06 luglio 2012

Filumena lo insegna: padri si diventa. Ma non con il test del Dna

La vicenda personale e pubblica di Balotelli
di Alessandro Zaccuri
Nessuno lo sa meglio di una famiglia adottiva: paternità e maternità non sono soltanto un dato biologico. Sono l’esito di una relazione, semmai. Un processo che si radica nel tempo, non un evento da isolare in laboratorio.
Sospesa com’è tra la Mandragola di Machiavelli e il copione di Filumena Marturano (entrambi aggiornati ai tempi dei social network, con il prevedibile aggravio di leggerezze e grossolanità), la vicenda di cui l’ormai immancabile Balotelli si trova a essere protagonista ha comunque qualcosa di spettacolare, un po’ come la doppietta che non più tardi di una settimana fa SuperMario ha rifilato alla Nazionale tedesca. Proprio lui, che nel 2008, sfoderando tutta la furia di un adolescente di talento, aveva rifiutato qualsiasi rapporto con i genitori naturali ghanesi, oggi invoca la prova del Dna per stabilire se il bambino di cui la sua ex fidanzata Raffaella Fico è incinta sia o non sia suo figlio.
Niente ingenuità, d’accordo. In una circostanza come nell’altra, c’è il rischio della speculazione e, da figura pubblica qual è, il calciatore provvede a tutelarsi. Non per questo, però, il problema è risolto. Perché sulla scorta dei dubbi di Balotelli, per esempio, si scopre che il test di paternità è ormai procedura diffusa, allegramente connessa a una promiscuità che nessuno si permette più di mettere in discussione. E anche qui andiamoci piano con il candore, tratteniamo lo scandalo: mater semper certa, con quel che segue. Ne abbiamo sentito parlare, grazie. Letteratura, cinema, arti figurative, teatro, fumetti, melodramma e serie tv abbondano di storie del genere, per non parlare dei manuali di teologia morale. Ma la questione è un’altra. Se l’argomento tollerasse semplificazioni (e nessun argomento, invece, è meno semplificabile degli affetti), si potrebbe dire che il test di paternità funziona al contrario: chi se ne serve, non è un padre. Non ancora, perlomeno.
È la condizione che, nella commedia di Eduardo, Domenico Soriano sperimenta sulla sua pelle. L’amante di sempre, Filumena, gli rivela di avere tre figli, rimasti finora segreti. Uno dei tre è tuo, aggiunge, ma non ti dirò mai quale. Crescili come un padre, tutti e tre. Don Mimì si adegua, ma intanto si strugge. Si arrovella lungamente per cercare somiglianze, si scervella nell’individuare in questo o in quel ragazzo un tratto in comune con il proprio carattere, una qualche propensione che permetta di accertare la discendenza.
Suprema illusione, considerato che – come ogni genitore sa bene – dal medesimo corredo biologico possono scaturire i risultati più imprevedibili. Opposti al presunto originale, addirittura, perché un figlio non è mai una copia del padre, neppure per un istante è suo possesso, né un’estensione dei suoi successi, dei suoi fallimenti. Domenico, alla fine, fa quello che la conseguita saggezza gli impone: diventa il padre di tutti e tre, pur sapendo che di due figli non è il padre.
Ma questo forse accade perché Filumena Marturano è un testo del 1946, composto in un’Italia ferita e stracciona, proletaria nel senso nobile del termine (i figli come unico tesoro, la responsabilità come destino individuale e collettivo). Il Dna, quello, lo avrebbero scoperto sette anni più tardi.
«Avvenire» del 6 luglio 2012

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