11 agosto 2012

Dante, la prima recensione

di Alessandro Zaccuri
Il nome della donna amata lo rivela Dante, tutto il resto lo sappiamo dai suoi commentatori. Che Beatrice era figlia di Folco Portinari, per esempio, e che suo marito era Simone di Geri de’ Bardi. Un’informazione, quest’ultima, che affiora dalle chiose (annotazioni, potremmo semplificare) di Andrea Lancia, notaio fiorentino attivo nei primi decenni del Trecento e a lungo ritenuto autore dell’Ottimo, il commento che rappresenta una sorta di standard per le prime interpretazioni della Commedia a Firenze. Siamo, per capirci, nello stesso ambiente da cui scaturiranno gli scritti danteschi di Giovanni Boccaccio. «Finora la sua era considerata un’impresa in gran parte innovativa, ma in base alle conoscenze attuali dobbiamo ammettere che Boccaccio, in realtà, arriva quando ormai i giochi sono fatti ed eredita dunque una grande tradizione», spiega Luca Azzetta, lo studioso che ha appena curato una fondamentale edizione critica delle Chiose alla “Commedia" del Lancia (Salerno, 2 volumi di 1.300 pagine complessive, euro 140,00), da lui stesso recentemente scoperte. In questo modo un ulteriore tassello va a inserirsi nel progetto dell’Edizione nazionale dei Commenti danteschi diretto da Enrico Malato. Iniziativa erudita, certo. Ma non solo. «La possibilità di reperire notizie documentarie precise non è l’unico motivo di interesse offerto dai commenti dell’epoca – sottolinea Azzetta –. Attraverso le interpretazioni dei fiorentini, in particolare, siamo in grado di individuare l’orizzonte culturale di Dante, ricostruendo quella che si potrebbe definire la sua biblioteca ideale. Ed è proprio qui che il lavoro di scavo si fa più interessante».
Perché?
«Perché Dante, anche quando legge auctores già noti ai suoi contemporanei, lo fa con uno sguardo personalissimo e geniale. Al punto che, in alcuni casi, i commentatori riconoscono il passo citato nella Commedia, senza cogliere però la sfumatura suggerita dal poeta».
Un Dante più che medievale, dunque?
«L’Umanesimo così come lo intendiamo nasce con Petrarca: la riscoperta dell’antichità, la cura filologica del testo. Eppure è innegabile che, nel momento in cui si sono misurati con la Commedia, i primi commentatori hanno avvertito la necessità di rileggere i classici, praticando così una forma embrionale e diversa, ma efficacissima, di Umanesimo».
Anche se alcune opere antiche torneranno in circolazione solo più tardi?
«Certo, nella Firenze del Lancia l’attenzione non è rivolta alla ricerca di nuovi auctores, come accadrà più tardi; piuttosto va considerata l’importanza dei “volgarizzamenti”, e cioè le traduzioni in volgare di classici (o, spesso, compendi di classici) che ebbero molta fortuna tra Due e Trecento. È un genere letterario che viene incontro alle esigenze di una categoria di lettori che, pur non avendo le competenze necessarie per comprendere il latino, desiderano comunque conoscere le opere latine: Virgilio, Seneca, Ovidio, Cicerone, Boezio, eccetera. Molto spesso a Firenze i volgarizzatori sono notai, cioè persone bilingui, in grado di mediare tra l’ordinarietà della vita di tutti i giorni, che conosce solo il volgare, e la cultura giuridica affidata alla gramatica. Notaio infatti è anche il Lancia, ben noto per le sue versioni di Virgilio, Seneca, ma anche di Agostino e degli Statuti del Comune di Firenze».
In che cosa consiste l’originalità delle sue chiose?
«Andrea ha senza dubbio un orecchio straordinariamente sensibile, che gli permette per esempio di riconoscere nel Palinuro virgiliano il palinsesto su cui Dante costruisce l’episodio di Buonconte da Montefeltro, o di individuare il legame tra il Salve Regina e la celeberrima preghiera mariana di Bernardo nel XXXIII canto del Paradiso. A colpire è inoltre la sua capacità di cogliere il rapporto fra la Commedia e le opere dantesche che precedono la stesura del poema. Quando commenta gli ultimi canti del Purgatorio, infatti, non si smarrisce nella selva di simboli allestita da Dante e tiene a precisare che la Beatrice di cui si parla è la medesima figura storica delle Rime e della Vita nuova. Anche i suoi riferimenti al Convivio sono estremamente precisi e, per di più, condotti sulla base di un testo di qualità eccellente. Ci sono brani che, nelle citazioni del Lancia, risultano assai più corretti di quanto appaiano sulla base dei manoscritti del Convivio oggi conosciuti».
E la controversa “Epistola a Cangrande della Scala”?
«La maggior parte degli studiosi è ormai propensa a riconoscerne la paternità dantesca. Tanto più ora: grazie al Lancia, che la cita esplicitamente nella chiosa al primo canto del Paradiso, sappiamo che almeno dal 1341 a Firenze l’Epistola circolava tutta intera nella forma in cui anche noi oggi la conosciamo ed era attribuita senza esitazione a Dante. È una testimonianza da non trascurare, data la sua eccellente conoscenza delle opere di Dante, forse resa possibile anche dalla frequentazione (non provata, ma possibile e che ci piace immaginare) con i figli dell’Alighieri, Iacopo e Pietro, che furono anch’essi commentatori e interpreti del poema. Per questo credo che sia tempo di tornare a rileggere l’Epistola provando a darne una valutazione più adeguata e serena, alla luce di ciò che dice e dei problemi che pone».
«Avvenire» del 9 agosto 2012

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