01 luglio 2012

La neo-lingua inventata dai partiti non nasconde più i vecchi vizi

Giochi lessicali: parole e potere
di Pierluigi Battista
Se il divario tra le parole e le cose diventa troppo marcato, i partiti rischiano davvero il tracollo definitivo della loro (residua) credibilità. Le chiamano Autorità «indipendenti». Ma al loro vertice i partiti maggiori spartiscono le poltrone secondo le regole del manuale della più esplicita «dipendenza» politica. Poi si lamentano delle ondate travolgenti di «antipolitica». George Orwell l’aveva chiamata «neo-lingua». Attraverso il comando sul linguaggio (la «guerra» che diventava ufficialmente «pace» e così via), il potere totalitario rafforzava la sottomissione assoluta della società. Oggi non c’è un controllo politico totalitario, ma l’arroganza di partiti che non hanno capito quanto la loro «neo-lingua» risulti oramai detestabile e ipocrita. Come è possibile definire «indipendenti» le Autorità consegnate senza ritegno a politici di lungo corso cui trovare una nuova occupazione? Chi si fiderà mai più della loro «indipendenza»? Non si fiderà nessuno. E nessuna «neo-lingua», nessun velo lessicale, per quanto spesso e opaco esso sia, potrà mai nascondere la realtà dura e resistente delle cose: la realtà della spartizione, degli accordi sottobanco per sottomettere organi «indipendenti». Alberto Ronchey, per descrivere la logica spartitoria dei partiti dominante nella Rai, mutuò genialmente, già alla fine degli anni Sessanta, un termine in uso nelle transazioni immobiliari: «lottizzazione». Adesso, per apparire più moderni e disinvolti, la chiamano «governance». Ma mentre «lottizzazione» rende perfettamente l’idea di una suddivisione attuata secondo regole circostanziate, «governance» è fumo negli occhi per occultare la morsa dei partiti che stringe, asfissiandola, la tv pubblica. Nei periodi meno convulsi, la lingua legnosa della politica non appare offensiva e viene al massimo bonariamente derisa per le fumisterie del politichese. Ma c’è sempre un momento in cui l’incantesimo sembra svanito e le parole che sembravano più collaudate per nascondere la sostanza delle cose appaiono offensivamente truffaldine. Per anni, ad esempio i partiti hanno gabellato come «rimborsi elettorali» i quattrini del finanziamento pubblico dei partiti. Una furbizia necessaria, perché nel 1993, un referendum aveva abrogato plebiscitariamente la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Ecco allora l’escamotage dei «rimborsi» senza regole e senza controlli, con un flusso di sovvenzioni di gran lunga superiore ai «rimborsi» veri e propri, certificabili come tutti i rimborsi con fatture, scontrini e ricevute. La neo-lingua in questo caso è servita per eludere un referendum e per rendere più accettabile ciò che la stragrande maggioranza dell’elettorato aveva dimostrato di non voler accettare. Il camuffamento linguistico ha funzionato egregiamente per anni, ma è arrivato un momento in cui il velo si strappa, lo strato di parole menzognere si dissolve e la realtà diventa intollerabile. È il momento che stiamo vivendo, ma forse i partiti stentano ad accorgersene. Il linguaggio inautentico che chiama «indipendenti» le Autorità dominate dai partiti, che definisce «rimborsi» i flussi di finanziamento pubblico ripudiati da un referendum di cui non si è voluto tener conto, che edulcora con la «governance» la realtà della lottizzazione dei partiti, è arrivato al capolinea. Il linguaggio violento, intimidatorio, smodatamente aggressivo dei movimenti che si nutrono di «antipolitica» (altro parto della fertile «neo-lingua») è il contrappasso di un lessico che non è più capace di aderire alle cose. Non che il linguaggio degli anti-politici sia per questo più vero: la «narrazione» vendoliana riesce a stento a coprire la realtà della lottizzazione nella sanità pugliese, il «territorio» leghista non ha impedito la degenerazione familistica e clanistica dei suoi vertici, il giustizialismo di Di Pietro non ha arginato l’emergere nell’Idv di una classe dirigente inaffidabile, e lo stesso «grillismo», a Parma, sta cominciando a sperimentare la distanza tra la libera verbosità dei blog e la durezza dell’amministrazione di una città. Ma queste contraddizioni non devono consolare i maggiori partiti che si cullano nell’illusione che tutto possa essere mimetizzato e nascosto da un linguaggio ingannevole e sempre meno accettato da un elettorato indocile ed esasperato. Dovrebbero al più presto cambiare ambedue le cose: i comportamenti e il linguaggio. Smetterla di occupare ogni frammento della vita pubblica e smetterla di adoperare parole che oramai hanno perso ogni credibilità. Non hanno molto tempo per prenderne atto, prima che gli elettori lo facciano al posto loro, disertandoli.
«Corriere della Sera» del 7 giugno 2012

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