17 luglio 2012

Reputazione digitale con il trucco

Quanto è reale il potere degli opinion leader nei social media? Tanti siti lo misurano, ma gli analisti accusano: «Poco efficaci»
di Maria Teresa Sette
Livello di influenza: 765 su 1.000; outreach (si potrebbe tradurre con «ampia capacità di interazione »): 7 su 10. Si legge ben in vista accanto a nome e qualifica sul biglietto da visita che Andrew Grill ci porge in chiusura del nostro incontro. Influence sta per l’abilità di ispirare azioni e outreach per la «generosità» nell’interazione. E a sentire l’amministratore delegato di Kred — una delle più note piattaforme per misurare la capacità di influenza sui social network — «quel punteggio avrà un impatto sulla tua vita, che tu lo voglia o no». Perché più alta è la cifra, più elevata sarà la possibilità di ricevere trattamenti vip, ottenere sconti in hotel, negozi, ristoranti, biglietti gratuiti ai concerti. Ma anche di trovare un lavoro. Benvenuti nell’era dell’influenza online: nuova ossessione della social media analytics, ambitissima frontiera delmarketing, nonché «prossimo promettente boom nel mercato delle applicazioni», avverte Grill.
Chi è il social media influencer? È l’opinion leader dell’era digitale. Consacrato da un algoritmo. Kred, Klout, PeerIndex, mBlast, TweetLevel sono soltanto tra i più popolari siti di calcolo di reputazione sui social media che stanno letteralmente inondando il web. Monitorando le singole mosse degli utenti su Twitter o Facebook, l’algoritmo assegna a ciascuno un voto. A chi va la cifra più alta? No, non all’eroe che democratizzerà l’ecosistema del marketing, né all’opinion leader del nuovo millennio da scovare, conquistare, premiare. Piuttosto, a un abile impostore. Proprio così, un astuto manipolatore, narcisista, capace certo di attirare l’attenzione, costruire un «culto di sé». Ma barando.
La stroncatura è falciante. E arriva direttamente da una comunità sempre più folta di critici che va da sociologi, psicologi, esperti di media emarketing, blogger e osservatori del web. Mentre esplode infatti l’interesse per l’influenza digitale, mentre sul web cresce e si fa concorrenziale l’offerta di servizi che si propongono come strumenti indispensabili per le aziende interessate a intercettare e monetizzare gli opinion leader di turno, la voce degli scettici si leva sempre più forte: reputazione non è sinonimo di capacità persuasiva, strillano all’unisono, e la misurazione dell’influenza sociale non può certo essere affidata artificialmente a un algoritmo, per altro facilmente manipolabile.
«Strumenti come Klout e Kred si basano su un modello a megafono», spiega a «la Lettura» Aleks Krotoski, psicologa sociale americana esperta delle dinamiche delle relazioni online, e tra le più ferventi critiche di questo sistema. «Chi più urla più attira l’attenzione e, secondo gli sviluppatori, l’attenzione si tradurrebbe in influenza. Ma chiunque può truccare un profilo online, creare il culto della propria personalità su un social network. Il punteggio più alto? Andrà a chi ha più tempo, soldi e capacità di manipolazione». Un’assurdità secondo la ricercatrice, che spiega come l’influenza sociale sia un processo ben più complesso: «È un fenomeno contestuale che sfrutta la competenza e la credibilità su un determinato ambito; è un meccanismo psicologico che poggia su una fiducia costruita sulla base di precedenti azioni e che proietta aspettative sul futuro; ed è poi un meccanismo di identificazione sociale: ci si fa influenzare di più da qualcuno che percepiamo a noi più simile».
Ottenere un retweet dunque non è abilità di persuasione. Facebook, Twitter e i vari social network, sostiene Krotoski, «spesso somigliano più a delle casse di risonanza (echo-chamber): luoghi chiusi e amplificatori delle nostre opinioni», le quali finiscono per avere un impatto su chi già si riconosce come parte del nostro gruppo di riferimento, ma non vanno oltre. «Provate a seguire su Twitter qualcuno che la pensa diversamente da voi», suggerisce ironicamente la ricercatrice, «e vediamo quanto resisterete prima di eliminarlo infastiditi».
La tesi è nota e supportata dalle ricerche più recenti nell’ambito della psicologia della comunicazione. «Non sempre la star di Hollywood solo perché popolare ha il potere di influenzare le nostre scelte», le fa eco il sociologo americano Grant Blank dal suo studio presso l’Internet institute dell’Università di Oxford. Democratizzazione dell’influenza? Niente di tutto ciò. «L’idea è romantica, mi piace molto. Ma questi sistemi non solo non faranno alcuna differenza ma non aggiungono niente di nuovo a quello che sapevamo già», ci va giù duro il professore. Klout, Kred e simili, ci spiega il sociologo, si basano su una metodologia nata prima dell’avvento di Internet e dei social media: «Una vecchia tesi degli anni 50, nota in letteratura come teoria del flusso a due fasi di comunicazione». Le informazioni, cioè, sono mediate dagli opinion leader prima di arrivare al pubblico di riferimento. «Ottima teoria, ma superata». Nessuna rivoluzione dunque, e nessuna rivincita del citizen influencer sulla celebrità: l’influenza online segue le stesse identiche dinamiche di quella offline. E tuttavia, concede il sociologo, questi servizi potrebbero rivelarsi interessanti per il marketing, sebbene sia ancora presto per capire come.
«Siamo davanti a una nuova era del passaparola: una miniera di opportunità per il marketing» conferma Brian Solis, autore di The rise of digital influence. Ma attenzione, sottolinea il social media analisyt di Altimeter Group: «Questi software non misurano affatto influenza, piuttosto capitale sociale». Le aziende, spiega a «la Lettura» l’analista americano, si stanno lanciando nella corsa per accaparrarsi gli influencer dei propri settori di riferimento, ma sarà un disastro se credono di poter trarre profitto da questo nuovo modello di marketing affidandosi acriticamente a un algoritmo». Sono servizi che hanno del potenziale, quindi, ma «il problema è che molti brand stanno scambiando un punteggio per capacità di persuasione. Influenza e leadership sono cose che vanno conquistate, esattamente come avviene nella vita reale», argomenta Solis.
Il dibattito è vivo insomma, e lo scenario tutto da esplorare per gli addetti ai lavori. Ma troppo precoce per prevedere con esattezza che profilo assumerà. Sebbene ci sia chi, come Andrew Grill, non ha dubbi: «Quel punteggio sarà presto una delle voci principali sui nostri cv, lo ritroveremo dappertutto. È prevedibile che sulla base di questo le aziende riorganizzeranno le loro strutture interne. A partire dai media, che posizioneranno i giornalisti con lo score più alto nelle prime pagine». Quanto ai critici, la risposta di Grill è netta. Crearsi a tavolino un profilo da influencer? «Sarà sempre più difficile con algoritmi trasparenti e via via più sofisticati che permetteranno a chiunque di distinguere tra un vero influente e un millantatore», commenta il Ceo di Kred a margine di un Meetup in un affollato pub londinese dove, di fronte a un pubblico di entusiasti internauti, ha appena concluso la sua presentazione. Titolo: «Come incrementare la tua influenza sui social media».
«Corriere della sera - Suppl. La lettura» di metà luglio 2012

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