13 luglio 2012

Shin e gli orrori del Campo 14

di Riccardo Michelucci
​Shin Dong-hyuk ha vissuto i primi ventitre anni della sua vita in un girone infernale di privazioni, lavori forzati e torture. Nato all’interno del Campo 14, uno dei peggiori campi di prigionia del regime nordcoreano, è cresciuto in un mondo dominato dai più bassi istinti di sopravvivenza senza conoscere mai né la libertà, né i più elementari sentimenti umani. Un mondo che l’ha spinto anche a competere con sua madre per garantirsi il cibo ed evitare le brutali punizioni dei carcerieri. Il regime di Kim Il Sung l’aveva condannato a una vita di prigionia insieme a tutta la sua famiglia per vendicarsi dei suoi zii, disertori ai tempi della guerra di Corea. Ad appena quattro anni, Shin assistette per la prima volta a un’esecuzione all’interno del campo. A quattordici, vide sua madre e suo fratello mandati alla forca per aver organizzato un tentativo di fuga. In quella stessa occasione le guardie si accanirono anche contro di lui, torturandolo per otto mesi. Secondo le stime più attendibili sono circa 200.000 le persone attualmente rinchiuse nei campi nordcoreani e destinate a morire di stenti: Shin sarebbe ancora uno di loro se il 2 gennaio 2005 non fosse riuscito quasi per miracolo a eludere la sorveglianza e a scappare da quell’inferno per cominciare finalmente a vivere, nel vero senso della parola. È agghiacciante, eppure drammaticamente vera, la storia dell’unica persona nata nei lager nordcoreani che è riuscita a fuggire in Occidente. Blaine Harden, corrispondente dall’Asia per il "Washington Post", l’ha raccontata per la prima volta nel libro Escape from Camp 14: One Man’s Remarkable Odyssey from North Korea to Freedom in the West. L’ha fatto senza limitarsi a compiere un viaggio nell’abisso degli indicibili orrori del regime di Pyongyang ma analizzando anche il lento processo di ricostruzione della vita di un uomo che ha conosciuto l’inferno sulla Terra. «Soltanto adesso Shin sta imparando a provare emozioni, prima non sapeva neanche cosa fossero – ci ha spiegato Harden – dice sempre che è uscito dal campo solo fisicamente, non ancora psicologicamente, e continua a fare i conti con il suo tremendo passato».

Com’è stato possibile accertare la veridicità dei fatti raccontati da Shin?
«Verificare la verità sulla vita dei campi è molto difficile. Nessun giornalista è mai riuscito a entrarci ed è impossibile intervistare sia i prigionieri che le guardie. Peraltro il governo nordcoreano continua a negare l’esistenza di questi campi per dissidenti politici, eppure si possono vedere molto chiaramente nelle centinaia di foto ad alta risoluzione scattate dai satelliti. Quanto a Shin, le descrizioni assai dettagliate che ha fornito per commentare le foto del Campo 14 basterebbero da sole ad avvalorare la sua storia. Ma forse è il suo corpo la prova più eloquente. Essendo stato torturato fin dall’età di 13 anni, sulla schiena e sulle natiche ha gravi ferite causate dal fuoco. Il suo sviluppo è stato arrestato dalla malnutrizione e le sue braccia risultano piegate a causa del lavoro svolto fin da bambino. Un dito della mano destra gli è stato reciso con il coltello come punizione per aver fatto cadere una macchina da cucire nella fabbrica di indumenti del campo. Infine, su entrambe le gambe ha profonde cicatrici che si è procurato durante la fuga, ustionandosi con la recinzione ad alto voltaggio che circonda il campo. Ci sono circa sessanta sopravvissuti che sono scappati dai campi di prigioni della Corea del nord e hanno raccontato le loro storie alle organizzazioni per i diritti umani. Storie che risultano assai coerenti con quella raccontata da Shin, ma il suo racconto è assai più preciso e accurato poiché lui, al contrario degli altri sopravvissuti, nel campo ci è nato e ci è cresciuto».

Mentre lavoravate al libro ha anche scoperto un particolare terribile sul suo passato.
«Sì, dopo circa un anno di lavoro Shin, tormentato dai sensi di colpa, ha deciso che era giunto il momento di dirmi la verità e mi ha confessato di essere il responsabile della morte di sua madre e di suo fratello. È stato lui a denunciarli temendo quello che gli sarebbe successo dopo la loro fuga. Aveva 14 anni e sapeva benissimo che sarebbero stati condannati a morte ma decise di fare la spia per garantirsi una vita migliore ed evitare le vendette delle guardie».

Che ne è adesso della sua vita?
«Adesso ha 29 anni e vive a Seul, in Corea del sud, dove lavora nell’ambito dei diritti umani. Intervista altri disertori nordcoreani e pubblica le videointerviste su Youtube. Questo lavoro sta aiutando molto il suo equilibrio emotivo, contribuendo a fargli metabolizzare la sua esperienza. Si è anche avvicinato alla religione. Oggi va regolarmente in chiesa a Seul, si definisce cristiano e dice che la sua fede gli dà grande conforto. Prima non sapeva neanche cosa fosse Dio, mentre adesso continua a confrontarsi con sentimenti umani che a noi sembrano normali, come la fiducia e l’amore, ma sostiene che gli serviranno ancora molti anni per poterli apprezzare fino in fondo. Ovviamente adesso apprezza molto il fatto di poter disporre di cibo e vestiario a volontà, e di avere un tetto sopra la testa, ma non sa ancora cosa sia la felicità».

Quanti di questi campi sono attivi al momento in Corea del nord?
«Le ultime informazioni parlano dell’esistenza di almeno cinque o sei campi. Secondo le stime più attendibili vi sono rinchiusi complessivamente dai 135000 ai 200000 prigionieri. Il Campo 14 è ancora aperto e funzionante, con circa 15000 reclusi al suo interno. Spero che il mio libro, già uscito in molti paesi europei oltre che negli Stati Uniti, contribuisca ad aprire gli occhi della comunità internazionale sul dramma dei diritti umani in Corea del nord».
«Avvenire» del 11 luglio 2012

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