può chiedere se questa contingenza abbia un senso, se tutto si esaurisce in questa prospettiva. Per rispondere non ci si può limitare agli orizzonti della scienza. Ci si porta inevitabilmente sul piano filosofico. A questo punto può aprirsi la prospettiva della fede che si fonda sulla rivelazione di Dio e apre a orizzonti che vanno oltre quello terreno. Il progetto di Dio sul mondo da lui creato non è intramondano, non si esaurisce nella natura, ma si allarga a eventi che non riusciamo a immaginare e soltanto intravediamo nella fede. Essi hanno qualche connessione con il mondo presente, con la sofferenza e con la morte, dalle quali può germogliare una realtà nuova. Di fronte al male nel mondo, allo sconcerto della sofferenza e della morte l’annuncio cristiano rivela un progetto superiore che ha del paradossale. Tra i Mammiferi le scimmie sono quelli meno lontani dalla forma umana. Ma quale parentela abbiamo con loro? Una parentela diretta, per discendenza, con le scimmie antropomorfe, nonostante si cerchino le somiglianze con l’uomo, non viene sostenuta da nessuno. Allora una parentela collaterale? È quello che oggi si ritiene in base alle ricerche della paleoantropologia e della biologia molecolare: viene ammesso 6,7 milioni di anni fa un ceppo comune per le Antropomorfe e per gli Ominidi, tra i quali si svilupperà la linea umana. L’accettazione di queste umili origini dell’uomo può presentare qualche problema, soprattutto per la precomprensione che possiamo avere dalla descrizione della prima coppia umana fornitaci dalla Bibbia e dalle rappresentazioni di Michelangelo. Tuttavia una corretta interpretazione del testo biblico e l’individuazione di ciò che costituisce l’identità dell’essere umano dal punto di vista biologico e spirituale consentono di aprirsi all’evoluzione dell’uomo senza scandalizzarsi. L’uomo che oggi vediamo è punto di arrivo di un cammino non ancora concluso, ma ciò che lo contraddistingue sul piano culturale e spirituale c’è sempre stato. Ammettendo un salto ontologico nella comparsa dell’uomo e quindi il concorso di Dio Creatore, come può essere visto ciò? È un’intrusione di Dio nella storia della vita? Dio non lascia più fare alle «cause seconde»? L’obiezione viene mossa partendo anche dalla critica che viene fatta alla teoria dell’«Intelligent Design» che introduce una causa esterna per la formazione di strutture «irriducibilmente complesse» nel corso dell’evoluzione. Qualcosa di simile si avrebbe ammettendo la creazione immediata dell’anima in un ominide. Sarebbe un caso particolare della teoria dell’«Intelligent Design», per la quale si muovono giuste critiche. In realtà l’obiezione non regge. Infatti l’intervento di Dio nella comparsa dell’uomo non è per supplire a deficienze di causalità di ordine naturale al fine di realizzare una struttura biologica complessa, ma perché la struttura fisica del vivente non è adeguata a produrre da sola un essere arricchito dello spirito. Occorre una volontà superiore, il concorso di Dio Creatore. Quando e come ciò sia avvenuto è impossibile dirlo o immaginarlo. Non possiamo avere la pretesa di entrare nei pensieri del Creatore. D’altra parte, la comparsa di un essere intelligente e libero, che è cosciente e dà coscienza alle cose e riesce a contrastare la selezione naturale, non fa pensare che dietro tutte le vicende ci sia qualcosa che sfugge alle considerazioni di una mente umana? Ammettere che ci sia del mistero in questa costruzione dell’universo che si cerca di esplorare non è un’abdicazione alla nostra intelligenza, ma caso mai il riconoscerne i limiti. Molti equivoci nel dibattito su evoluzione e creazione sono venuti dalla pretesa di contestare la creazione sulla base della teoria dell’evoluzione mettendo il racconto biblico sullo stesso piano della scienza, ma sono venuti anche dall’opposizione all’evoluzione motivata da una lettura errata della Sacra Scrittura, come è avvenuto per il caso Galilei. Nello stesso tempo non si può ricavare dalla scienza quello che la scienza non può dire, e cioè dimostrare o negare l’esistenza di Dio o dell’anima. Sono fondamentalismi di segno opposto che purtroppo persistono ancora in alcune frange del mondo scientifico e del mondo religioso e non giovano né alla scienza né alla religione. Non dobbiamo scegliere tra evoluzione e creazione. La dottrina teologica e la narrazione biologica dell’evoluzione sono complementari.
«Avvenire» del 24 settembre 2012

Spegnete sms e tablet. I ragazzi non sanno leggere

Il ritorno a scuola. Macché rivoluazione digitale. I prof preoccupati: gli studenti delle superiori (licei compresi) non sono più in grado di affrontare un testo scritto. Gli esperti: «Colpa anche delle nuove forme di comunicazione, iperveloci e per immagini»
di Cristina Taglietti
Che cosa succede nella scuola 2.0? Mentre comincia il nuovo anno e tutti discutono della rivoluzione digitale annunciata dal ministro Profumo, la scuola si trova alle prese con i soliti problemi: insegnanti precari, strutture malandate, fondi ridotti. Ma al di là della lista delle mancanze endemiche a cui tutti potrebbero contribuire, insegnanti e studenti si trovano ad affrontare un nuovo modello di apprendimento dove, anche se tablet e Lim, le lavagne multimediali, non sono arrivati in tante classi, molto è cambiato e non sempre in meglio. Uno degli allarmi che arriva da insegnanti e presidi riguarda proprio la capacità di lettura degli studenti delle scuole superiori spesso compromessa da un’abitudine a una comunicazione veloce, per immagini. Ragazzi che non sanno più ascoltare, leggere, scrivere ma anche parlare in modo corretto, dotati di un vocabolario ridotto e strutture sintattiche elementari, anche se magari non è Internet che ci rende stupidi per citare il titolo (con punto interrogativo) di un saggio di Nicholas Carr. «È un problema segnalato da molti, non soltanto insegnanti e non soltanto in Italia — dice Duccio Demetrio, docente di Filosofia dell’educazione all’Università Bicocca di Milano —. La deconcentrazione continua è una vera patologia: i ragazzi sono sottoposti a ripetuti attraversamenti di altri linguaggi». Un problema che il linguista Raffaele Simone inserisce all’interno di quel «cambiamento ecologico portato dalla mediasfera » di cui parla nel suo saggio Presi nella rete (Cortina). «Le metamorfosi del leggere sono una parte della generale metamorfosi dell’imparare. I nuovi media — dice — sono un oggetto di attrazione a cui non si può resistere e un elemento di interruzione permanente. Intendiamoci, non è solo un problema italiano. Se si va alla Bibliothèque Nationale de France a Parigi ci si accorge che quasi tutti saltano continuamente dalla lettura ad altre attività: email, video, Internet. Si è passati da una concezione classica della lettura come la definisce Georges Steiner in cui è necessario silenzio, solitudine, continuità a quella attuale che si basa sull’interruzione e sull’impazienza. La lettura è diventata un’attività frammentaria, come la scrittura. I giovani fanno le loro ricerche in Internet: prevalgono il copia-incolla e il leggi e salta». Il fatto è che email, forum, sms, Facebook, Twitter contengono un’abbondanza di testi non argomentativi, sconnessi gli uni dagli altri per cui, dice Simone, «la scrittura diventa l’espressione di un pensiero simultaneo, non una pratica controllata». Il fatto è che un processo come questo non è reversibile: «Chi vince ha ragione, quindi siano noi a doverci trasformare. Il problema è che la scuola è il luogo della conservazione, quindi intrinsecamente incapace di rispondere alla provocazione costituita dalla mediasfera. Non può precedere il cambiamento delle conoscenze, essendo il suo ruolo piuttosto quello di seguirlo». Il rischio è che i tentativi che si fanno vadano nel senso di un’accoglienza superficiale e perciò sostanzialmente inutile, se non dannosa. «L’enfasi con cui si accoglie l’introduzione delle nuove tecnologie nelle classi — continua Simone — significa che ci stiamo arrendendo. Mentre sarebbe necessaria una seria riflessione e pensare a progressivi cambiamenti nella didattica». Per Demetrio servirebbero anche forme diverse di approcci ai testi: «Nelle scuole superiori le occasioni per avvicinarsi alla lettura vengono affidate ai programmi tradizionali che oltretutto, per quanto riguarda la letteratura, non comprendono il mondo contemporaneo, quello che potrebbe interessare di più gli studenti. Perché non far leggere Ammaniti o la Tamaro o anche Volo? Perché non studiare iniziative semplici che coinvolgano gli studenti e i testi inmodo attivo? Insomma dovremmo interrogarci su che cosa viene proposto per creare un’abitudine alla lettura. Per esempio è pochissimo praticata la lettura ad alta voce e ancora meno le forme di drammatizzazione, di messa in scena dei testi. Oggi stiamo scontando la perdita di una pedagogia attivistica, del coinvolgimento personalizzato». La lettura, secondo Demetrio, appare in contrasto con quelli che sembrano i bisogni degli adolescenti di oggi: «Il testo complesso viene rifiutato perché si legge in modo soltanto funzionale, per dare una risposta rapida. La lettura richiede solitudine, silenzio, ritorno alla propria intimità mentre la caratteristica delle nuove generazioni sembra invece il bisogno di relazionalità, di confronto pubblico». La lettura è strettamente legata alla scrittura e per Duccio Demetrio, che è fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e autore del saggio Perché amiamo scrivere (Cortina), «avvicinare i giovani al piacere del diario,magari anche attraverso la creazione di gruppi che permettano l’esercizio di questa spinta al la relazionalità, sarebbe un modo per rimotivarli verso il testo. Se ci si basa soltanto sulle Lim e sui tablet ci allontaniamo sempre di più dall’obiettivo». Martino Sacchi, docente di storia e filosofia al liceo scientifico Giordano Bruno di Melzo (Milano), dipinge una situazione preoccupante dove il maggiore imputato non è però la mediasfera. Con il sito Filo di Arianna, attivo da oltre sei anni, cerca di usare l’informatica in modo critico: immagazzinare una grande quantità di dati, elaborarli in molti modi diversi, adatti alle esigenze di ciascuna classe/docente, e infine produrre un testo su cui studiare («Questo significa rinunciare all’idea stessa di un libro fisso e statico, ma non aderire alle tesi per le quali si dovrebbe studiare solo a video. Tutti i tentativi fatti con gli studenti si sono rivelati fallimentari: praticamente nessuno si trova meglio con il video rispetto al foglio di carta»). Però secondo lui il problema della diminuita capacità di lettura, cioè di comprensione critica del testo, ha altre radici: «C’è un problema a monte, di comprensione lessicale prima ancora che di comprensione intratestuale, di lettura profonda. I ragazzi non conoscono il significato di parole anche relativamente semplici. Leggendo un brano tratto dal Fedro di Platone sul mito del carro alato mi sono sentito chiedere che cosa significa “destriero”. Un’altra volta che cosa significa “frontespizio”. Uno studente di quinta liceo non riesce a risolvere un problema dove si parla del profilo di una finestra perché lo confonde con lo spessore. E teniamo presente che il nostro è un liceo dove c’è un processo di autoselezione, ci sono ragazzi motivati che vengono da famiglie motivate». Il problema secondo Sacchi è radicale: «Si tratta della sedimentazione del lessico, della sintassi, dell’ordine e della formattazione del testo che nasce a partire dalle elementari. È essenziale ricostruire la filiera educativa, dalla scuola primaria all’università. Noi riceviamo le lamentele dei professori universitari e a nostra volta le riversiamo sulla scuola dell’obbligo dove, però, come sappiamo, i docenti si sono trovati di fonte a problemi complessi legati soprattutto alla mancanza di fondi. Negli anni Sessanta la scuola elementare doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Adesso deve insegnare molte altre cose e le basi si perdono». Ugo Cornia, scrittore modenese, ha insegnato per 15 anni negli istituti professionali (il suo nuovo romanzo, edito da Feltrinelli, si intitola appunto Il professionale): «Ci tengo subito a dire una cosa: so che queste scuole hanno fama di posti un po’ degradati, quasi pericolosi, la mia esperienza, invece, da questo punto di vista, è stata estremamente positiva». Certo, il professionale è un osservatorio sociale particolare, dove il problema della lettura profonda passa quasi in secondo piano. «Credo che qui in Emilia, zona ricca che assorbe facilmente posti di lavoro, almeno il 70 per cento degli studenti siano extracomunitari. Spesso ci troviamo con ragazzi che sono in Italia da due o tre anni, a volte arrivano dopo tre mesi che la scuola è cominciata: se gli chiedi “Come va?” ti rispondono “Sì”. In realtà ho sempre trovato situazioni diverse: magari c’era metà classe che non capiva emetà che seguiva benissimo. Io so che se leggiamo un brano in classe e chiedo il significato di alcune parole posso avere le risposte più assurde. C’è chi copia pari pari brani da Internet e nega di averlo fatto. Magari dentro c’è la parola ermeneutica, io chiedo che cosa significa e naturalmente nessuno lo sa». Quando si parla di una forma di incapacità di lettura, non si parla soltanto di testi letterari. «La riflessione sul linguaggio riguarda anche testi di altro tipo, manuali eccetera», dice la linguista Grazia Basile che con Anna Rosa Guerriero e Sergio Lubello ha scritto Competenze linguistiche per l’accesso all’università: «Ci siamo trovati in facoltà con ragazzi che si sono dimenticati che cos’è un soggetto, che hanno scarsa dimestichezza con i testi, di qualunque tipo. È vero, molte cose sono cambiate, c’è una velocità nella comunicazione che vent’anni fa non c’era, i nuovi linguaggi potrebbero addirittura favorirli. Naturalmente non si può generalizzare: tutti sappiamo che ci sono ragazzi capaci di grandi riflessioni e con alte competenze».
«Corriere della sera - suppl. La lettura» del 23 settembre 2012

Longseller si nasce. Classici si diventa

La formula (segreta) del successo è un mix di passaparola e valore
di Ida Bozzi
Sempreverdi: in vetta alle top ten le pagine di Calvino e il capolavoro di Saint-Exupéry. New entry: i volumi di Geronimo Stilton sembrano destinati a lunga vita editoriale
Scriveva Seneca nel De brevitate vitae che «praesens tempus brevissimum est», il presente è brevissimo. Il che nell’epoca attuale appare vero anche per il mercato librario, dove al rapido susseguirsi delle novità vanno aggiunti fenomeni come la tendenza a non ristampare o a ritirare titoli anche recenti (su Internet l’argomento è dibattuto con vivacità: un intervento recente è sul blog www.scuolatwain.it/blog/anomalie-della-filiera-editoriale/). In generale la velocità è la regola, anche per la classifica: si entra e si esce con caducità senechiana, soprattutto se si pubblica con piccole o medie case editrici, dal momento che, come spiegano gli esperti, la classifica si va stringendo sempre più intorno ai grandi gruppi editoriali. Tuttavia, leggendo di settimana in settimana le classifiche italiane e straniere, non ci si può non domandare come è possibile che, in un panorama così rapidamente cangiante, un titolo come Il sentiero dei nidi di ragno (Mondadori) di Italo Calvino, pubblicato nel 1947, fosse la scorsa settimana al 16˚posto (davanti a Luciano Ligabue, per intendersi) e la settimana precedente all’11° posto, mentre i romanzi della trilogia (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente e Il visconte dimezzato) seguivano a breve distanza. O che Il piccolo principe (Bompiani) di Antoine de Saint-Exupéry, del 1943, si trovi questa settimana al 1˚posto in classifica nella narrativa per ragazzi, sbaragliando due campioni d’incassi come la schiappa di Kinney e le battaglie di Riordan. Posizioni che, con qualche oscillazione nella postazione in chart, durano da anni. Le cifre di vendita non sono di poco conto: un romanzo come Il sentiero dei nidi di ragno si attesta tra le 30/50 mila copie annue in edizione Oscar, mentre il capolavoro di Saint-Exupéry, solo la settimana scorsa, ha venduto in Italia circa 5 mila copie (ne vende circa 200 mila all’anno, comunica l’editore, per un totale in settant’anni di circa 7 milioni di copie). Né l’Italia appare un caso particolare: la classifica della catena francese Fnac per i libri più venduti, questa settimana, vede al secondo posto l’edizione (scolastica) di Les fausses confidences di Pierre de Marivaux, e al quarto il Fedro di Platone. Mentre un’edizione in vendita a 1,99 sterline di The Great Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, ha venduto quest’anno il 232 per cento in più dell’anno scorso in Inghilterra, e l’editore che pubblica questo e altri duecento classici in economica, Wordsworth editions, registra il 18 per cento di vendite in più nel settore fiction. In realtà, ci si trova di fronte a più di un fenomeno, a un successo che trasversalmente riguarda ambiti differenti: quello dei classici, degli autori che i ragazzi studiano a scuola, dei longseller e dei classici in collana economica. Cominciamo con Calvino. Racconta Antonio Riccardi, direttore per l’editoria di catalogo libri trade del gruppo Mondadori: «La mia professoressa delle medie, e io vado per i cinquant’anni, mi fece leggere per la scuola Il barone rampante. Già a quell’epoca dunque Calvino era entrato nel canone letterario di riferimento delle scuole. Diceva bene Pontiggia: vi è una categoria di scrittori che appartengono alla classicità nonostante il tempo ridotto che ci separa da loro. Anche se il bello del canone letterario è la sua duttilità: alcuni autori restano anche attraverso i mutamenti, altri invece spariscono. Grandi autori sono stati molto amati e ora sembrano pressoché dimenticati. Penso ad esempio a scrittori come Bacchelli o Pratolini». Ma mentre si può creare un bestseller, è difficile creare un longseller se manca la sostanza, figurarsi un classico. «Sarebbe come cavare il sangue dalle rape, non si può — afferma Riccardi —. C’è però il modo di reilluminare nuovamente dei libri passati sotto silenzio ma di grande valore: con iniziative speciali, nuove collane ed edizioni». Se in ogni caso occorrono strategie di durata per prolungare la vita di un libro, ci spiega inoltre Giuliano Vigini, grande esperto di editoria, saggista e docente di sociologia dell’editoria alla Cattolica di Milano, resta ferma la distanza esistente (quasi sempre) tra bestseller e longseller. «Intanto, oggi il bestseller ha una dinamica diversa rispetto al passato — illustra Vigini —, una volta il successo era dovuto alla forza letteraria autonoma del libro, oggi c’è una strategia di successo di canale, di comunicazione e quant’altro. Il passaggio da bestseller a longseller è ancora ulteriore, però, perché non sempre i bestseller riescono a durare troppo a lungo: ad esempio, una cosa è un’opera di narrativa, altro è un saggio di attualità che può avere punte di qualità molto alte ma è legato al momento presente». Altri casi di longselling sono, nella classifica ragazzi, le serie di Geronimo Stilton, che ha venduto 23 milioni di copie soltanto in Italia dal 2000 a oggi, mentre è da ricordare il caso di Susanna Tamaro, che con il suo Va’ dove ti porta il cuore rimase al vertice della classifica per anni. In Germania, da mesi lo svedese Jonas Jonasson è tra i titoli più venduti con il suo romanzo (in Italia pubblicato con il titolo di Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, da Bompiani). E ci sono fenomeni come Volo o Camilleri. «In questi casi è una questione di gestione del successo — spiega Vigini —. Per l’autore che ha avuto risultati importanti occorre sapere quando è il momento di pensare al tascabile e così via: un caso è proprio quello di Volo che è stato presente con quattro o cinque titoli nei primi venti in classifica proprio per via delle diverse edizioni. Quindi il longseller nasce anche per la capacità di muovere un libro nelle collane, di farlo uscire in nuove edizioni e così via. Per Calvino vale il fenomeno dell’autore letto a scuola, lo stesso per Rodari che in un certo modo si vende da sé, mentre per Stilton occorre scrivere un libro all’anno». Resta il caso del Piccolo principe, fuori dal canone letterario italiano, eppure primo o secondo in classifica da anni. Risponde Vigini: «Lì è la magia dell’autore, e la magia del mondo che gli si crea intorno, tra fan, club di lettura spontanei, collezionisti e tutto ciò che cresce intorno a questo libro in particolare. Un fatto che non avviene spesso, né accade per molte altre opere anche di grande valore». «Non credo esistano motivi decisivi per spiegare un successo così longevo, dal 1943 ad oggi — interviene Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale di Bompiani —. Sono stati fatti studi, sono state fatte indagini di mercato sul pubblico che legge Il piccolo principe, ma a mio parere non c’è nulla che dia la dimensione di questo successo, assolutamente trasversale. È la grazia misteriosa che tocca alcuni classici della letteratura. Un mistero, però, che va cercato nel testo, non fuori di esso». E anche per quanto riguarda i longseller, secondo la Sgarbi il ruolo dell’editore è particolare, attento ma discreto. Ma libri longevi si nasce o si diventa? «Formule non ne ho. Un longseller si impone da sé. Posso dire che ho comprato i diritti dell’Alchimista di Paulo Coelho perché vi intravedevo alcune caratteristiche del classico di Saint-Exupéry. Ma non è certo una risposta alla sua domanda. Sono connessioni assolutamente personali e poco filologiche. Il ruolo dell’editore, nel caso di due longseller del genere, è quello di accompagnarli. Non allentare mai l’attenzione su di essi, lavorare con gli aventi diritto, seguirli e difenderli. Non devono mai sembrare “ovvie presenze”, ma sempre “doni” da curare». Longseller si nasce, ma con cura, dunque. E chissà che anche altri libri, se lasciati sugli scaffali delle librerie più a lungo, e accompagnati in modo analogo, non possano avere potenzialità simili.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 22 luglio 2012

L’algoritmo detective

Polizia predittiva, un software a doppio taglio
di Evgeny Morozov
La nuova frontiera digitale è la prevenzione dei reati, ma comporta il rischio di trasformarci tutti in elementi sospetti
Grazie alla tecnologia, la polizia ha davanti a sé un brillante futuro — e non solo perché adesso può cercare potenziali sospetti su Google. Altre due novità, meno evidenti, le renderanno il lavoro più semplice ed efficace, sollevando però molte questioni spinose in materia di privacy e di libertà civili. Nell’era dei dati disponibili in grande quantità, il lavoro della polizia — come molti altri — viene ripensato, perché ci si aspetta che un’analisi più vasta e approfondita delle informazioni sui crimini del passato, con l’aiuto di algoritmi sofisticati, sia in grado di prevedere i reati futuri. Questo metodo, nato da pochi anni, è conosciuto come predictive policing (polizia predittiva) e molti lo considerano una rivoluzione nel modo di lavorare della polizia. La polizia americana ne è entusiasta e gli europei, a partire dagli inglesi, stanno adeguandosi. Ecco come funziona. Il dipartimento di polizia di Los Angeles — il Lapd — sta usando un software chiamato PredPol: analizza le statistiche pubblicate negli anni passati per reati come il furto, divide l’area da pattugliare in zone, calcola in esse distribuzione e frequenza dei reati, e poi indica le zone da sorvegliare. L’idea che rende attraente questa procedura è che sia molto meglio prevenire un reato che arrivare dopo e dover indagare. I poliziotti non cattureranno più i criminali in azione, ma la loro presenza nel posto giusto al momento giusto servirà da deterrente. Sembra un criterio del tutto logico. Infatti le cinque divisioni di polizia che a Los Angeles utilizzano questo software hanno visto la criminalità diminuire del 13 per cento. Santa Cruz, che pure usa PredPol, ha visto i furti clare di quasi il 30 per cento. Se le «previsioni» di questo tipo hanno un’aria familiare, è perché i loro metodi sono stati ispirati dalle società che operano in Internet. In un articolo uscito nel 2009 sulla principale rivista della polizia, un alto ufficiale del Lapd lodava la capacità di Amazon di «capire i particolari gruppi esistenti tra i suoi clienti e di riuscire a individuare i loro modelli di acquisto», il che consente alla società «non solo di anticipare, ma anche di promuovere o plasmare il comportamento futuro». Così, proprio come gli algoritmi di Amazon consentono di prevedere quali libri probabilmente compreremo nel futuro, algoritmi simili potrebbero dire alla polizia quanto spesso — e dove — alcuni reati potrebbero verificarsi di nuovo. Non è possibile analizzare gli algoritmi di Amazon: sono imperscrutabili e non sono stati sottoposti a controlli esterni. Amazon afferma che la segretezza le permette di rimanere competitiva. Ma non si può applicare la stessa logica alla polizia: se nessuno potrà esaminare gli algoritmi — cosa probabile, il software predittivo sarà creato da imprese private — non sapremo quali pregiudizi e pratiche discriminatorie potrà contenere. Ad esempio, la criminalità tende a verificarsi in quartieri poveri emultietnici. Gli algoritmi — con la loro presunta oggettività — potrebbero legittimare un’analisi ancor più approfondita delle caratteristiche razziali? Nella maggior parte dei regimi democratici di oggi, la polizia deve avere buoni motivi—prove, non congetture— per fermare qualcuno per strada e perquisirlo.Ma, armata di questo software, potrebbe limitarsi a sostenere che sono stati gli algoritmi a dirle di farlo? E come potranno gli algoritmi testimoniare in tribunale? C’è poi il problema dei reati non denunciati. Molti stupri e furti non lo sono. Anche in assenza di denunce, la polizia ha spessomodo di sapere quando qualcosa di anomalo si verifica nel suo quartiere. La polizia predittiva tenderebbe però a sostituire questo tipo di conoscenza diretta con l’ingenua fiducia nel potere delle statistiche. Se per guidare il lavoro della polizia vengono usati solo i dati sui crimini denunciati, alcuni tipi di reato potrebbero non essere mai presi in esame e mai perseguiti. Un’altra nuova tendenza potrebbe rendere il lavoro della polizia più facile e, se combinata con il metodo predittivo, produrre risultati ancor più controversi. Società come Facebook stanno sempre più utilizzando gli algoritmi e la mole di dati disponibile per prevedere quali tra i loro utenti potrebbero commettere dei reati. Funziona così: i sistemi predittivi di Facebook possono individuare certi utenti come sospetti studiando alcuni indizi comportamentali (l’utente invia messaggi solo ai minori di 18 anni? Ha contatti quasi esclusivamente con donne? Usa spesso parole chiave come «sesso» o «appuntamento»?). Lo staff di Facebook potrebbe esaminare quei casi e, se necessario, segnalarli alla polizia. L’agenzia giornalistica Reuters ha recentemente reso noto che Facebook, grazie ai suoi algoritmi predittivi, ha individuato un uomo di mezza età che parlava di sesso con una tredicenne e si accordava per incontrarla il giorno dopo. La polizia ha contattato l’adolescente e ha catturato l’uomo. Non si tratta però solo di algoritmi. Facebook ammette che ricava informazioni dagli archivi delle chat reali che hanno preceduto reali aggressioni sessuali. È difficile mettere in discussione l’applicazione di questi metodi se servono ad arrestare maniaci sessuali che cercano prede tra i bambini. Ma si noti che Facebook può fare qualsiasi tipo di indagine poliziesca: individuare potenziali spacciatori di droga, identificare potenziali trasgressori del copyright, e, sulla scia delle rivolte dello scorso anno in Gran Bretagna, dare un volto alla prossima generazione di facinorosi. La polizia sta già studiando i siti dei social network per captare segni di inquietudine. Ma, a differenza di Facebook, non ha il quadro completo: le comunicazioni private e le azioni «silenziose» — quali link si cliccano e quali pagine si aprono — rimangono invisibili. Facebook, invece, come Amazon con i libri, è a conoscenza di tutto questo — il suo potere predittivo è destinato a essere assai maggiore di quello della polizia. Mentre la polizia ha bisogno di un mandato per accedere ai dati privati di qualcuno, Facebook può esaminare i dati dei suoi utenti quando vuole. Per la polizia potrebbe essere un gran vantaggio se a fare tutto questo lavoro sporco fosse Facebook, dato che il suo sistema investigativo non deve passare attraverso i meccanismi giudiziari. Con una adeguata quantità di dati e gli algoritmi giusti, tutti noi potremmo diventare dei sospetti. Che cosa succederebbe se Facebook ci denunciasse alla polizia prima che avessimo commesso un reato? Dovremmo cercare di capire qual è il nostro reato e passare il resto della vita a tentare di ripristinare la nostra reputazione? E se gli algoritmi sbagliassero? I vantaggi dei metodi di polizia predittiva potrebbero essere reali, ma lo sono anche i pericoli. La polizia deve sottoporre i suoi algoritmi a un controllo esterno ed evitare che si basino su pregiudizi. I siti di social network devono stabilire norme chiare su quanto estendere al loro interno questi metodi di polizia predittiva e fino a che punto tracciare il profilo dei propri utenti. Facebook potrebbe essere più efficace della polizia nel predire i crimini, ma non gli può essere consentito di assumere questo ruolo senza che aderisca alle stesse norme che regolano quel che alla polizia è o non è consentito in una democrazia. Non possiamo aggirare le procedure legali e sovvertire le norme democratiche in nome dell’efficienza. (Traduzione di Maria Sepa)
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del luglio 2012

«Questo antirazzismo mi fa paura»

La strage di Tolosa e gli stereotipi dilaganti del «politicamente corretto»
di Stefano Montefiori
Finkielkraut: è una forma di censura sul pensiero che rimuove la minaccia dell’integralismo islamico
Una giornata francese può cominciare, alle 7 e 15, con Z comme Zemmour alla radio, dove l’opinionista Eric Zemmour loda Putin perché, appoggiando il massacratore Assad in Siria, «protegge la minoranza cristiana»; si continua con Élisabeth Lévy che in un talk show difende «l’uomo bianco Dominique Strauss-Kahn», accusato di violenza sessuale dalla cameriera nera; la sera, a teatro Fabrice Luchini legge passi scelti di quel Philippe Muray che ridicolizzava la «sinistra morale» e la sua ossessione per i diritti dell’uomo. Non è che, anche in Francia, il politicamente scorretto si sia ormai «rovesciato in nuovo conformismo», come sospettava SandroModeo sulla «Lettura» del 17 giugno? Lo chiediamo a Alain Finkielkraut, il filosofo 63enne critico della modernità che, a partire dal Nuovo disordine amoroso scritto con Pascal Bruckner nel 1977, ha combattuto per tutta la vita contro le barriere imposte dalle mode e dal pensiero dominante. Se Zemmour è ormai diventato una starmediatica in virtù di provocazioni quotidiane, Finkielkraut è lo schivo intellettuale pioniere della lotta ai «benpensanti».
Non crede che la sua lunga battaglia contro il politicamente corretto sia ormai vinta? «Al contrario, oggi il politicamente corretto è più forte chemai, perché ci sono ancora realtà che è meglio non vedere, se non si vuole essere accusati di razzismo. L’antirazzismo è divenuto il principale veicolo del politicamente corretto e io stesso, mentre gliene parlo, ho paura di quel che dico».
Addirittura? «Ma certo. Quando l’ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l’ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. Al comunismo teorico si poteva opporre la realtà sinistra del mondo sovietico. Ma di fronte all’antirazzismo, io sono disarmato. Ho questo in comune con l’antirazzismo ideologico: per me il razzismo è abominevole. Però, di certe cose si dovrebbe poter parlare».
Lei fa un paragone con il comunismo, che ha commesso crimini spaventosi; francamente l’antirazzismo non sembra altrettanto nefasto. «Sì, ma dobbiamo anche prendere atto dei danni culturali che l’antirazzismo sta provocando. Per l’antirazzismo ideologico esiste una solidarietà di destino tra tutti i bersagli della discriminazione. Non è vero, l’antisemitismo per esempio oggi in Europa èmolto più diffuso tra gli arabo-musulmani che tra i cristiani. Ma non si può dire, perché questo smentirebbe in modo feroce l’ideologia dominante».
Se ne è avuta la prova con l’affare Merah? «Quello è un esempio perfetto, perché prima di tutto c’è stato questo riflesso automatico per cui il problema non è mai l’islamismo o il terrorismo, il problema siamo noi. Il dogma del politicamente corretto è “non abbiamo nemici, abbiamo dei demoni dentro di noi”. E infatti, ricordiamoci dei primi momenti del caso Merah (quattro adulti e tre bambini uccisi il marzo scorso a Tolosa e Montauban, ndr), della velocità quasi entusiasta con la quale l’estrema destra venne subito designata come responsabile. “Le Monde” se la prese con il governo di destra, con l’argomento che, a forza di alimentare “il sospetto dell’altro”, aveva preparato il terreno al passaggio all’atto. Peccato che l’autore degli attentati fosse invece un terrorista islamico, Mohamed Merah. Da quel momento in poi la grande preoccupazione — anche legittima — è stata di non fare generalizzazioni pericolose. Ma così non si è parlato del cuore della questione».
E cioè? Che cosa ci dicono i morti di Tolosa, secondo lei? «Dopo l’attentato sono arrivate le vere cattive notizie. Potevamo sperare che quell’assassino fosse un pazzo, un terrorista autoproclamato e isolato. Invece Merah è apparso come un eroe, un martire, agli occhi di tanti. Cito un caso: quel dottorando in fisica di 24 anni, figlio di un ingegnere e di una docente universitaria, che fracassa la mascella di un uomo “con la faccia da sionista”, davanti alla sua famiglia, aggiungendo che per lui “Merah è un resistente”. L’antisemitismo cresce e, se l’immigrazione continua così, si amplificherà ancora. È accettabile?».
Nella trasmissione «Répliques», che conduce da 25 anni su France Inter, lei si è lamentato anche del clima che accompagna il matrimonio tra omosessuali. «Tutti dicono “La Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che cosa? Alexis de Tocqueville dice “la democrazia è il progresso continuo dell’uguaglianza delle condizioni”. Ma se la democrazia si riduce a questo movimento inarrestabile, allora non ha più niente di democratico, perché siamo condannati a seguire l’onda. Al contrario, sul matrimonio degli omosessuali, mi piacerebbe che ci fosse una vera discussione, che non opponesse per forza progressisti e retrogradi. Tutte le sensibilità dovrebbero potersi esprimere, senza che sia deciso prima chi sta all’interno della democrazia e chi ne è fuori».
Lei è un reazionario? «Non mi riconosco in questa espressione, ma detesto chi la usa per criminalizzare la nostalgia. Dopo tutto, la nostalgia dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Ci sono cose che è lecito rimpiangere».
Per esempio? «I nomi. Ho il gusto dei nomi banali. Mi chiamo Alain. Ogni tanto esclamo “quanto è bello il mio nome”, e mia moglie mi prende per pazzo. Io sono figlio di ebrei polacchi e mia moglie, di origine bulgara, si chiama Sylvie. Una volta si davano nomi comuni, e francesi, ai bambini, perché si era in Francia. Questa mania dei francesi di denazionalizzare i nomi, e questo modo che hanno tanti immigrati di dare nomi del Paese d’origine ai loro bambini non mi piace. Quando sento che Mohamed è il nome proprio più frequente nella regione parigina mi allarmo, e quando sento l’ex alto commissario del governo Martin Hirsch dire in tv che l’integrazione sarà completa il giorno in cui dei genitori cattolici chiameranno il loro figlio Mohamed, mi dico che a forza di politicamente corretto la Francia cammina con le gambe per aria».
Che cosa pensa, quindi, della nuova Francia di François Hollande? «Non sfrutterà qualche buona idea del governo precedente, come il dibattito sull’identità nazionale, anche se venne organizzato in modo maldestro. Io credo che una riflessione collettiva su quel che siamo sarebbe necessaria, magari non sotto il patrocinio del governo. Ma gli intellettuali non sono messi meglio dei politici, basta vedere le reazioni di molti storici al progetto, insieme innocente e necessario, di un museo della storia di Francia».
E l’Europa? «Appena uno prova a dire che la civiltà europea e la civiltà turca non sono uguali, viene accusato di razzismo, e si sente rispondere che l’Europa non è un club cristiano. L’Europa non vuole porsi come civiltà, preferisce parlare di euro e procedure. Ma credo sia tempo di prendere atto dell’esistenza di un’identità europea. Dopo tutto è la grande lezione dei dissidenti dell’Europa centro-orientale. Di fronte all’oppressione totalitaria venuta dalla Russia, Kundera difendeva l’identità europea. Dobbiamo essere coscienti di questo patrimonio e rivendicarlo. Senza vanità, e senza la vergogna imposta dal politicamente corretto».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 22 luglio 2012

Reboot the School

di Kayla Webley
Fifth-graders at eastside College Preparatory School in East Palo Alto, Calif., sit at their desks with netbooks. They're in the middle of a math lesson, listening as a teacher explains how to convert percentages to decimals. "If we get rid of the percent sign, we just have to move the decimal sign two places to the left," the instructor says. Pens scribble across notebooks. Seven thousand miles away in Accra, Ghana, students at the African School for Excellence are studying logarithms. Their teacher is the same one firing off math tips in California--both groups of kids are learning by watching online videos. While the screen shows a march of equations and diagrams, the students never actually see the face of the lecturer. There's just a voice, deep, patient and unrehearsed--think NPR host crossed with Mister Rogers. His inflection rises at times to underscore a point or when he gets really excited. "Math is not just random things to memorize and regurgitate on a test next week," he says. "It's the purest way of describing the universe!" The voice belongs to Salman Khan, a 35-year-old hedge-fund manager turned YouTube professor to millions around the world. Thanks to his Khan Academy, an online repository of some 3,250 digital lectures, he has become a celebrity to techies, educators and uncounted high schoolers cramming for the AP biology test. His 18-minute discourse on the Krebs cycle and cell metabolism has been viewed more than 675,000 times. But Khan isn't satisfied with being the most famous teacher ever to appear on a Web browser. He believes he has stumbled onto a solution to some of education's most intractable problems, with his video-driven teaching method at its heart. He wants to fundamentally change the role of teachers in the classroom--and redefine the concept of homework along the way. And he has persuaded Bill Gates, Google's Eric Schmidt and a minor constellation of other tech billionaires to back this quest. Education reform is notoriously difficult. K-12 schools are debating everything from teacher evaluations to standardized tests, with no consensus in sight. Universities, meanwhile, are confronting massive budget cuts and new kinds of competition--as dramatized by the recent turmoil at the University of Virginia. Its board fired the president amid worries that UVa wasn't keeping up with change and embracing online education fast enough, then rehired her 16 days later after a backlash from students and faculty. At all levels, there's plenty of skepticism about any tech-centric approach to teaching. An estimated $65.7 billion was spent in the U.S. last year on education technology, according to research firm Gartner. But many educators say there is little concrete proof of its benefits. Khan is already butting up against veteran teachers nervous about their roles in his brave new classroom. But the biggest obstacle of all may be Khan himself. For all his grassroots fandom and Silicon Valley cred, he's not an educator, and he's never worked with children. Are parents and teachers ready to upend hundreds of years of precedent about how basic subjects are taught on the word of a guy who has spent more time analyzing financial statements than standing before a blackboard?
 
Click "Play" to Learn
It's 8:30 a.m. in an office above a tea shop in downtown Mountain View, Calif., and Khan is about to create a new lesson for his online audience. His classroom is an office dominated by a large bookcase full of textbooks and sci-fi novels he has collected over the years. His chalkboard is a black Wacom computer tablet parked on a desk made from old telephone poles. On the tablet he sketches the colorful diagrams and equations that are hallmarks of Khan Academy videos. Today's first lesson is a new entry in his series on macroeconomics: a discussion of how human emotions transition from optimism to denial, then panic and fear, and finally hope and relief, as a market fluctuates from a growth period to a depression and back again. Khan begins by doing two minutes' worth of research on Google, looking for graphs that affirm what he remembers from his econ class in college, then flips through a few pages in a 4-in.-thick economics textbook sitting on his desk and clicks a button to start recording. Dragging a stylus across the tablet, he sketches the business cycle on the screen, leaning into a microphone that captures his narration. After two minutes, he stops and deletes the recording. He never goes back and edits out mistakes but starts over from the beginning if he is "bumbling around" or loses his flow. "If my own thinking isn't clear, that's not helpful to the person listening," he says. He doesn't use a script. In fact, he admits, "I don't know what I'm going to say half the time." But the low production values of Khan's videos are part of what makes them so effective. A student can hear Khan thinking things through aloud, using intuition and solving the problem with his viewers rather than for them. The unscripted nature of the videos makes him more relatable--it's as if he's sitting right next to you explaining the concepts as your own private tutor. After the 11-min. video is uploaded, Khan pauses, checks his e-mail and runs through his mental to-do list. There won't be a meal break; Khan skips breakfast and lunch, preferring to subsist only on hot water during the day and to eat a day's worth of food at night. "A lion runs the fastest when he is hungry," he says. This morning's macroeconomics video is aimed primarily at college-level students; other lessons range from basic addition to calculus. There's also everything from astronomy and chemistry to computer science and SAT prep. Once online, Khan's lectures become available to anyone, for free, at any time and any place. Many will call up one of his videos at home as they struggle through an assignment or review for an exam, getting a better understanding of material their teachers have already explained with their own classroom chalk talks. That's fine with Khan. "That's how we got popular," he says. But Khan believes he's onto something much bigger--a buzzy concept educators call the "flipped classroom." In Khan's view, there is no need for students to be divided into grades by age. Instead, they should learn at their own pace, moving on to the next lesson only when they have mastered the concept before it. Students would watch videos that introduce the concepts as homework and then go to class to demonstrate their learning. And there would be no need for a teacher to stand in front of the class and give a lecture ever again.
 
Flipping 800 Years of Teaching
You may not have thought about it much back in seventh-grade history as you struggled to keep your eyes open during a review of key Revolutionary War battles, but the concept of a classroom in which a teacher stands at the front to deliver a lesson goes back a long way. All the way, in fact, to medieval universities of the 14th century. Gutenberg and the printing press were still 100 years in the future, and teachers were human textbooks. Even after it became possible to reproduce teaching materials, the lecture remained entrenched in the classroom setup. Eventually new technologies arrived to help teachers present information to students. In the beginning of the 20th century, early forms of the projector prompted Thomas Edison to predict, "Books will soon be obsolete in schools. Scholars will be instructed through the eye." In the 1920s, radios became prevalent in classrooms, allowing "schools of the air" to broadcast lessons to millions of American students. During the dotcom boom of the late 1990s, classroom computers began to take off. In 1984, U.S. public schools had one computer for every 92 students; by 2008 the ratio was 1 to 3.1. Also by 2008, nearly 100% of public schools had Internet access. Lots of technology - and little proof of results. There have been few major long-term studies on the effectiveness of technology in education. A 2007 report commissioned by Congress found that test scores in classrooms that were randomly assigned to use reading and math software were not significantly higher than those in classrooms that did not use the software. Some studies have found technology to be moderately effective in improving student performance in reading but not math, while other studies have found the exact opposite. Khan says the issue isn't the computers; it's how we're using them. The traditional classroom model essentially forces educators to teach to the middle. High-achieving students aren't challenged, and low-achieving students are made to move on to the next concept before they've mastered the previous one. In the flipped classroom, proponents are fond of saying, the teacher shifts from being the sage on the stage to being the guide on the side. With lecture material covered at home as kids watch those online videos, elements traditionally associated with homework--math-problem sets, history essays, science projects and so on--can become the focus in the classroom. All that lecture time is converted to personalized attention. Everyone's work is tracked and measured in real time, so teachers know where to direct their attention. There's no more teaching to the middle: from bottom to top, all students work at their own pace. Khan's vision faces its biggest test yet in a pilot project at Eastside Prep, a charter school where all the students are economically disadvantaged and, if they make it, will be the first in their families to go to college. In the classroom of teacher Suney Park, when it's time for math, the kids get out their netbooks to work on what Park calls the "Khaniculum." Today the class is moving from a unit on fractions to one on percentages. Park introduces the new unit even though about half the kids aren't ready for it. She tells her class it's "totally fine" that they are all in different places. Some work ahead, watching Khan videos to explore new material; others review with Park. One student, Joshua Walker-Ford, is already learning how to convert percentages to decimals. He says no one has taught him how to do this yet, but rather than watch one of Khan's videos, he guesses how it might be done and gets it right. In no time, he completes 10 questions and advances to the next topic. "At my old school, I would understand something in one day, but the teacher would still go over it for two or three days for the kids who didn't get it," he says. "Here I can just get it and move on." Khan understands kids like Walker-Ford. He was one of them. Growing up in Metairie, La., he chafed at the pace set by the school curriculum. He was raised by a single mom, an immigrant from Kolkata; his father, a pediatrician from Bangladesh, separated from his mom when he was young, moved away and died when Khan was 14. In high school, while his mother was busy starting a convenience store, Khan began participating in math competitions. That's when he met Shantanu Sinha, considered the kid to beat from another area high school. Sinha told Khan how his school allowed him to skip ahead in math. Khan asked to do the same at his own school--and was told no. He says he was so frustrated, he called around to local universities and ended up taking precalculus at Loyola University that summer. (Sinha became a lifelong friend and now works with Khan as president and chief operating officer of Khan Academy.) Khan's self-directed curriculum helped him get accepted to the Massachusetts Institute of Technology and then Harvard Business School. M.B.A. in hand, he landed an analyst position at a relatively small hedge fund. There, he happily spent his days researching the financial conditions of publicly traded companies--until his cousin Nadia needed help with her algebra homework.
 
Hello, Mr. Gates
Khan was in Boston; Nadia was in new Orleans. So he offered to tutor her online. They would both sign on to the Yahoo! Messenger chat service, and Khan would use a tool called Doodle to draw lessons. One day a friend suggested that he record the lessons as videos and upload them to YouTube. "I was immediately dismissive," Khan says. "YouTube is for cats playing pianos, not serious mathematicians." But he tried it anyway. He started getting feedback like "I've learned more in the past three hours on YouTube than I have in three years of math class." "People don't expect to get something of value for free online, so when they do, it's like, Thank you," Khan says. Eventually he decided his hobby was more than just a side project. In the fall of 2009, he quit his job and devoted his full attention to Khan Academy from a makeshift office in a converted closet in his home. The real breakthrough came in May 2010, when Ann Doerr, wife of Silicon Valley venture capitalist John Doerr, dropped $10,000 into his PayPal account. He was overjoyed at the donation--his largest to that point--and immediately wrote to thank her. When Doerr found out it was his largest donation, she insisted that they meet. Khan spent an hour with Doerr over coffee, explaining his vision of how the way we think about learning could be fundamentally altered. On his drive home, his phone beeped with an incoming text message: Doerr said she planned to deposit an additional $100,000 into his account. "I almost crashed the car," Khan says. Word spread quickly. A month and a half later, Khan's phone lit up with text messages and e-mails informing him that Bill Gates had just mentioned Khan Academy in a speech at the Aspen Ideas Festival. Then Gates flew Khan to Seattle for a meeting and gave him a $1.5 million grant. (He would eventually throw in $4 million more.) "I'd been, frankly, frustrated at how little creative work was being done to use the Web as a core component of instruction," Gates wrote in an e-mail to TIME. "And when I saw this, I thought--yes, he's got it." Soon Khan had a $2 million donation from Google, followed by grants of $3 million from Netflix CEO Reed Hastings and $5 million from Irish entrepreneur Sean O'Sullivan. Khan is using the money to transform the academy from his own personal YouTube channel into an educational nonprofit with Silicon Valley start-up DNA. The goal: to create a complete educational approach--with video lectures, online exercises, badges to reward student progress, an analytics dashboard for teachers to track that progress and more--that can be integrated into existing classrooms or serve as a stand-alone virtual school for anyone wanting to learn something new. Now Khan Academy has 32 employees and is being used in nine schools in the Los Altos school district and 16 other schools in California. The organization estimates that Khan lessons are also used unofficially at nearly 2,000 schools around the U.S., effectively making Khan Academy the largest blended-learning experiment in the nation.
 
Winning Teachers Over
While it seems like an inherently good thing to allow every student to work at his or her own pace, educators are far from unanimous regarding the benefits of it. Some see a risk that two students will reach graduation with very different skill sets. One may have mastered everything from calculus on down while the other made it only as far as algebra. In the worst-case scenario, high-achieving students race ahead while low performers languish. It's a particular concern in low-income districts where students may not have access to a computer at home. Khan says the goal is to help kids at the back of the pack catch up more quickly. But some experts are unconvinced. "I've seen a lot of things come and go," says Jeff Mirel, a professor of education and history at the University of Michigan. "The idea that new technology can quote-unquote save schools or dramatically improve student performance--well, the road is littered with a lot of, if not train wrecks, then certainly a lot of new technology left by the side of the road." Probably the biggest challenge is to increase teacher buy-in. Some worry that Khan's methods are too untested. Others are more blunt, saying he wants to replace teachers with computers. Khan responds that while his program could end the need for teachers to stand at the front of the class and pontificate, it makes their role no less important. "In the ideal classroom, the teacher is either spending all of their time doing deep interventions with students on a one-on-one basis or facilitating true interactivity--labs, simulations, projects," he says. He's also well aware that many educators dismiss him because he is not a trained teacher. "It'd piss me off too if I had been teaching for 30 years and suddenly this ex-hedge-fund guy is hailed as the world's teacher," he says. "But that's silly. It's like telling Bill Gates, 'Look, you don't have an M.B.A., so don't do business.' I think there's an advantage to being an outsider--I'm not colored by the dogma of the Establishment." At the office, Khan plots out a few more economics videos for the day. The lesson he uploaded this morning is already drawing comments. He says he's a "sucker for positive feedback" and admits he'll sometimes wait until he gets a compliment before making another video. Writes one commenter: "I wish they had this when I went to school. LOL." Time to make another video.
«Time» del 9 luglio 2012

L'Occidente riscopre il dono

Torna l'attenzione per la pratica dello scambio gratuito che produce relazioni estranee alla logica mercantile
di Matteo Aria e Adriano Favole
Nel corso della sua esistenza, Marcel Mauss scrisse opere acute e pionieristiche tra cui, nei primi anni Venti del Nove­cento, il celebre Saggio sul dono (Einaudi). L'etnologo francese sco­pri che in molte società antiche e in alcu­ne società «primitive» gli scambi non avvenivano in base alla logica dell'interes­se individuale e alla legge della doman­da e dell'offerta. Intere culture infatti era­no vissute o continuavano a vivere nell'at­mosfera del dono, inteso come una pre­stazione di beni e servizi effettuata, sen­za garanzia di restituzione, al fine di crea­re, alimentare o ricreare il legame socia­le tra le persone, come dice Jacques Godbout, uno dei massimi studiosi del fe­nomeno (Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri). Mauss identificò la logica del dono e le sue tre «leggi» (dare, ricevere, ricambiare) nelle culture oceaniane, tra i melanesiani, i maori, i samoani, i tonga-ni. Nella società moderna il dono soprav­viveva in modo residuale, per esempio a Natale o in occasione delle cerimonie nu­ziali e nelle relazioni amicali e famigliari. Mauss era piuttosto pessimista sul desti­no del dono nella società contempora­nea: «L'uomo — scrive nel suo Saggio — è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice». Eppu­re, da socialista convinto e difensore dei valori della solidarietà, vedeva nel ritor­no alla logica del dono l'unica via di re­denzione di un mondo in cui andavano crescendo colossali diseguaglianze socia­li ed economiche. A lungo confinato nel ristretto circolo degli antropologi, il Saggio sul dono co­noscerà una rinnovata fortuna alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con le prime avvisaglie della crisi economica e con l'indebolirsi delle grandi narrazio­ni (in primis marxismo e strutturali­smo), il dono, inteso come il totalmente altro dall'utile, perdita assoluta e incon­dizionata, affascinò filosofi come Jac­ques Derrida (Donner le temps, Galilée) ed Emmanuel Lévinas. Parallelamente, nonostante la trionfale ascesa dell'homo oeconomicus globalizzato, l'Occidente ha progressivamente riscoperto (o dato vita), ad alcune «isole» di dono protette dalle impetuose correnti del capitali­smo: dal volontariato alla donazione del sangue, dai gruppi di acquisto ai condo­mini solidali, dalle economie informali alla decrescita, fino alle varie forme del­lo sharing. In Francia, i «nipoti» di Mar­cel si sono uniti nel Mauss, acronimo del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali ed eponimo del fondatore, riven­dicando l'attualità dello spirito del dono nelle società contemporanee. Se l'Occidente ha ritrovato il dono, va detto che il peccato originale del suo pensiero — l'etnocentrismo — ha finito per oscurarne il destino in altre società, come se l'«altrove» globalizzato non avesse più nulla da dire. Che fine ha fatto il dono in Amazzonia, nell'America «nativa», in Melanesia e in Polinesia? Che fine hanno fatto i sontuosi riti potlatch dei Kwakiutl americani, i cui capi ri­valeggiavano in generosità fino a distrug­gere le ricchezze? E lo scambio kula de­gli abitanti delle isole Trobriand della Melanesia (Bronislaw Malinowski, Argo­nauti del Pacìfico occidentale, Bollati Boringhieri) che compivano lunghe naviga­zioni attraverso mari tempestosi per do­nare e ricevere collane di conchiglia (e rinsaldare nel contempo relazioni sociali e matrimoniali)? I polinesiani hanno rin­negato il dono adottando il denaro, le au­tomobili, la televisione e i social network? L'incontro con le società che ispiraro­no Mauss riserva anche oggi sorprese interessanti. Fin dall'esordio delle nostre ri­cerche in Oceania ci siamo accorti di quanto le atmosfere del dono fossero dif­fuse e, anzi, sembrassero rifiorire in mo­do creativo proprio in risposta all'affer­marsi della modernità capitalistica. L'ospitalità, i beni di prestigio come i ma­iali e le stoffe di corteccia, gran parte dei servizi alle persone (crescere, accudire, cucinare, curare) rientrano tuttora nella sfera del dono. In particolare, i prodotti della terra non possono essere comprati e venduti, perché essi, a differenza delle merci che arrivano dall'Occidente, sono intrisi della persona che li ha seminati, cresciuti e prodotti: donandoli, si dona qualcosa di sé (Mauss lo chiamò hau, uti­lizzando una parola maori), cosa che co­stringerà chi riceve a ricambiare, alimen­tando una spirale infinita di relazioni. Le culture del dono dunque esistono tuttora, ma la sua presenza non è esclusi­va come immaginava Mauss. Partecipi della storia e della globalizzazione in cor­so, gli oceaniani (e molti altri nativi) han­no difeso e mantenuto ampia la sfera del dono, facendola tuttavia convivere da un lato con le merci che il mercato globale vomita incessantemente sulle loro isole e con la razionalità utilitaristica; dall'al­tro con un insieme di beni che solo di recente hanno attratto l'interesse di an­tropologi ed economisti. La circolazione degli oggetti, attraverso il dono e lo scambio di mercato, è in effetti garantita dal fatto che vi sono cose che non posso­no e non devono circolare affatto. Laddo­ve il colonialismo non si è imposto con effetti troppo devastanti, la terra e l'ac­qua, forme di sapere come la danza e i racconti della tradizione orale, hanno mantenuto il loro status di beni inaliena­bili, come scoprì Annette Weiner, tor­nando a studiare negli anni Settanta i Trobriandesi di Malinowski (Inalienables possessions, University of California Press). Quelli che un tempo chiamava­mo primitivi ci insegnano dunque che solo un'accorta politica dei beni comuni garantisce la sostenibilità dell'economia di scambio. Le ricerche compiute in questi anni in Oceania e in altre parti di mondo, ci dico­no che non esistono — almeno nella contemporaneità — società interamente fondate sul dono, ma forme di conviven­za e complementarietà con il mercato. Tuttavia, sembra esserci una differenza piuttosto netta tra società ed epoche che sottomettono il sociale all'economico e altre che, attraverso il dono, compiono la scelta opposta. Diversamente dallo scambio basato sull'interesse egoistico dell'homo oeconomicus, il dono è un fat­tore di «domesticazione». Se il mercato per sua natura libera dai legami e crea differenza (di valore, di ricchezza, di sta­tus), il dono rafforza la somiglianza e «addomestica» l'altro: come dice la vol­pe al Piccolo principe, addomesticare «è una cosa da molto dimenticata. Vuol di­re "creare dei legami"...». Gli anni di benessere e crescita econo­mica senza precedenti del dopoguerra, hanno costruito e reso abnorme l'homo oeconomicus che è in noi. Gli anni di cri­si e decrescita che stiamo vivendo sem­brerebbero viceversa più propizi a raffor­zare il dono e la relazione. Forse, riflet­tendo sulle nuove esperienze del dono in Occidente e su quanto sta avvenendo nelle società in cui esso fu scoperto per la prima volta, possiamo concludere che non si tratta di uccidere l'homo oecono­micus, ma di pensare nuovi e più ampi spazi di convivenza tra mercato e dono, smettendo di vedere quest'ultimo come una chimera, un'utopia radicalmente an­titetica al mercato. Il dono continua per molti versi a esse­re un «enigma» (Maurice Godelier, L'enigme du don, Fayard) e la sua logica non è priva di ombre, ambiguità e avvele­namenti: il dono eccessivo distrugge ric­chezza, quello unilaterale e asimmetrico umilia chi lo riceve, creando clientele e corruzione. Nonostante ciò, il dono, se adottiamo una visione «slargata» del­l'umanità, appare alquanto tenace e per­sistente e, soprattutto, secondo la lezio­ne di Claude Lévi-Strauss, è il fondamen­to stesso della società. Come dice il tito­lo del festival di Pistoia: «Dono, dunque siamo».
 
Viaggi e ricerche nel Pacifico Gli autori di questo articolo, studiosi del dipartimento Culture, politica, società dell'Università di Torino, hanno compiuto vaste ricerche sul campo tra le popolazioni delle isole del Pacifico, note per la loro cultura del dono. Adriano Favole ha lavorato in Nuova Caledonia e nel territorio di Wallis e Futuna. Dalle sue indagini è scaturito il saggio - «Oceania. Isole di creatività culturale», edito da Laterza nel 2010. Matteo Aria ha svolto ricerche nelle Marchesi e nelle Isole della Società, su cui ha scritto il libro «Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata nella Polinesia francese» (Pacini, 2007)
Il francese Marcel Mauss (1872-1950) è considerato uno del fondatori dell'antropologia. Nipote e allievo del grande sociologo Émile Durkheim, studioso delle pratiche magiche e religiose, è noto soprattutto per il suo «Saggio sul dono» del 1923 (edito in Italia da Einaudi), nel quale analizza a fondo i meccanismi della reciprocità. Altre opere importanti di Mauss sono «Manuale di etnografia» (Jaca Book), «Teoria generale della magia» (Einaudi), «Saggio sul sacrificio» (Morcelliana) All'insegnamento di Mauss si richiama il Mouvement anti-utilitariste en sciences sociales (in sigla appunto Mauss), che pubblica la «Revue du Mauss» e ha tra i suoi esponenti più noti Alain Caillé e il teorico della decrescita Serge Latouche
«Corriere della Sera – supplemento “la lettura”» del 20 maggio 2012

Twitter è peggio di un reality

Il futuro di Internet
di Nicola Bruno
L’olandese Geert Lovink stronca l’ammucchiata partecipativa e lancia il suo allarme: siamo risucchiati in una caverna sociale
«Internet non è il paradiso» scriveva lo studioso dei media Geert Lovink nel 2002, all’indomani della bolla finanziaria che aveva mandato in frantumi il sogno della new economy. Dieci anni dopo, Internet non è diventato un inferno, ma poco ci manca. Una nuova bolla circonda la Rete ed è tutta all’insegna dell’ «ammucchiata partecipativa»: reti sociali come Facebook e Twitter ci «risucchiano in una caverna sociale» in cui abbiamo l’illusione di essere «tutti amici», ma in realtà riproduciamo solo «i dialoghi vuoti dei reality show», senza nessun impatto politico o sociale. Network senza uno scopo, appunto, come recita il titolo inglese dell’ultimo lavoro di Lovink arrivato in Italia in queste settimane con il titolo Ossessioni collettive. Critica dei social media. Al centro del volume, una lucida analisi dell’ultimo periodo del web 2.0, quello che ha portato alla ribalta servizi come Twitter, Facebook e la piattaforma di pubblicazione di documenti riservati WikiLeaks. A differenza di altri colleghi che negli ultimi anni hanno messo in luce i tanti lati oscuri di Internet, Lovink riesce a proporre una teoria dei social media che spazia dall’analisi politica a quella sociale e psicologica, con un approccio critico che è sì pessimista, ma mai rassegnato o nostalgico. Anzi: andando oltre la contrapposizione reale/virtuale, lo studioso olandese invita tutti a riprendersi i propri spazi di libertà online, con una strategia fatta di relazioni forti, lentezza (che chiama «mono-tasking») e utilizzo di servizi indipendenti.
La critica maggiore che muove ai social network è la loro superficialità e incapacità di produrre un vero confronto di idee. Può spiegarci meglio? «I social media ci immergono in un regime New Age in cui si può essere solo positivi. Ma come si fa a cliccare “Mi Piace” su notizie di terremoti, amici malati o che hanno subito un incidente? Perché non abbiamo a disposizione un pulsante “Non mi piace”? L’unica alternativa che abbiamo per dire che non apprezziamo una persona o un prodotto culturale è ignorarli. Con Twitter, poi, abbiamo un problema ancora più grande. È una cattiva piattaforma per la discussione. La sua informalità distrugge il carattere pubblico della Rete. Comparato alle newsletter e ai forum non è discorsivo, non ti permette di sviluppare un’argomentazione. In questi tempi di crisi, avremmo invece bisogno di strumenti che aiutino le persone a organizzarsi e a strutturare meglio il dibattito».
Non crede quindi che Facebook e Twitter possano avere alcun impatto sociale? Magari rendendo i nostri politici più trasparenti e vicini ai cittadini… «Non ho mai creduto che tecnologie come Twitter siano in grado di cambiare il sistema politico, far cadere un dittatore o mettere in crisi il capitalismo. Certo, i nuovi media cambiano la società, ma non sempre lo fanno nella direzione che più ci piace o ci aspettiamo. I politici che sbarcano su Twitter non diventano più responsabili, né lo usano per farsi un’idea su come vivono gli immigrati o cosa voglia dire essere disoccupati. I nostri rappresentanti sono ora costretti a prendere parte all’industria del “tempo reale” e devono costantemente dire cosa pensano. Ma a me non interessano molto le loro opinioni, mi piacerebbe di più che fossero attivi e propositivi. Questo è il vero problema. A cui si aggiunge il fatto che la maggior parte degli studenti di comunicazione oggi vengono risucchiati nel vasto mondo della consulenza online. Dovremmo invece pensare a come garantirgli un futuro con il giornalismo investigativo e la ricerca, non con la gestione dell’account Twitter di qualche Ceo alla moda».
Allo stesso tempo, però, dice di essere contro il romanticismo dell’offline. Qual è il modo migliore per bilanciare vita quotidiana e attività online? «Non sono un guru dello stile di vita. Sono un teorico e non sta a me dire come la gente dovrebbe gestire le proprie vite piene di impegni. Detto questo, penso che non sia salutare mettersi l’ufficio in tasca o nella borsa e lavorare ovunque. Gli aggiornamenti costanti online fanno perdere la capacità di attenzione e concentrazione. E questo avrà conseguenze sulla società nel lungo termine. Ad ogni modo, sono abbastanza ottimista sul fatto che tra pochi anni sarà davvero poco cool controllare il proprio smartphone di continuo in pubblico. Fa così 2011».
Nel capitolo su WikiLeaks critica duramente gli aspetti «monarchici» e poco «wiki», partecipativi, di Julian Assange, ma al tempo stesso dice che il progetto è stato importante. «Ho seguito WikiLeaks dalla nascita, anche perché provengo dallo stesso contesto hacker. Diciamo che non mi piace l’atteggiarsi a celebrità di Julian Assange. Ma come molti altri, anche io penso che ci siamo troppo focalizzati sulla sua personalità, invece di analizzare le vere potenzialità del progetto. Una volta il giornalismo di inchiesta tradizionale comprendeva tre fasi: scoprire i fatti, verificarli e contestualizzarli. Wikileaks fa la prima cosa, dice di fare la seconda,ma lascia completamente in bianco la terza. Per fare davvero un salto di qualità, Assange avrebbe dovuto promuovere una struttura decentralizzata su base nazionale, come accade per Wikipedia e per il Partito Pirata. Quello di cui abbiamo bisogno è organizzare piccole unità in grado di verificare e dare un contesto alle informazioni venute allo scoperto. Non possiamo dipendere solo dai giornalisti per questo lavoro».
Non è più su Facebook da due anni e non è neanche su Twitter. Usa qualche altro social network? «A maggio 2010 ho lasciato Facebook nell’ambito dell’International Quit Facebook Day. Non l’ho fatto solo per protestare contro la loro gestione della privacy, anche se poteva essere già un motivo sufficiente. Il punto è che Internet è già di per sé un social network. I movimenti sociali di cui ho fatto parte negli anni Ottanta erano già delle reti sociali. Fare “squatting” ad Amsterdam (occupare spazi pubblici, ndr) era una festa di social networking, anche se ai tempi non utilizzavamo Twitter ma solo dei pc. Per favore lasciamoci alle spalle queste ridicole riduzioni a poche piattaforme americane. L’elemento sociale c’è stato e sarà sempre qui. Guardate alla storia del vostro Paese, l’Italia. Non abbiamo certo bisogno di dirvi cosa sia il sociale e cosa potrebbe diventare».
«Corriere della sera - suppl. La lettura» del 20 maggio

I professionisti della crisi

I nuovi conformisti. Taglienti, figurativi, partigiani. Vince chi le spara più grosse (meglio se sbagliate)
di Federico Fubini
All’inizio fu Nouriel Roubini poi venne Paul Krugman. Così è nato il guru estremista
Il momento è arrivato un pomeriggio a Villa d’Este, mentre ascoltavo una conferenza stampa di Nouriel Roubini. Roubini lo conosciamo tutti. È l’economista che nel 2006 ebbe il coraggio di salire su un palco all’assemblea del Fondo monetario internazionale e dire che gli Stati Uniti sarebbero finiti come un Paese sudamericano. Troppi debiti, era la sua tesi. Allora sembrava impensabile, ma agli incontri dell’Fmi a Washington il professore di origine iraniana fece una tirata di mezz’ora, un elenco di sventure offerte alla platea in un tono piatto, come una preghiera ripetuta già mille volte. Al termine, mentre Roubini tornava al suo posto, il moderatore notò che «qui abbiamo bisogno di bere qualcosa di forte» e il pubblico rise. Due anni dopo, molti in quella sala di banchieri e dignitari avrebbero avuto bisogno di bere qualcosa di forte. È questo il coraggio che ha fatto di Nouriel Roubini una rockstar. Probabilmente la prima nel mondo degli economisti. Ma quel pomeriggio a Villa d’Este, la grande crisi esplosa da tempo e Roubini ormai mutato in un marchio di successo dall’industria globale dei media, è accaduto qualcosa di diverso. È lì che finalmente ho capito. Bisognava sentirlo parlare. La ripresa? «Quando l’aereo rallenta cade». Le Borse che recuperano? «Il rimbalzo di un gatto morto». Come vede il dollaro? «La camicia meno sudicia». L’oro è un bene rifugio? «A quel punto di paranoia sullo squagliamento del sistema, meglio allora cibo in scatola, armi, munizioni e chiudersi in casa». Veniva voglia di avere Umberto Eco fra i cronisti per fare un esame organolettico del linguaggio. Roubini non stava svolgendo un’analisi, o semplicemente un discorso. Stava twittando. Non che avesse un computer o uno smartphone nelle mani. Ma non pronunciava nessun concetto che non potesse rientrare in un tweet, 140 caratteri su un social network. Tutto ciò che diceva poteva essere espresso visivamente non in un grafico, ascisse e ordinate, ma in un cartone animato. «Non sparate al messaggero». «Smettete di usare chewing gum e fil di ferro da polli in Spagna». Tornai al giornale convinto che fosse un caso personale di mutazione antropologica indotta dal successo. Quando parla Roubini, Bloomberg Tv online registra un picco di contatti. Gli «speaking bureau», agenzie fornitrici di oratori per eventi, lo piazzano anche a 50 mila dollari a discorso. Ma i mesi seguenti hanno dimostrato che Roubini non è solo. Era una mosca bianca nel 2006, oggi è la punta avanzata di un nuovo conformismo. Con la metamorfosi continua di questa catastrofe del debito in sempre nuove forme, anche il linguaggio per parlarne ha subito un’alterazione. È nato un genere letterario o una scuola di retorica, quella del guru estremista. Cosa stia succedendo al nostro modo di raccontare la terra incognita nella quale siamo entrati non è difficile da capire. Basta guardarsi intorno. Bisogna essere taglienti, figurativi, preferibilmente molto partigiani. Stein Ringen, un sociologo norvegese di Oxford, ha scritto quanto segue a proposito di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia ed editorialista del «New York Times»: «Ha rovesciato disprezzo sui politici europei, collettivamente, in una maniera che, l’avesse fatto per esempio con i neri, sarebbe finito sotto accusa per incitamento all’odio razziale». Possibile? I leader europei sono «malati di mente» («insane»), ha scritto ultimamente Krugman. «Invece di ammettere che si sono sbagliati, sembrano determinati a buttare la loro economia (e la loro società) giù da un burrone». Poi? «Apparentemente sono decisi a commettere il suicidio dell’intero continente nel suo complesso». Anche per Krugman non mancano le metafore: «I medici credevano che cavare il sangue purgasse il corpo degli umori maligni, molti responsabili di politica economica ci credono ancora». La metafora molto visiva, a costo di trascurare una descrizione accurata della realtà, è del resto un tratto della retorica sulla crisi e sui suoi (presunti) antidoti. Quasi sempre il conio viene da chi si considera a distanza di sicurezza dal sisma. «In Europa serve un bazooka» (copyright, premier inglese David Cameron); no, meglio un «muro tagliafuoco» o più esattamente «una potenza di fuoco» per fermare il «contagio». «Bacchetta magica» non è entrato ancora in uso. Ma lo slittamento continuo nella figura, adorato da noi media, aiuta sempre a economizzare sull’analisi di processi molto complicati e di portata storica. «L’amato modello sociale dei francesi è stato costruito su un’insostenibile montagna di debiti», ha scritto di recente Gideon Rachman del «Financial Times» di Londra. Una verità così ovvia che non ha bisogno di prove, sennonché Erik Nielsen di Unicredit è andato a controllare i numeri e ha trovato che la «montagna di debiti» britannica è più alta e il modello sociale, be’, è più basso che in Francia. Di Jim O’Neill di Goldman Sachs è celebre la stima che all’Italia sarebbero rimasti solo «il calcio e il cibo» (per ora resta il terzo Paese manifatturiero d’Europa e quinto al mondo). E persino il Nobel Amartya Sen sente l’aria del tempo: a Berlino il mese scorso ha spiegato che l’Italia con il governo tecnico non è più una democrazia, come se il premier a Roma non fosse sempre incaricato dal Quirinale e votato dal Parlamento. Ma davvero è tutto odio razziale degli «anglo» verso noi vecchi europei? Contro questa ipotesi milita il fatto che Krugman, per esempio, riservi le stesse asserzioni a chiunque, basta non sia d’accordo con lui. I repubblicani in America perseguono «una combinazione tossica di irresponsabilità, lotta di classe e ipocrisia». Accusare l’amministrazione per il rincaro della benzina (in effetti, un errore) «non è solo folle; è tre volte una pazzia: una menzogna avvolta in un’assurdità fasciata nella paranoia». L’esagerazione è una tecnica, prima che un segno di appartenenza tribale. E come tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, alla fine approda in Italia. All’ultimo Salone del libro di Torino, Elido Fazi, autore-editore di una serie di saggi di successo sulla crisi intitolati alla «terza guerra mondiale», ha spiegato che il recente buco di Jp Morgan «è peggio di quello di Aig» (in realtà, è di 57 volte più piccolo). Chi resta fuori dall’ingranaggio lo osserva con interesse. Qualche tempo fa Raghuram Rajan, un economista indiano dell’Università di Chicago, ha pubblicato un articolo su «Foreign Affairs». Anche Rajan appartiene alla cerchia ristretta di coloro che avevano visto prima. Nel 2005, con dati e argomenti, avvertì una conferenza di banchieri centrali nel Wyoming del rischio che correvano le banche americane. Fu insolentito in pubblico da Larry Summers, futuro superconsigliere della Casa Bianca di Obama. Ma Rajan da allora è rimasto al suo mestiere ed evita di scivolare in polemiche da metafore e tweet. Il suo libro Terremoti finanziari e il saggio Le vere lezioni della recessione restano fra gli sforzi più attenti di capire e descrivere ciò che sta accadendo. Di recente gli ho chiesto perché mai, secondo lui, tanti suoi colleghi ormai preferiscano una dialettica estrema. «Non voglio far finta di avere una risposta — ha osservato Rajan — ma ho il privilegio di essere vicino al centro. Dunque sono scettico sulle soluzioni estreme e semplici. Quello che dico non è facile da vendere, perché chi va sulle estreme ha una narrativa più immediata. Ma mi permette di esplorare con maggiore libertà». È il punto sul quale lavora da decenni Philip Tetlock, uno psicologo della Wharton School. Tetlock è affascinato dalla proliferazione di guru, esperti e maghi delle previsioni nel nostro tempo. I canali all news 24 ore su 24, da Al Jazeera, a Fox News, dalla Cnn a Sky Tg 24 o Rai News in Italia, creano un’enorme domanda per queste figure. E lo stesso declino di Cnn di fronte a Fox dimostra che più ci si allontana dall’equilibrio che la complessità dei fatti richiede, più funziona. L’attenzione del pubblico, almeno nell’immediato, è catturata. È un fenomeno non molto diverso dall’ascesa dei populismi in politica. Beppe Grillo che vuole uscire dall’euro o il partito greco Syriza che rifiuta i sacrifici parlano più forte e più chiaro. Nel mondo dei guru mediatici, osserva Tetlock, l’estremismo delle opinioni produce prominenza ma toglie libertà: la volta dopo per lui (o più di rado per lei) diventa più difficile correggersi. Tetlock mostra come gente considerata esperta di crescita, mercati, transizione alla democrazia, proliferazione nucleare, a volte sorprenda. Sulla base di migliaia di casi, le previsioni dei guru non risultano più precise (in media) di quelle di una scimmia o di un algoritmo. Al contrario: dati alla mano, più un «esperto» è celebre e meno risulta accurato. Nel 2002-2003 centinaia di strateghi e studiosi asserivano in tivù che l’Iraq disponeva di armi di distruzione di massa. Più lo dicevano, più era probabile che il pubblico si sintonizzasse su quel canale e che l’esperto fosse invitato la volta dopo. Ma un ospite fisso di Cnn, o Fox News, o Bloomberg Tv è a un passo dal potersi lanciare nell’industria dei discorsi a pagamento remunerati almeno a cinque cifre. In una spirale del genere, tutti parlano come se sapessero. Fino al giorno in cui ciò che dicono diventa «verità» senza bisogno di prove, sul modello delle «montagne di debito» francesi. È a questo punto che l’estremismo dei guru più che una descrizione diventa un agente della realtà. Quando, sulle riforme dell’area euro, Martin Wolf del «Financial Times» spiega che «non puoi accomodare un aereo mentre precipita», per un po’ influenza gli investitori. E in fondo l’ascesa del radicalismo retorico probabilmente si spiega proprio così: come il populismo dei politici, è ormai una misura dello smarrimento di tutti di fronte a una crisi che non dà punti di riferimento. Antonio Foglia, un grande investitore di Londra, ammette che i discorsi radicali dei guru lo aiutano. Gli danno uno spunto, una provocazione per affrontare la giornata sui mercati «perché in una situazione del genere i ragionamenti sui fondamentali e il medio termine non hanno alcun senso — osserva —. Questi guru esprimono la frustrazione di chi sa di non poter fare ragionamenti ponderati». Eppure il saggio di Rajan su Foreign Affairs era proprio così. Profondo, pacato, senza slittamenti di linguaggio né di senso. Quell’intervento ha dato luogo a un dibattito fra economisti e anche Paul Krugman è intervenuto. Ha definito il testo di Foreign Affairs «un controsenso sui trampoli». Ho provato a chiedere a Rajan cosa pensasse di commenti del genere: «Aiutano, immagino. Uno impara a selezionare a chi dare ascolto».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 20 maggio 2012

L’algoritmo dell’ego. Così il self-publishing travolge l’editoria

Nell’era dei libri autoprodotti Ferrari teme il caos Piccioli spera nell’educazione Cortellessa invita a resistere
di Paolo Di Stefano
Viene meno la mediazione qualificata. Spazio a marketing e narcisismo di massa
Si parla sempre più di ebook, ma sembra che la battaglia tra la vecchia e la nuova editoria si giochi su un’altra questione cruciale: il cosiddetto self-publishing. Perché il meccanismo digitale che conduce all’autopubblicazione è fondato davvero su una mentalità nuova rispetto a quella tradizionale. Ne parla Marco Ferrario, fondatore, nel 2010, della libreria di libri digitali BookRepublic: «Il self-publishing nel contesto digitale è una modalità di pubblicazione alternativa rispetto al tradizionale passaggio attraverso l’editore: ti mette a disposizione una piattaforma per pubblicare online il libro che hai nel cassetto». Non è questo, però, l’aspetto principale del self-publishing secondo Ferrario. «Il vantaggio maggiore è per gli autori già affermati che vendono centinaia di migliaia o milioni di copie: mentre Random House pubblica il loro libro tra i 4 e gli 8mesi dopo la consegna e offre il 15 per cento su ogni copia venduta, Amazon assicura l’uscita immediata e garantisce all’autore il 70 per cento di diritti». Certo, converrebbe a chiunque, anche se il prezzo di copertina online è inferiore a quello della libreria. Ci sono autori che nascono dal self-publishing e che poi vengono proposti su carta: è il caso ben noto di Amanda Hocking. Per avere successo, continua Ferrario, bisogna da una parte «crearsi una reputazione in rete, essere molto attivi nei social network, in modo che quando poi sbarchi su Amazon per proporre i tuoi libri, i lettori già ti conoscano». A quel punto, è indispensabile attivare un lavoro di contatti negli store digitali: «Ci sono tecniche molto sofisticate per guadagnare visibilità, per esempio per entrare nelle classifiche di Amazon». Un’attività di autopublishing: dall’autoediting all’automarketing, tutto va fatto in proprio utilizzando la piattaforma digitale. Il risultato è che nel 2011 i libri autoprodotti presenti nella top ten mensile di Amazon erano dagli 11 ai 26. Come può succedere? Facile: «Amazon li propone in esclusiva e dunque punta soprattutto su quelli, perché non sono vendibili altrove». E gli altri stanno a guardare? Non proprio. Penguin (con Book Country) e Harper Collins, per fare solo due esempi stranieri, mentre in Italia si muovono, tra gli altri, Mondadori, Gems e Feltrinelli. (p.ds.) Il famoso linguista russo Roman Jakobson individuava, nella comunicazione, la coesistenza di sei funzioni essenziali: quella artistica o poetica, riguardante le scelte di lingua e di stile, era finora la componente che definiva meglio di altre il livello e il valore letterario di un’opera. La comunicazione digitale, non c’è dubbio, enfatizza da una parte quelle che Jakobson chiamava la funzione emotiva e la funzione conativa: la prima concentrata sui sentimenti e sulla spontaneità dell’emittente, la seconda sulla figura del ricevente. Spesso, nello scambio in rete, emittente e ricevente finiscono per confondersi e per coincidere in un meccanismo autoreferenziale; c’è poi la funzione fàtica, di contatto, quella che mette in evidenza il canale, cioè internet, il web eccetera. Su queste tre funzioni prevalenti si gioca per lo più l’interazione online. Perché l’io trionfi, si tratta di moltiplicare al massimo i propri contatti, non importa in che modo (funzione artistica), non importa l’oggetto della comunicazione (funzione referenziale), tanto meno importa la grammatica della lingua utilizzata (funzione metalinguistica). Il self-publishing rappresenta forse il momento apicale di questa comunicazione dimezzata. Ne parliamo con Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro; con Gianandrea Piccioli, direttore editoriale di lungo corso presso Rizzoli e Garzanti fino al 2003 e ora osservatore esterno del nuovo mondo del libro; con Andrea Cortellessa, critico letterario e saggista, redattore di «Alfabeta2» e tra gli animatori del gruppo Generazione TQ.
FERRARI: «La funzione generale dell’editoria fino a oggi è stata quella di mediare tra gli autori-produttori e i lettori- fruitori. Questa funzione, per come si è evoluta, ha generato un’industria. Con il self-publishing l’autore non entra in contatto diretto con il pubblico, perché l’editore viene sostituito da una figura che dispone di una piattaforma capace di creare il contatto con il lettore. Cambia il ruolo, perché lamodalità di intermediare è completamente diversa. L’editoria classica era fondata sul fatto che l’atto di rendere pubblico (to publish) aveva un costo molto alto, un investimento che lo scrittore non poteva permettersi. Dunque l’editore si fidava e investiva per lui traducendo la scrittura in inchiostro, carta, stampa eccetera. Con il libro digitale, questo segmento non c’è più, perché il rendere pubblico non ha più un costo: posso rendere pubblico un mio scritto senza spendere un solo euro, ma quel mio scritto entra nel caos universale della rete,mentre se lo affido ad Amazon accede in una specie di mega-negozio virtualemolto potente. Oggi il gestore guadagna per la disponibilità che offre all’autore, non perché investa su di lui. L’idea è che ilmio libro entra così in un circuito in cui ciò che accade è spontaneo, come se si realizzasse una specie di esperimento di selezione naturale in un ambiente chiuso. Ma appena un libro si muove, scattano degli algoritmi che moltiplicano l’effetto in modo tale che si va formando un’aggregazione di gusto non più determinata dalla volontà di un editore ma dall’ambiente stesso che profila il libro, lo comunica sempre di più e ne determina il successo spontaneo. È una specie di passaparola algoritmizzato, perché al primo manifestarsi di una tendenza, questa propensione viene immediatamente accentuata. Su questomeccanismo si è costruita un’ideologia: fondandosi su scelte effettuate dal basso e non dall’alto, il mondo digitale, per esempio quello dei libri, viene ammantato di democrazia a fronte dell’autoritarismo tradizionale».
A questo punto, però, si innesta un’obiezione radicale: la cosiddetta «disintermediazione » snatura e svilisce il compito tradizionale dell’editore. È un ruolo che non serve più alla società?
PICCIOLI: «Lo status di pensionato dovrebbe esimermi dal sospetto di corporativismo, spero. Penso infatti che il ruolo dell’editore, anche di quello più cinicamente commerciale, sia ancora insostituibile. Non solo per la responsabilità della scelta, che oggi, nella tarda modernità diffidente dei grandi progetti, non è mai solo culturale, inutile fare i bovaristi culturali: ogni scelta editoriale è frutto di un compromesso fra conto economico, condizione del mercato, esigenze commerciali. Però l’editore è un collaboratore dell’autore, lo sostiene, spesso anche psicologicamente, lo consiglia, gli propone temi o correzioni di sviluppi narrativi. Basta pensare, per citare una persona che tutti rimpiangiamo, a Grazia Cherchi: ancor oggi molti noti scrittori la ricordano con riconoscenza. Il self-publishing nasce anche, credo, sull’onda di una leggenda, che cioè gli editori scelgano in base a raccomandazioni, camarille, pressioni varie di cerchie intellettuali chiuse e impenetrabili. È la classica reazione di chi si sente rifiutato, non accetta la propria mediocrità e vive il rifiuto come un affronto. Ma gli editori ricevono centinaia dimanoscritti illeggibili. Poi magari sbagliano nelle scelte, però davvero niente che minimamente meriti resta impubblicato. Personalmente ho rifiutato libri che poi, magari a distanza di qualche anno, ho visto uscire da altri editori (ma non per questo ho rimpianto la decisione). Si potrebbe interpretare il fenomeno anche come la manifestazione clamorosa del narcisismo di massa, di cui la rete è moltiplicatore inesauribile. O come una sorta di spin off tecnologico del mito dello spontaneismo, che è uno dei frutti bacati degli anni Settanta del secolo scorso. Intendo dire che il self-publishing ha anche un risvolto psicologico e sociologico da non sottovalutare. Poi naturalmente gli editori, terrorizzati dalla paura di perdere il treno, ci mettono del loro, a partire dal marketing».
CORTELLESSA: «Colpisce non tanto che le persone vogliano pubblicare a pagamento, ma la disintermediazione furibonda che caratterizza la rete. È vero che il web, per certi versi, è uno strumento capace di abbattere le caste e i potentati: per la diffusione della poesia, per esempio, si sono creati movimenti e iniziative che gli editori non potrebbero sopportare. La rete offre notevoli potenzialità, ma si trascura il fatto che più si pubblica online e meno si riesce ad arrivare ai contenuti. In questo contesto, il ruolo del marketing delle case editrici viene sempre più esaltato, perché è lì che si decide che cosa mettere in primo piano e che cosa relegare sullo sfondo della comunicazione. Questo già avviene con i libri di carta, ma l’incremento del digitale moltiplica il potere dei commerciali, mentre viene completamente abbattuta la funzione dell’editore, a cui secondo me invece bisognerebbe tornare, visto il caos indifferenziato promosso dalla rete: una funzione di indirizzo e di progetto. Il fatto che gli editori tradizionali investano nel self-publishing significa che hanno abdicato al ruolo, alla selezione, alla proposta di contenuti e stili, che è una forma di potere, certo,ma è anche l’essenza del mestiere. Procedendo su questa strada, la letteratura diventerà un passatempo per ricchi che possono permettersi il self-publishing o per persone ricche di contatti e di comunicazione online. C’è un social networking aggressivo che da una parte comporta la disintermediazione degli editori, dall’altra produce una iperintermediazione commerciale. Il self-publishing occuperà sicuramente una quota crescente di mercato ma io non sono un catastrofista e non credo che arrivi a sostituire del tutto il nostro modo di fare libri. Però è indicativo dell’ideologia e della demagogia che circolano: è un colpo micidiale alla credibilità e alla dignità dell’editoria che ha sempre fatto cultura in questo Paese. Siamo in presenza di una mutazione genetica».
È il prezzo della democrazia della rete, che non tollera autorità e gerarchie…
FERRARI: «In certa misura la rete è davvero democratica: gli editori in qualche modo imponevano i loro gusti, mentre nel web nessuno impone più niente. Il paradosso però è che quella funzione oggi la svolgono i detentori delle piattaforme: sono loro ad avere in mano il pallino. Ma l’aspetto più sinistro è che esiste un solo operatoremondiale, Amazon: è unmeccanismo più chemonopolistico. Un paradosso. Il massimo della democrazia, in cui tutti sono contemporaneamente produttori e fruitori, gestita da un gruppo piccolissimo di iperscienziati che tengono le redini non dei contenutima del canale: non è un sistema orwelliano, perché i detentori del sapere vero sono quelli che controllano la macchina e la migliorano per rendere più democratico il sistema e assicurarsi sempre più profitti. È un paradosso. Inoltre, fino a prova contraria, è difficile che i vecchi editori si possano convertire alla piattaforma digitale, perché siamo di fronte a una funzione e a un modello di business diversi che richiedono know how completamente nuovi e molto raffinati: mentre i vecchi editori sono entità essenzialmente nazionali e monolingui, queste nuove figure sono naturalmente globali. In più il concetto fondamentale del self-publishing, la totale neutralità per un numero di accessi potenzialmente infinito, richiede apparati di governo molto efficienti ma a loro volta neutrali. È ovvio che questo meccanismo nega la possibilità di esistenza di qualsivoglia giudizio di valore. La categoria del giudizio non c’è più: non si prevede più l’esistenza di un esperto, di un professionista che ne sappia di più degli altri o di un orientamento dall’alto. Il self-publishing è attraente perché non prevede nessun giudizio esterno: sono io che produco la storia della mia vita, della mia infanzia o della mia famiglia senza nessun vincolo e nessuna vergogna. Non sono sottoposto a nessun filtro e sono legittimato a farlo dal meccanismo stesso. Le motivazioni che stanno alle spalle di questi sistemi non hanno niente a che vedere con la cultura, è semplicemente un business».
Diciamo allora che la rete e il self-publishing porteranno alle estreme conseguenze una tendenza già presente da anni nell’editoria tout court: il giudizio di valore coincide con il risultato di mercato.
PICCIOLI: «Il self-publishing ripropone una serie di problemi fondamentali e non risolti e forse non risolvibili: quello della formazione del canone, ad esempio, che dalla selezione dei testi sacri alla produzione contemporanea è sempre vivo; e ancor più quello del giudizio di valore. Vale a dire: come si forma oggi il valore culturale? Chi stabilisce, e attraverso quali vie e quali strumenti, le regole dell’economia culturale? Chi decide, inmancanza di Giulio II o del gruppo di Bloomsbury e in presenza di un sistema scolastico e universitario minimamente decente e di un mercato globalizzato, che un romanzo, un film, un disco di musica classica, una canzone, un quadro vale? Solo il successo di mercato? O la pubblicità? O le classifiche dei più venduti, dove qualità e quantità pretendono di coincidere, come il reale e l’ideale nel sistema dell’idealismo trascendentale? Dato che non credo a un valore in sé, metafisicamente intrinseco nell’”opera”, penso che in una società pluralista, con un consumo culturale uniformato a livello planetario e insieme segmentato in nicchie minoritarie, spesso alternative, il “valore” non consista nell’aura perduta dell’autenticità ma venga stabilito dal gruppo che fruisce e accoglie la proposta dell’autore e risponde alla sollecitazione. Come a teatro, dove il coro del pubblico partecipe invera dentro di sé l’azione drammaturgica e se ne fa responsabile. Naturalmente ogni gruppo, globale o piccolissimo, si riconosce in base alla propria cultura e ai propri gusti. Di qui la necessità inderogabile di un’educazione del gusto, che abitui a distinguere fra esperienze estetiche e culturali che ci rendono spaesati, dilatando la nostra percezione del mondo e di noi stessi all’interno di esso, e prodotti che, all’opposto, ci confermano nella banalità del già noto e del quotidiano. E per questa educazione del gusto la scuola ha un ruolo assolutamente fondamentale».
CORTELLESSA: «L’editoria, come l’informazione culturale, continua ad abbassare l’asticella in nome di quel che vuole la gente. Una volta c’era magari un’idea classista per cui un editore o una pagina culturale imponevano una linea di alto livello; oggi c’è la volontà di schiacciarsi su una presunta volontà popolare, ignorando che c’è una minoranza che ci tiene alla sua “distinzione” e che va accontentata. Questa demagogia si insinua a livello di produzione, ma anche a livello di promozione, dunque sono le richieste del pubblico a creare il catalogo e a essere amplificate. È deleterio che questo meccanismo, in cui la qualità è un tabù, si diffonda in modo gigantesco nella rete. L’etimologia di “qualità” ha a che fare con la differenza, si lega a un’idea di molteplicità delle specie. È per questo che ritengo essenziale conservare la bibliodiversità, le differenze di qualità contrastano il pensiero unico della letteratura commerciale e aumentano la libertà. Tutto questo è stato messo a repentaglio dalla massimizzazione dei profitti».
Con 60 mila novità all’anno è difficile sostenere che non c’è bibliodiversità.
FERRARI: «Io, alla fine, a dire la verità, non so fino a che punto il self-publishing avrà un grande sviluppo e potrà diventare un modello. Quel che più mi preoccupa è la divaricazione molto forte tra la produzione editoriale molto bassa, che ha un pubblico sempre più vasto, e la produzione media o alta che ha difficoltà sempre maggiori e pochissimo spazio nei punti vendita e nei processi di comunicazione. È possibile che il self-publishing finisca per alimentare ancora di più la parte bassa».
CORTELLESSA: «È vero che escono tantissimi libri. Il punto, però non è solo la produzione, ma la visibilità, l’accesso e la vendita. Quante delle 60 mila novità arrivano in una libreria Feltrinelli? Negli anni ’60 la percentuale di libri usciti che arrivavano in libreria era molto più alta del coefficiente attuale: quel che conta è la possibilità che hai di arrivare sullo scaffale. In termini assoluti viviamo in una società più democratica, ma ragionare in termini assoluti è deformante. Il fatto è che il populismomediatico si è esteso alla società e il livello di guardia ormai è ampiamente superato: per fortuna si sono creati movimenti di opposizione molto interessanti. Negli ultimi due anni ho visto controspinte notevoli: gente che si dà da fare con il volontariato culturale, nelle biblioteche, nei circoli di lettura, nelle scuole, con la consapevolezza che la lettura è un’attività sociale e civica. Non sono d’accordo con Walter Siti, il cui nuovo libro si intitola Resistere non serve a niente: penso che il degrado inarrestabile possa essere modificato remando contro e sperando che prima o poi ci siano delle zone in cui il flusso rallenta e in cui il ciclo possa prendere una direzione opposta. Solo l’andare controcorrente ci rende umani».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 6 maggio 2012