30 luglio 2012

Il tesoro inesauribile delle Teche Rai

I filmati d'archivio di «TecheTecheTé» vincono la battaglia dell'access prime time con il 17,1% di share
di Aldo Grasso
Capita, d'estate, che il programma più seguito della serata sia pure quello più economico da realizzare: nessuna produzione, nessun acquisto, solo - si fa per dire - un certosino lavoro di «spulcio» di filmati d'archivio, a cominciare da quel tesoro inesauribile che sono le Teche Rai. Autori, ricercatori, archivisti, montatori: così «TecheTecheTé» vince la battaglia dell'access prime time, con 3.194.000 spettatori medi e il 17,1% di share (una cifra, questa, che persino un varietà di nuova produzione fatica a ottenere...).

PERFORMANCE - Nella settimana appena trascorsa ha registrato performance notevoli: 3.714.000 spettatori medi, con uno share del 18,3% e, complice la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi, un picco del 21% venerdì sera. «TecheTecheTé» ha sostituito, quest'anno, «Da Da Da», pur mantenendo la medesima squadra autoriale. Nello stesso periodo dello scorso anno, «Da Da Da» viaggiava su una media superiore di circa 500.000 spettatori (3.711.000, 19% di share), e in precedenza, aveva varcato la soglia dei 5 milioni (complici i Mondiali). Il programma di quest'anno sconta probabilmente due problemi, uno generale e uno più specifico. Il completamento della digitalizzazione ha certamente frammentato gli ascolti; ma è anche vero che «TecheTecheTé» indulge spesso un po' troppo alla «logica Blob», all'accostamento spericolato, alla pratica della razzia con effetto spaesamento. Se si analizza il profilo del pubblico, si capisce che il programma «di montaggio» è un'incredibile risorsa della Rai, perché svolge una funzione nostalgica su quel pubblico (26% di share fra gli ultra 65enni e 20% sui cinquantenni) che lo ama. Probabilmente un pubblico ancora più «tradizionalista» di quello che gli autori hanno in mente.
«Corriere della sera» del 30 luglio 2012

27 luglio 2012

E l’evoluzione si piegò al nostro volere

L'antropologo Tattersall
di Luigi Dell’Aglio
«Noi che facciamo il suo stesso lavoro ci chiediamo se il paleoantropologo sia uno scienziato felice o almeno appagato. Forse il massimo che si possa dire per rassicurarlo è che, diversamente dall’ingegnere o dal geologo, non è tenuto ad avere sempre ragione. Qualche volta può anche sbagliare, ma l’errore non provoca tragedie.
La nostra scienza, a differenza di altre strade della conoscenza, è un sistema di cognizioni provvisorie limitato all’universo osservabile. La scienza in generale progredisce proponendo idee circa il comportamento dell’universo, verificandole e scartando quelle che non vanno. In questo modo opera come un sistema che si corregge da solo e si alimenta degli input forniti da un’immensa comunità di ricercatori. Ognuno di questi può sentirsi parte del colossale fiume della conoscenza, anche se le sue idee non verranno avvalorate dalle ricerche future». Un’ardita avventura di tenaci talenti: questa è la scienza per Ian Tattersall, paleoantropologo la cui rinomanza internazionale è legata a uno dei più grandi musei del mondo: l’American Museum of Natural History di New York. Tattersall ne è ora curator emeritus. Mercoledì 22 agosto interverrà al Meeting di Rimini sul tema "Natura umana ed evoluzione biologica".

Professor Tattersall, l’emergere dell’uomo con la sua natura dal corso dell’evoluzione è considerato un evento unico, ma ora alcuni fisici negano che l’arrivo della specie umana sia una svolta impetuosa che cambia radicalmente l’avventura della vita sul pianeta. Perché questo principio viene contestato?
«Non conosco molti fisici che realmente capiscano la biologia. Infatti i fenomeni che studiamo noi biologi sono molto caotici rispetto a quelli dei fisici. Ogni organismo ha una sua storia evolutiva, e questo vale particolarmente per gli esseri umani. Ma è anche vero che la specie umana si è fatta un nido molto confortevole tra i rami dell’imponente Albero della Vita sul nostro pianeta».

Nella disputa sull’origine della specie umana sembra ora accentuarsi e ora attenuarsi la spinta a invalidare la teoria dell’evoluzione. Tra gli antropologi credenti si fa notare che l’uomo non è la negazione dell’evoluzione. Al contrario, l’uomo "è la freccia dell’evoluzione, come diceva Teilhard de Chardin…».
«Teilhard era certamente nel giusto quando vedeva gli umani come un prodotto del processo evolutivo. Ma erano un unico prodotto di quel processo. Con alcune specialissime caratteristiche, soprattutto di tipo cognitivo».

Non pochi scienziati affermano che la natura umana esalta la cooperazione e l’aiuto reciproco. Altri descrivono la vita come un’inevitabile, accanita lotta per la sopravvivenza, che sarebbe tipica dell’evoluzione. Qual è il suo punto di vista?
«Assistiamo chiaramente a una competizione per le risorse di questo mondo. Ma penso che, su larga scala, la competizione tra le specie abbia avuto maggiore importanza della competizione fra individui, nel determinare le conseguenze di tre miliardi e mezzo di anni di evoluzione».

"L’universo aspettava l’uomo", dicono molti astrofisici sottolineando la quantità di condizioni favorevoli e di complesse attitudini grazie alle quali la specie umana ha potuto insediarsi sulla Terra. Alla luce di tutto questo, si potrebbe usare il concetto di "principio antropico" anche in paleoantropologia?
«In un mondo inadatto a ospitarlo, il genere umano non avrebbe potuto neanche conoscere l’evoluzione. Ma è arduo affermare che il principio antropico sia un fattore che determina le storie evolutive».

Che cosa rivelano i più recenti studi sul simbolismo, in merito al sentimento religioso, all’etica e all’arte, che sono le più profonde attività psichiche dell’uomo?
«Non tutto ciò che consideriamo speciale, insolito, in noi stessi, è stato acquisito tutto insieme, nello stesso periodo di tempo, dai nostri lontani predecessori. Il fuoco, per esempio, sembra sia stato "scoperto" circa un milione di anni fa. È diventato una presenza regolare e sistematica circa 400 mila anni fa. Ma il pensiero simbolico, che sembra ragionevole collocare insieme con la sensibilità religiosa, è stato introdotto soltanto 100 mila anni fa».

Grazie a quali fattori la specie umana è sopravvissuta alle vicissitudini della Terra e ha assunto una posizione preminente nel processo evolutivo?
«Per essere più precisi, non possiamo dire che gli umani abbiano assunto una posizione preminente nell’evoluzione. Possiamo dire piuttosto che attraverso il processo evolutivo il genere umano ha acquisito le caratteristiche per diventare ecologicamente dominante».

C’è un momento nel quale l’uomo prende in mano le redini della propria evoluzione…
«Sono d’accordo. Nella storia del genere umano c’è un punto ben definito : è quando, grazie a un "salto" cognitivo, l’uomo viene messo definitivamente in grado di uscire dal sistema ecologico prestabilito e di modificare i processi naturali. Il momento cruciale arriva quando la specie umana sviluppa una moderna capacità cognitiva, unendo i complessi comportamenti del campo della cultura. Basandosi sulle scoperte archeologiche, si può concludere che quel momento sboccia di recente, 100 mila anni fa, cioè molto tempo dopo l’avvento dell’Homo Sapiens come entità anatomica».
«Avvenire» del 27 luglio 2012

Se l'Occidente perde il senso del futuro

Matrimonio, omosessualità e verità umana
di Francesco D'Agostino
​Luigi Urru, antropologo culturale dell’Università di Milano Bicocca, mi scrive per criticare la perentorietà con la quale ho affermato, su queste colonne lo scorso 18 luglio, che «il matrimonio è uno e uno soltanto in tutte le culture e in tutti i tempi». Le cose non starebbero affatto così: basterebbe la succinta rassegna etnografica delle diverse tipologie familiari fatta da Francesco Remotti nel volume “Contro natura” per convincere tutti (me compreso) dell’esatto contrario.
Accetto di buon grado l’augurio di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo, pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.
Rimando Urru, augurandogli a mia volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru, se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere. Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo “ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle altrui come “contro natura”.
Ciò detto, resta come un punto fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali sono espressione di poche, essenziali, “vere” esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte, l’identità trans–generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto – trasformandosi in un indebito relativismo antropologico – quando cerca di dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).
E’ in tal senso che va letta l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto io, che il matrimonio «è uno e uno soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.
Che oggi sia dilagante la propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua storia, l’Occidente, minimizzando la vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti seriamente misurarci.
«Avvenire» del 27 luglio 2012

25 luglio 2012

È il latino la lingua che aiuta il progresso

Intervista
di Lorenzo Fazzini
​«Le racconto un episodio accadutomi di recente: uno studente proveniente dalla Bulgaria è venuto da noi in Facoltà per alcune sue ricerche. Mi ha fatto cercare per avere delle informazioni: non potendo comunicare in nessuna lingua moderna – inglese, francese, tanto meno il russo o il bulgaro – ci siamo rivolti al latino. E ha funzionato a meraviglia!». Del resto è notizia di questi giorni che la lingua di Cicerone trova proseliti in Cina. La Beijing Foreign Studies University ha inaugurato a metà giugno l’istituto Latinitas Sinica dedicato allo studio, all’insegnamento e alla promozione del latino in Cina. Curiosamente gli universitari del Dragone vogliono imparare l’idioma degli antichi romani perchè lo considerano una strada prioritaria per conoscere meglio la civiltà occidentale. E anche perché facilita l’apprendimento delle lingue d’Occidente, inglese in testa.
La cosa non stupisce padre Roberto Spataro, salesiano, da poche settimane segretario della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, pardon, del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis (preconizzato da Giovanni XXIII e istituito da Paolo VI), dopo essere stato rettore dell’Istituto Ratisbonne, il centro teologico dei salesiani di Gerusalemme.

Qual è la situazione dello studio del latino oggi? È così “grave” come qualcuno denuncia?
«Fino a 40 anni fa una persona di media cultura, soprattutto in Europa, aveva studiato latino e disponeva di una formazione umanistica di base. Per varie cause oggi non avviene più così. Ci sono, però, dei segnali di speranza: tra essi, indico la diffusione di un nuovo metodo di insegnamento del latino, il cosiddetto “metodo-natura” che consente un apprendimento serio, graduale, piacevole e, soprattutto, più efficace. Questo metodo si rifà alla tradizione più antica, praticata dagli umanisti, ad esempio dai gesuiti nei grandi collegi d’Europa, di esercizio attivo nell’insegnamento delle lingue. Poi l’introduzione della metodologia “positivistica” ha considerato le lingue come un materiale “freddo”, da laboratorio. E i risultati si sono visti, purtroppo, in negativo».

Ma dunque perché oggi, nell’era di Facebook, della tecnologia e del “globish” (l’inglese globale), ha ancora senso e urgenza studiare e imparare il latino?
«Lo sviluppo tecnologico senza la crescita etica è un mostro che divora gli uomini. L’accesso alla cultura umanistica consente di raccogliere un’eredità di pensiero che non può non accompagnare lo sviluppo tecnologico. La tradizione umanistica ha meditato ed elaborato concetti fondamentali quali la dignità dell’uomo, il rispetto e la concordia tra i popoli, il ruolo dello Stato, la definizione di virtù. Lei accenna al mondo “globish”: e infatti il latino serve a parlare meglio anche l’inglese, visto che il 70% del suo lessico è costituito da radici latine. Inoltre il latino ha un pregio: essendo una lingua sovranazionale, è neutrale, non veicola ed impone alcuna cultura specifica, compresa quella anglosassone».

Dal suo osservatorio – ha raccontato altrove di avere studenti dal Nordamerica, dall’Europa Orientale, dall’Africa e dalla Cina – quali sono gli ambienti intellettuali o le zone del mondo in cui il latino riveste maggior interesse e trova un’accoglienza più feconda?
«Ho parlato con professori e studenti che vengono da tutto il mondo: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere ad una “res publica litterarum” di elevato livello spirituale. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, ad esempio di Cicerone, Cipriano, Erasmo, delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea, vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare una certa innocenza spirituale. Tra le zone del mondo ove si registra interessa per il latino vorrei citare la Cina. Un nostro professore è recentemente rientrato da Pechino ove ha tenuto dei corsi seguiti da molti giovani universitari, tutti interessatissimi. L’Italia però non deve abdicare alla sua vocazione “storica” di presidio della cultura umanistica».

La situazione della Chiesa. Di recente monsignor Waldemar Turek, responsabile del latino per la Segreteria di Stato vaticana, notava come anche nell’ambiente ecclesiastico, e in particolare in quello teologico, il latino sia caduto in oblio. Condivide tale osservazione?
«Sì, sebbene rintracciare le cause sia un discorso complesso. Però ho anche segnali in controtendenza. Due esempi: ho ascoltato dei sacerdoti fare delle splendide catechesi illustrando un’epigrafe scritta in latino; ci sono professori di teologia che spiegano i documenti del Vaticano II a partire dai testi in latino affascinando gli studenti. Perché il clero torni a possedere questo strumento di cultura e di fede, abbiamo un’opportunità straordinaria: gli anni del seminario. Se verrà preparata una nuova generazione di professori motivata, competente, capace di adottare metodi efficaci, i futuri sacerdoti saranno entusiasti del latino e in pochi anni la situazione si trasformerà. Monsignor Turek del resto è un nostro ex allievo!».
«Avvenire» del 14 luglio 2012

Szymborska e il comunismo: conti fatti con il passato


Poesia e storia
di Giovanna Tomassucci
Nelle ultime settimane sulla stampa italiana sembra essersi inaspettatamente aperto un nuovo "caso Szymborska". Non si tratta di uno strascico delle riflessioni sullo straordinario record di vendita registrato dalla poetessa polacca in Italia (anche grazie alla lettura dei suoi testi da parte di Roberto Saviano a "Che tempo che fa" dopo la sua morte, nel febbraio scorso), ma di un discorso sul trasformismo degli intellettuali. Prendendo spunto da note apparse recentemente su "Panorama" e "Il Giornale", Pierluigi Battista sul "Corriere della sera" l’ha chiamata in causa centrando su di lei un ampio articolo, dal titolo molto simile a quello di un suo libro del 2007: Cancellare le proprie tracce. In versi. La poetessa polacca sarebbe rea di aver nascosto le proprie poesie dedicate a Lenin e alla morte di Stalin.
Per motivare le accuse si citano due grandi scrittori dell’est che hanno riflettuto sulla complicità degli intellettuali con lo stalinismo: il ceco Milan Kundera e il poeta polacco Czeslaw Milosz, autore della Mente prigioniera, scritta nel ’51 e pubblicata in Italia da Adelphi. Si dimentica però che anche lo stesso Kundera ha scritto poesie staliniste e che il pamphlet di Milosz, composto in piena guerra fredda, non è privo di componenti autobiografiche e ritrae letterati ai vertici della Nomenklatura intellettuale stalinista: gli amici di un tempo che lo consideravano ormai un traditore. Non è il caso quindi estendere i suoi giudizi ai molti giovani intellettuali sostenitori dello stalinismo - la generazione della Szymborska, nata nel ’23 - che occupavano ruoli di scarso conto. Bisogna invece considerare che, dopo l’apocalisse della guerra, con la sua duplice occupazione tedesca e sovietica, dopo le due tragiche insurrezioni e il tradimento di Yalta, per molti di loro il mito di uno stato socialmente equo e dell’Urss-baluardo antifascista appariva l’unico antidoto alla disperazione e al nichilismo. Ne era cosciente lo stesso Milosz, che ha sempre distinto i singoli casi (e cause) e che ha fatto conoscere Szymborska dall’esilio americano, senza mai scrivere su di lei una sola parola di biasimo.
È inoltre ampiamente noto che la poetessa non ha occultato né la passata appartenenza al partito (fino al 1966) né tanto meno "sepolto" (come si è scritto) le raccolte poetiche del periodo stalinista, tuttora conservate in molte biblioteche polacche. «Appartenevo alla generazione che credeva. Io credevo. Quando ho smesso di credere ho smesso di scrivere quelle poesie», aveva dichiarato nel ’91. Esse sono citate dalle sue biografie (tra cui quella di Joanna Szczesna e Anna Bikont Cianfrusaglie di memorie. Amici e Sogni, che varrebbe la pena di tradurre!), dalle introduzioni del suo traduttore Pietro Marchesani, dal Web, in primis Wikipedia. Fin dal conferimento del Nobel, proprio a causa di quel suo passato, Szymborska è stata attaccata da molti in Polonia: quindi non ha senso parlare di rivelazioni che provocano "imbarazzo". L’Europa non è più divisa in due e non si può far finta di ignorare ciò che è già accaduto nei Paesi dell’ex blocco sovietico, tirando fuori dal cappello vecchie informazioni e contrabbandandole per nuove.
L’articolo di Battista afferma inoltre che per conoscere l’opera di uno scrittore è necessario averne presente l’intera produzione, compresa quella che potrebbe essere oggetto di censura e biasimo. Alla ricerca di simmetrie, si accosta Szymborska a Günter Grass, che per anni ha occultato la propria partecipazione giovanile a un reparto di Ss. Non pare quindi cogliere alcuna differenza tra una scelta politica (tenuta celata, nel caso di Grass) e la stesura di un testo letterario. I versi su Stalin e Lenin della poetessa sono ancora oggi consultabili anche in vari siti web e lei non si è mai sognata di censurarli, ha scelto solo - come era suo diritto - di non ripubblicarli… Essi sono anche oggettivamente retorici e brutti: secondo i suoi accusatori italiani avrebbe dovuto inserirli comunque nelle edizioni antologiche delle sue poesie?
Evidentemente chi mette Szymborska sul banco degli imputati non è particolarmente amante della poesia, perché parlando di una scrittrice schiva, che non amava pronunciarsi in dichiarazioni pubbliche, non ha creduto necessario sfogliare i suoi libri e ascoltare la sua stessa voce. Sarebbe bastato aprire una qualsiasi delle sue raccolte e leggere Riabilitazione, una poesia di oltre cinquant’anni fa (dal volume Appello allo Yeti, 1957, cito dall’edizione Adelphi, 2009 p. 63), che è una sofferta autocritica del suo coinvolgimento politico e morale sotto lo stalinismo, in particolare della sua partecipazione, insieme a decine di altri intellettuali, a una campagna di stampa contro alcuni sacerdoti polacchi, accusati di spionaggio in un processo farsa nel 1953: «È tempo di prendersi la testa fra le mani / e dirle: - Povero Yorick, dov’è la tua ignoranza, / la tua cieca fiducia, l’innocenza, il tuo "s’aggiusterà", l’equilibrio di spirito tra la verità verificata e quella no? / Li credevo indegni dei nomi / Poiché l’erbaccia irride i loro tumuli ignoti / E i corvi fanno il verso, e il nevischio schernisce / e invece, Yorick, erano falsi testimoni. / L’eternità dei morti dura / Finché con la memoria viene pagata. / Valuta instabile. Non passa ora / Che qualcuno non l’abbia perduta / Oggi in materia sono più colta / Essa può essere concessa e poi tolta / (…)».
«Avvenire» del 21 luglio 2012

La salvezza in una cifra

La Bibbia e la scienza dei numeri
di Gianfranco Ravasi
Anche chi non ha una grande assuefazione coi testi sacri sa che essi sono costellati di numeri che spesso non devono essere computati quantitativamente, ma valutati qualitativamente, cioè come simboli. Così, che la creazione dell’universo sia dalla Genesi distribuita nei sette giorni della settimana, destinata ad avere il suo apice nel sabato liturgico, è legato al fatto che il sette è un segno di pienezza e perfezione, naturalmente coi suoi multipli. In questa luce si comprende perché si scelgano nell’Apocalisse sette chiese, perché Gesù ci ammonisca di perdonare non solo sette volte, ma settanta volte sette, perché l’oro puro sia «raffinato sette volte», come si dice nel Salmo 12,7, perché settanta siano gli anziani del «senato» costituito da Mosè, settanta i discepoli inviati in missione da Gesù, settanta siano gli anni dell’esilio babilonese e settanta settimane d’anni scandiscano l’avvento finale del regno messianico, secondo il libro di Daniele (9, 24).
Ugualmente al tre viene assegnato un valore di pienezza, come appare in modo supremo nella Trinità cristiana, ma come si aveva già in tante altre distinzioni ternarie bibliche: tre erano le parti dell’universo (cielo, terra, inferi), tre le feste principali di Israele (Pasqua, Settimane, Capanne), tre preghiere marcavano la giornata, tre giorni Gesù rimane nella tomba (anche se questo computo è in realtà solo su frazioni giornaliere). Il quattro, evocando i punti cardinali, propone una totalità: ecco perché quattro sono gli esseri viventi misteriosi che stanno accanto a Dio Onnipotente secondo l’Apocalisse, così come i quattro fiumi che scorrono dall’Eden rappresentano tutto il sistema idrografico della terra, mentre Qohelet-Ecclesiaste nel capitolo 3 del suo libro tratteggia l’intera storia in ventotto (7 x 4) «tempi e momenti».
È dal quattro che fluisce il multiplo quaranta, intrecciato con un altro numero che indica pienezza, il dieci (si pensi al Decalogo): quaranta sono i giorni e le notti del diluvio, gli anni dell’esodo di Israele nel deserto, i giorni delle tentazioni di Gesù, i colpi della fustigazione del condannato e così via elencando. Altrettanto significativo è il dodici che ritroviamo nelle tribù di Israele, nel parallelo degli apostoli di Gesù e nel multiplo 144.000 (12 x 12 x 1000) degli eletti dell’Apocalisse. Altre volte i giochi simbolici si fanno più complessi, come accade nella formula x/x+1: «Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo verso una giovane donna» (Proverbi 30, 18-19).
Le cose si complicano ulteriormente nel giudaismo successivo, quando appare una particolare numerologia chiamata “gematria”, deformazione della parola “geometria”. Essa cercava di intuire il significato recondito e segreto delle parole basandosi sulla corrispondenza numerica delle lettere.
Questo esercizio trionferà nella cosiddetta Qabbalah (letteralmente “realtà trasmessa”, “tradizione”), una teoria mistica giudaica fiorita a partire dal XII secolo e che ha lasciato una traccia in vari movimenti esoterici moderni e in forme popolari, anche contemporanee, di taglio spesso cialtronesco e illusorio. Un esempio celebre di “gematria“ cristiana è il famoso 666, il «numero della Bestia», proposto dall’Apocalisse (13, 18), forse il libro biblico più ricco di simbolismi numerici (tra cardinali, ordinali e frazionali in quelle pagine si contano ben 283 cifre!). Si tratta ovviamente di un multiplo di sei, il numero imperfetto per eccellenza, dato che esso rappresenta il sette privato di un’unità e il dodici dimezzato. Siamo, dunque, in presenza di un concentrato di limite e imperfezione il cui valore “gematrico” è stato variamente interpretato. La più comune decifrazione vede in esso la somma dei valori numerici del nome “Nerone Cesare”, trascritto in ebraico come NRWN QSR (N 50 + R 200 + W 6 + N 50 + Q 100 + S 60 + R 200 = 666), il grande persecutore dei cristiani. Alla base di tutta la numerologia biblica rimane, comunque, la convinzione che il Signore – come si legge nel libro della Sapienza che forse evoca una frase di Platone – «ha disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso» (11, 20).

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1. L’unità Il numero 1 è la cifra della divinità per eccellenza: Dio è unico. «Ascolta, Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno» (Dt 6,4)

3. La totalità Il simbolo della Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo). Ma anche le tre tentazioni che Gesù subisce da parte del diavolo nel deserto e che indicano i principali rischi dell’uomo: potere, ricchezza, fama.

4. La terra e il cosmo I punti cardinali sono 4. Così, quando la Genesi (2, 10-14) descrive i 4 fiumi che bagnavano i lati dell’Eden, vuol dire che il cosmo nella sua totalità era un paradiso. Prima del peccato di Adamo ed Eva...

6. L’uomo e le opere Sette meno uno: è il numero che rappresenta la perfezione mancata, ma anche le opere dell’uomo: non per caso «Dio ha creato l’uomo il sesto giorno» (Gn 1,26)

7. La perfezione Sette è invece il numero che segnala la perfezione delle opere di Dio: la settimana della creazione come «cosa buona» si completa infatti solo col sabato. Anche nel libro di Giosuè le mura di Gerico crollano dopo una processione di 7 giorni.

10. La memoria 10 come le piaghe d’Egitto (Es 7-12), 10 come gli antenati che stanno fra Adamo e Noè e fra Noè e Abramo (Gn 5)... Soprattutto 10 come i comandamenti dati da Dio a Mosè (Es 20,1-17): da ricordare contandoli sulle dita delle mani.

12. L’elezione E' la cifra che sta a significare la scelta del Signore, il numero dell’elezione: le 12 tribù d’Israele, i 12 apostoli… Per estensione, è il numero che designa il popolo di Dio (dell’Antico e del Nuovo Testamento) nella sua totalità.

40. Il cuore, le generazioni Sono gli anni di una generazione e dunque il tempo necessario per un cambiamento, una conversione radicale. Per questo il Diluvio universale si prolunga 40 giorni e 40 notti (è il passaggio a un’umanità nuova) e gli israeliti soggiornano 40 anni nel deserto.
«Avvenire» del 23 luglio 2012

La legge promuove i diritti non appaga i desideri

Omosessuali: rispetto per la persona, no al matrimonio
di Mauro Cozzoli
Legata a diversi eventi di cronaca politica in questi giorni, torna a proporsi la questione omosessuale, centrata sul matrimonio gay, rivendicato come diritto. La questione, prima che giuridica, è antropologica e morale. È su queste basi – umane ed etiche – che essa va inquadrata, altrimenti anche il diritto diventa "liquido".
Invece un diritto per essere tale deve avere consistenza oggettiva, altrimenti non esiste e non c’è opinione prevalente o trend demoscopico o maggioranza parlamentare che possa legittimarlo. La consistenza oggettiva dei diritti è data da una fenomenologia della persona che ne rileva l’essere al mondo e le dinamiche relazionali, nella loro consistenza naturale prima che nelle loro trasposizioni culturali.
È su questa base epistemologica che la sapienza antropologica ed etica dell’umanità ha conosciuto e codificato un solo istituto matrimoniale, dato dall’unione piena, stabile e pubblica tra un uomo e una donna. Non attribuendo, per ciò stesso, dignità di matrimonio a unioni poligamiche, di mera convivenza e omosessuali. Con particolare riferimento a queste ultime, a contrassegnare il matrimonio sono due qualità che si implicano a vicenda: la complementarietà e la fecondità. Il matrimonio non è dato dalla somma degli uguali, ma dalla integrazione dei diversi, sulla base della dualità e reciprocità sessuale, costituita dal maschile e dal femminile. L’essere uomo e l’essere donna nell’amore coniugale non sono delle variabili ad libitum.
Sono fattori costitutivi ed essenziali: appartengono all’esse, senza i quali il matrimonio non c’è. Non c’è fictio iuris che possa cambiare le cose. Dall’unione, in totalità di donazione, del maschile e del femminile fluisce la complementarietà dei soggetti: l’uomo è la pienezza della donna e la donna dell’uomo. E da questa complementarietà consegue la fecondità del matrimonio, generatore della vita, procreatore dei figli.
L’unione omosessuale manca dell’una e dell’altra qualità. È un’unione sommatoria: manca della dualità e reciprocità sessuale. Perciò è e rimane sterile. Sterilità che nessun espediente procreatico riesce a rimediare o anche solo mascherare. Il ricorso a gameti estranei e uteri mercenari è un artificio surrogatorio e posticcio che mette a nudo la contraddizione ontologica. L’educazione dei figli, continuazione e prolungamento dell’atto procreativo, esige anch’essa la compresenza differenziale e complementare del padre e della madre, quale reale e autentico diritto del figlio. Azzerare questa ontologia, depotenziarne la forza normativa, è abbandonare il matrimonio e la famiglia alle volubilità dei desideri e delle aspettative soggettive, con cui sempre più spesso è fatto coincidere il diritto. È la cosiddetta emotivizzazione del diritto.
Malgrado questa deriva emotivistica, il matrimonio è e resta un bene in se stesso, con una grammatica e una semantica che obbligano al riconoscimento e al rispetto. Si è liberi di sposarsi o no. Ma se ci si sposa si assume uno status di vita che non è fatto dai soggetti. È fatto prima, dall’ordine della natura e, per il credente, dalla sapienza creatrice divina, che ne è al principio. Altrimenti si diventa demiurghi di tutto, artefici di diritti arbitrari, la cui propagazione non rende più liberi, ma libertari; non promuove diritti, ma appaga desideri.
Questa constatazione, nulla toglie alla dignità di persona dell’omosessuale e ai legittimi diritti individuali a essa legati. Alla persona omosessuale sono dovuti il rispetto, la tutela e l’accoglienza propri di ogni uomo e di ogni donna. Tanto più quanto la condizione omosessuale sia fatto oggetto, ancora oggi, di discriminazioni e discredito. Questa concezione e fondazione personalistica del diritto riflette l’insegnamento della Chiesa cattolica, che – come leggiamo nel Catechismo – distingue tra gli atti omosessuali ritenuti «intrinsecamente disordinati» e la persona omosessuale, da «accogliere» con rispetto e delicatezza.
«Avvenire» del 25 luglio 2012

17 luglio 2012

Reputazione digitale con il trucco

Quanto è reale il potere degli opinion leader nei social media? Tanti siti lo misurano, ma gli analisti accusano: «Poco efficaci»
di Maria Teresa Sette
Livello di influenza: 765 su 1.000; outreach (si potrebbe tradurre con «ampia capacità di interazione »): 7 su 10. Si legge ben in vista accanto a nome e qualifica sul biglietto da visita che Andrew Grill ci porge in chiusura del nostro incontro. Influence sta per l’abilità di ispirare azioni e outreach per la «generosità» nell’interazione. E a sentire l’amministratore delegato di Kred — una delle più note piattaforme per misurare la capacità di influenza sui social network — «quel punteggio avrà un impatto sulla tua vita, che tu lo voglia o no». Perché più alta è la cifra, più elevata sarà la possibilità di ricevere trattamenti vip, ottenere sconti in hotel, negozi, ristoranti, biglietti gratuiti ai concerti. Ma anche di trovare un lavoro. Benvenuti nell’era dell’influenza online: nuova ossessione della social media analytics, ambitissima frontiera delmarketing, nonché «prossimo promettente boom nel mercato delle applicazioni», avverte Grill.
Chi è il social media influencer? È l’opinion leader dell’era digitale. Consacrato da un algoritmo. Kred, Klout, PeerIndex, mBlast, TweetLevel sono soltanto tra i più popolari siti di calcolo di reputazione sui social media che stanno letteralmente inondando il web. Monitorando le singole mosse degli utenti su Twitter o Facebook, l’algoritmo assegna a ciascuno un voto. A chi va la cifra più alta? No, non all’eroe che democratizzerà l’ecosistema del marketing, né all’opinion leader del nuovo millennio da scovare, conquistare, premiare. Piuttosto, a un abile impostore. Proprio così, un astuto manipolatore, narcisista, capace certo di attirare l’attenzione, costruire un «culto di sé». Ma barando.
La stroncatura è falciante. E arriva direttamente da una comunità sempre più folta di critici che va da sociologi, psicologi, esperti di media emarketing, blogger e osservatori del web. Mentre esplode infatti l’interesse per l’influenza digitale, mentre sul web cresce e si fa concorrenziale l’offerta di servizi che si propongono come strumenti indispensabili per le aziende interessate a intercettare e monetizzare gli opinion leader di turno, la voce degli scettici si leva sempre più forte: reputazione non è sinonimo di capacità persuasiva, strillano all’unisono, e la misurazione dell’influenza sociale non può certo essere affidata artificialmente a un algoritmo, per altro facilmente manipolabile.
«Strumenti come Klout e Kred si basano su un modello a megafono», spiega a «la Lettura» Aleks Krotoski, psicologa sociale americana esperta delle dinamiche delle relazioni online, e tra le più ferventi critiche di questo sistema. «Chi più urla più attira l’attenzione e, secondo gli sviluppatori, l’attenzione si tradurrebbe in influenza. Ma chiunque può truccare un profilo online, creare il culto della propria personalità su un social network. Il punteggio più alto? Andrà a chi ha più tempo, soldi e capacità di manipolazione». Un’assurdità secondo la ricercatrice, che spiega come l’influenza sociale sia un processo ben più complesso: «È un fenomeno contestuale che sfrutta la competenza e la credibilità su un determinato ambito; è un meccanismo psicologico che poggia su una fiducia costruita sulla base di precedenti azioni e che proietta aspettative sul futuro; ed è poi un meccanismo di identificazione sociale: ci si fa influenzare di più da qualcuno che percepiamo a noi più simile».
Ottenere un retweet dunque non è abilità di persuasione. Facebook, Twitter e i vari social network, sostiene Krotoski, «spesso somigliano più a delle casse di risonanza (echo-chamber): luoghi chiusi e amplificatori delle nostre opinioni», le quali finiscono per avere un impatto su chi già si riconosce come parte del nostro gruppo di riferimento, ma non vanno oltre. «Provate a seguire su Twitter qualcuno che la pensa diversamente da voi», suggerisce ironicamente la ricercatrice, «e vediamo quanto resisterete prima di eliminarlo infastiditi».
La tesi è nota e supportata dalle ricerche più recenti nell’ambito della psicologia della comunicazione. «Non sempre la star di Hollywood solo perché popolare ha il potere di influenzare le nostre scelte», le fa eco il sociologo americano Grant Blank dal suo studio presso l’Internet institute dell’Università di Oxford. Democratizzazione dell’influenza? Niente di tutto ciò. «L’idea è romantica, mi piace molto. Ma questi sistemi non solo non faranno alcuna differenza ma non aggiungono niente di nuovo a quello che sapevamo già», ci va giù duro il professore. Klout, Kred e simili, ci spiega il sociologo, si basano su una metodologia nata prima dell’avvento di Internet e dei social media: «Una vecchia tesi degli anni 50, nota in letteratura come teoria del flusso a due fasi di comunicazione». Le informazioni, cioè, sono mediate dagli opinion leader prima di arrivare al pubblico di riferimento. «Ottima teoria, ma superata». Nessuna rivoluzione dunque, e nessuna rivincita del citizen influencer sulla celebrità: l’influenza online segue le stesse identiche dinamiche di quella offline. E tuttavia, concede il sociologo, questi servizi potrebbero rivelarsi interessanti per il marketing, sebbene sia ancora presto per capire come.
«Siamo davanti a una nuova era del passaparola: una miniera di opportunità per il marketing» conferma Brian Solis, autore di The rise of digital influence. Ma attenzione, sottolinea il social media analisyt di Altimeter Group: «Questi software non misurano affatto influenza, piuttosto capitale sociale». Le aziende, spiega a «la Lettura» l’analista americano, si stanno lanciando nella corsa per accaparrarsi gli influencer dei propri settori di riferimento, ma sarà un disastro se credono di poter trarre profitto da questo nuovo modello di marketing affidandosi acriticamente a un algoritmo». Sono servizi che hanno del potenziale, quindi, ma «il problema è che molti brand stanno scambiando un punteggio per capacità di persuasione. Influenza e leadership sono cose che vanno conquistate, esattamente come avviene nella vita reale», argomenta Solis.
Il dibattito è vivo insomma, e lo scenario tutto da esplorare per gli addetti ai lavori. Ma troppo precoce per prevedere con esattezza che profilo assumerà. Sebbene ci sia chi, come Andrew Grill, non ha dubbi: «Quel punteggio sarà presto una delle voci principali sui nostri cv, lo ritroveremo dappertutto. È prevedibile che sulla base di questo le aziende riorganizzeranno le loro strutture interne. A partire dai media, che posizioneranno i giornalisti con lo score più alto nelle prime pagine». Quanto ai critici, la risposta di Grill è netta. Crearsi a tavolino un profilo da influencer? «Sarà sempre più difficile con algoritmi trasparenti e via via più sofisticati che permetteranno a chiunque di distinguere tra un vero influente e un millantatore», commenta il Ceo di Kred a margine di un Meetup in un affollato pub londinese dove, di fronte a un pubblico di entusiasti internauti, ha appena concluso la sua presentazione. Titolo: «Come incrementare la tua influenza sui social media».
«Corriere della sera - Suppl. La lettura» di metà luglio 2012

Parole fuori moda: la vergogna

Siamo nell'era in cui la reputazione ha ceduto il passo alla notorietà. Vale a dire che tutti vogliono essere visti e conosciuti, a qualsiasi costo: anche per ragioni poco nobili. Ecco perché in treno il vicino urla al telefonino ...
di di Umberto Eco
Durante le serate organizzate da "la Repubblica" a Bologna, venerdì scorso, in un dialogo con Stefano Bartezzaghi mi è accaduto di intrattenermi sul concetto di reputazione. Un tempo la reputazione era soltanto o buona o cattiva, e quando si rischiava una cattiva reputazione (perché si faceva fallimento o perché ci dicevano cornuto) si arrivava a riscattarla col suicidio o col delitto d'onore. Naturalmente tutti aspiravano ad avere una buona reputazione. Ma da tempo il concetto di reputazione ha ceduto il posto a quello di notorietà. Conta essere "riconosciuto" dai propri simili, ma non nel senso del riconoscimento come stima o premio, bensì in quello più banale per cui, vedendoti per strada, gli altri possano dire "guarda, è proprio lui". Il valore predominante è diventato l'apparire, e il modo più sicuro è apparire in televisione. E non è necessario essere Rita Levi Montalcini o Mario Monti, basta confessare in una trasmissione strappalacrime che il coniuge ti ha tradito.
Il primo eroe dell'apparire è stato l'imbecille che andava a mettersi dietro agli intervistati e agitava la manina. Ciò gli consentiva di essere riconosciuto la sera dopo al bar ("Lo sai che ti ho visto in tv?"), ma certamente queste apparizioni duravano lo spazio di un mattino. Quindi gradatamente si è accettata l'idea che per apparire in modo costante ed evidente occorresse fare cose che un giorno avrebbero fruttato la cattiva reputazione. Non che non si aspiri anche alla buona reputazione, ma è faticoso conquistarla, dovresti aver compiuto un atto eroico, aver vinto se non il Nobel almeno lo Strega, aver passato la vita a curare i lebbrosi, e non sono cose alla portata di ogni mezza calzetta. Più facile diventare soggetto di interesse, meglio se morboso, se si è andati a letto per denaro con una persona famosa, o se si è stati accusati di peculato.
Non scherzo, e basta guardare l'aria fiera del concussore o del furbetto del quartierino quando appare nel telegiornale, magari il giorno dell'arresto: quei minuti di notorietà valgono il carcere, meglio se la prescrizione, ed ecco perché l'accusato sorride. Sono passati decenni da quando qualcuno ha avuto la vita distrutta perché lo hanno ripreso in manette. Insomma il principio è: "Se appare la Madonna perché non anch'io?". E si sorvola sul fatto di non essere una vergine.
Questo cose si stavano dicendo il venerdì 15 scorso, ed ecco che proprio il giorno dopo appariva su "Repubblica" un lungo articolo di Roberto Esposito ("La vergogna perduta"), dove si rifletteva anche sui libri di Gabriella Turnaturi ("Vergogna. Metamorfosi di un'emozione", Feltrinelli) e di Marco Belpoliti ("Senza vergogna, Guanda). Insomma il tema della perdita della vergogna è presente in varie riflessioni sul costume contemporaneo.
Ora, questa frenesia dell'apparire (e la notorietà a ogni costo, anche a prezzo di quello che un tempo era il marchio della vergogna) nasce dalla perdita della vergogna o si perde il senso della vergogna perché il valore dominante è l'apparire, anche a costo di svergognarsi? Propendo per la seconda tesi. L'essere visto, l'essere oggetto di discorso è valore talmente dominante che si è pronti a rinunciare a quello che un tempo si chiamava il pudore (o il sentimento geloso della propria privatezza). Esposito notava che è segno di mancanza di vergogna anche il parlare ad alta voce al telefonino sul treno, facendo sapere a tutti i propri fatti privati, quelli che un tempo si sussurravano all'orecchio. Non è che uno non si renda conto che gli altri lo sentono (sarebbe solo un maleducato), è che inconsciamente vuole farsi sentire, anche se i suoi fatti privati sono irrilevanti. Ma ahimé non tutti possono aver fatti privati rilevanti, come Amleto o Anna Karenina, e quindi basta essere riconosciuti come escort o come debitore moroso.
Leggo che non so quale movimento ecclesiale vuole ritornare alla confessione pubblica. Eh già, che gusto c'è a depositare le proprie vergogne solo nell'orecchio del confessore?
«L'Espresso» del 26 giugno 2012

Politica e Web: è rivoluzione

Quella che stiamo vivendo non è una crisi passeggera dei partiti. E' un cambiamento epocale. Perché siamo entrati nell'era in cui i cittadini non possono più venire ignorati tra un turno elettorale e l'altro. Grazie alla Rete
di Michele Ainis
Ci avete fatto caso? Da un giorno all'altro la politica è sparita dalla scena. La discussione è tutta sui politici: quanto siano onesti, come possiamo dimezzarne il numero, e perché poi guadagnano come Paperone, perché i più giovani restano sempre fuori dalla porta. Loro, i vecchi, reagiscono con l'istinto del camaleonte, promettendo tagli, e ovviamente primarie a tutto spiano. Sui contenuti, sui programmi, nemmeno una parola; o altrimenti parole vuote, logore come un vestito troppo usato. Ma invece è questa la novità che si staglia all'orizzonte: nei prossimi anni il programma di governo lo scriveranno i cittadini. Su un'agenda elettronica, anziché su un foglio di quaderno. E vincerà chi saprà utilizzare al meglio la potenza della Rete.
Il successo elettorale del MoVimento 5 Stelle è tutto in questi termini. Non solo facce fresche: soprattutto un link aperto sulle istanze delle comunità locali, fino ad annullare la separazione fra società politica e società civile. Si chiama democrazia digitale, definizione coniata fin dagli anni Ottanta. Ma negli ultimi tempi le esperienze si moltiplicano, insieme ai suoi protagonisti. Per esempio "Se non ora quando?", la manifestazione delle donne convocata con un tam tam su Internet, che il 13 febbraio 2011 ha riempito le piazze con un milione di persone. E all'estero, la primavera araba. Il movimento Occupy Wall Street. Gli Indignados in Spagna. La rete dei dissidenti in Russia. La campagna elettorale di Obama, che dal Web attinge a piene mani. O i Piraten in Germania: a maggio hanno toccato l'8 per cento alle elezioni, con un manifesto che propone di attivare il sistema politico in open source.
I nostri leader politici si tengono alla larga dai fermenti della Rete. Pensano che basti esporre la fronte corrucciata del Gran Capo sul sito del partito. O magari credono d'essere à la page postando una fotografia su Twitter, come ha fatto Casini durante il vertice di marzo con Monti, Alfano e Bersani. Probabilmente nessuno gli ha spiegato che i primi esperimenti di democrazia digitale si consumarono a Santa Monica nel lontano 1989. Che nel '94, ad Amsterdam, è nata la prima città digitale, con una rete civica consultata 130 mila volte in occasione delle amministrative. Che da allora in poi le applicazioni sono state innumerevoli, come d'altronde le esperienze di democrazia diretta, figlia legittima di quella digitale: le consensus conference, i town meeting del New England, le assemblee pubbliche che governano l'85 per cento delle municipalità svizzere, il Dialogo con la Città di Perth (Australia), le giurie civiche a Berlino. Non sanno che il voto elettronico si va diffondendo in tutto il mondo, come ha documentato "l'Espresso" la scorsa settimana: in Estonia, per esempio, un cittadino su quattro vota su Internet. Infine non conoscono strumenti come il voto cumulativo, in uso nella municipalità di Amburgo, e rilanciato per l'appunto dai Piraten: un sistema elettorale in cui ciascuno ha una pluralità di voti che può concentrare su un unico cognome oppure distribuire fra vari candidati. Scegliendo, insieme al partito, l'alleanza di governo.
Ma l'arma totale della nuova democrazia che avanza in Rete è il referendum: rapido, continuo, senza formalità procedurali né limiti d'oggetto. Se n'è accorto perfino un governo algido come quello in carica, con la consultazione on line sul valore legale della laurea o con l'impegno a sottoporre ai cittadini i nuovi progetti d'infrastrutture nazionali, dopo gli scontri in Val di Susa sulla Tav. Il modello è la legge Barnier, vigente in Francia dal 1995. Tuttavia i modelli in circolo sono almeno tre: la teledemocrazia, caldeggiata già da Clinton; le comunità virtuali, che s'aggregano in Rete; la democrazia elettronica deliberativa, dove ogni decisione è preceduta da un'ampia discussione. Hanno in comune l'ambizione di sfatare la celebre sentenza di Rousseau: lui diceva che ogni elettore è libero durante le elezioni e per il resto della vita torna schiavo. E in conclusione negano il ruolo dei partiti, o meglio li trasformano in luoghi di raccolta delle proposte soggette a referendum. Un terremoto.
«L'Espresso» del 14 giugno 2012

Stupido, metti via quel telefonino

Filmare o fotografare, per poi magari caricare il tutto in Rete. Ormai molte persone non pensano ad altro quando assistono a un evento. E così rinunciano a capire che cosa sta succedendo davvero davanti ai loro occhi
di Umberto Eco
Qualche tempo fa, all'Accademia di Spagna di Roma, stavo tentando di parlare, ma una signora mi sbatteva in faccia una luce accecante (per poter azionare bene la sua telecamera) e mi impediva di leggere i miei appunti. Ho reagito in modo molto risentito dicendo (come mi accade di dire a fotografi indelicati) che quando lavoro io devono smettere di lavorare loro, per via della divisione del lavoro; e la signora ha spento, ma con l'aria di aver subito un sopruso. Proprio la settimana scorsa, a San Leo, mentre si lanciava una bellissima iniziativa del Comune per la riscoperta dei paesaggi montefeltrani che appaiono nei dipinti di Piero della Francesca, tre individui mi stavano accecando con dei flash, e ho dovuto richiamarli alle regole della buona educazione. Si noti che in entrambi i casi gli accecatori non erano gente da Grande Fratello, ma presumibilmente persone colte che venivano volontariamente a seguire discorsi di un certo impegno. Tuttavia evidentemente la sindrome dell'occhio elettronico li aveva fatti discendere dal livello umano a cui forse aspiravano: praticamente disinteressati a quel che si diceva, volevano solo registrare l'evento, magari per metterlo su YouTube. Avevano rinunciato a capire che cosa si stesse dicendo per far memorizzare al loro telefonino quello che avrebbero potuto vedere con i loro occhi.
Questo presenzialismo di un occhio meccanico a scapito del cervello sembra dunque aver mentalmente alterato anche persone altrimenti civili. Che saranno uscite dall'evento, a cui avevano presenziato, con qualche immagine (e sarebbero stati giustificati se io fossi stato una spogliarellista) ma senza nessuna idea di ciò a cui avevano assistito. E se, come immagino, vanno per il mondo fotografando tutto ciò che vedono, sono evidentemente condannati a dimenticare il giorno dopo quello che hanno registrato il giorno prima. Ho raccontato in varie occasioni come abbia smesso di far fotografie nel 1960, dopo un giro per le cattedrali francesi, fotografando come un pazzo. Al ritorno mi ero ritrovato con una serie di foto modestissime e non ricordavo che cosa avessi visto. Ho buttato via la macchina fotografica e nei miei viaggi successivi ho registrato solo mentalmente quello che vedevo. A futura memoria, più per gli altri che per me, comperavo ottime cartoline.
Una volta, avevo undici anni, sono stato attirato da insoliti clamori sulla circonvallazione della città dove ero sfollato. A distanza ho visto: un camion aveva urtato un calesse guidato da un contadino con la moglie accanto, la donna era stata scaraventata a terra, le si era spaccata la testa e giaceva in mezzo a una distesa di sangue e sostanza cerebrale (nel mio ricordo ancora orripilato era come se avessero spiaccicato una torta di panna e fragole) mentre il marito la teneva stretta ululando di disperazione. Non mi ero avvicinato più di tanto, terrorizzato: non solo era la prima volta che vedevo un cervello spalmato sull'asfalto (e per fortuna è stata anche l'ultima) ma era la prima volta che mi trovavo di fronte alla Morte. E al Dolore, alla Disperazione. Cosa sarebbe accaduto se avessi avuto, come accade oggi a ogni ragazzino, il telefonino con telecamera incorporata? Forse avrei registrato, per mostrare agli amici che io c'ero, e poi avrei messo il mio capitale visivo su YouTube, per deliziare altri adepti della "schadenfreude", ovvero della delizia che si prova per le disgrazie altrui. E poi chissà, continuando a registrare altre disgrazie, al male altrui sarei diventato indifferente. Invece ho conservato tutto nella mia memoria, e quella immagine, a settant'anni di distanza, continua a ossessionarmi e a educarmi, sì, a farmi partecipe non indifferente del dolore degli altri. Non so se i ragazzi di oggi avranno ancora queste possibilità di diventare adulti. Gli adulti, con gli occhi incollati al loro telefonino, sono perduti ormai per sempre.
«L'Espresso» del 10 luglio 2012

'Perché io, filosofo, odio il Web'

«La Rete ci sta riportando alla prima fase dell'intelligenza umana, quella legata alla visione e al racconto orale, che fu superata dalla scrittura». La provocazione di Raffaele Simone, docente di linguistica e saggista
di Stefania Rossini
E' nel vagone affollato di un treno ad alta velocità che si coglie l'immagine plastica di quanto i nuovi media abbiano cambiato l'uomo contemporaneo: "Tutti i viaggiatori, nessuno escluso, armeggiano da ore col telefonino, senza interruzione. Strusciano il dito sullo schermo, premono tasti, fanno chiamate, provano e riprovano numeri che non hanno risposto, aprono e chiudono il coperchio, ogni tanto tirano fuori il telefonino e gli gettano uno sguardo, come per assicurarsi che dal piccolo schermo non sia uscito qualcosa di cui non si sono accorti". La scena non cambia allungando lo sguardo nel corridoio dove, "salvo quelli che dormono, tutti sono presi da operazioni somiglianti: parlare e ascoltare servendosi di un qualche apparecchio, digitare numeri, far scorrere sullo schermo immagini, guardare film" .
La piccola bolgia di condannati a una coazione informatica che non ammette soste è l'espediente narrativo con il quale Raffaele Simone afferra il lettore nelle prime pagine del suo bel saggio "Presi nella rete. La mente ai tempi del web" uscito poco fa da Garzanti. Ma chi vuole continuare a leggere per scoprire che cosa sta accadendo alla nostra mente e a quella dei contemporanei, dovrà fare lo sforzo di riconvertire la propria intelligenza all'antica capacità "sequenziale". Dovrà cioè usare quella intelligenza lineare e alfabetica che rispetta il tempo, ha un prima e un dopo, e ci permette di mettere in fila parole e concetti. Dovrà quindi sospendere la nuova intelligenza "simultanea", vale a dire l'attitudine a cogliere gli eventi disparati che avvengono contemporaneamente su un qualche schermo.
Già con questi pochi accenni, Simone, docente di Linguistica all'Università di Roma, saggista prolifico e anche autore di un romanzo sugli ultimi giorni di vita di Cartesio ("Le passioni dell'anima"), mette qualche allarme. Chi di noi non si sente, almeno in parte, un mutante verso la simultaneità; chi ogni tanto non abbandona la "fatica di leggere" per la "facilità di guardare"; chi non non si fa accompagnare dai suoi tanti o pochi schermi? Ma se pure volessimo tirarci fuori e tenerci stretta la nostra vecchia intelligenza, Simone non ci dà vie di scampo: "Siamo immersi in una specie di arretramento collettivo alla prima fase dell'intelligenza dell'uomo, quella legata alla visione e al racconto orale, che fu superata dall'avvento della scrittura", spiega e aggancia la sua analisi all'evoluzione umana: "Già Platone, che considerava il discorso scritto il "figlio bastardo" di quello parlato, intuì gli effetti che alcuni media possono avere sulla mente, mentre secoli dopo nessun contemporaneo si occupò di indagare le conseguenze mentali dell'invenzione della stampa. Oggi, che siamo pienamente nella Terza Fase, è necessario fare i conti con il nuovo orizzonte in cui è entrata la nostra mente e, soprattutto, quella dei nostri figli".
Un primo conto Simone lo fa introducendo il concetto di "esattamento", termine tratto dalla biologia per indicare il processo in cui sono gli organi a creare la funzione (nascono le ali con le quali più tardi l'uccello scoprirà il volo), che è poi il contrario dell'"adattamento" dove, come è noto, è la funzione che crea l'organo. Ebbene, l'avvento della tecnologia e dell'informatica ha dato luogo "a un gigantesco esattamento della specie". Il compito di capire in quale profondità dell'uomo si nascondeva l'incessante bisogno di comunicare che ci ha colpito tutti, viene lasciato da Simone agli psicologi, ma la fotografia del presente è netta: si è sviluppato un atteggiamento compulsivo verso i media che ha modificato i nostri comportamenti e, appunto, la nostra mente verso una semplificazione e un'approssimazione tutta visiva.
Stiamo insomma diventando più stupidi? Anche se apre il libro proprio con questa domanda volutamente retorica, Simone non vuole emettere condanne definitive e sposta l'accento sulle sorti della conoscenza. E qui le cose vanno piuttosto male: la perdita dell'esperienza interiore del tempo e dello spazio indotta dai nuovi media ha già fatto i suoi guasti e cambiato in profondità il modo di formarsi della conoscenza. "In quarant'anni di insegnamento", dice a "l'Espresso", "ho potuto osservare un campione di circa 6 mila studenti. Negli ultimi vent'anni ho calcolato una diminuzione cognitiva di un gradino all'anno. Va scemando quella che si chiamava "cultura generale". Le conoscenze sono "irrelate", cioè composte di tanti frammenti, che chiamerei straccetti, di fonti varie e incongrue. Possono provenire da un testo importante, da un film o da un brano di dubbia qualità pescato in Internet".
«L'Espresso» del 5 luglio 2012

Chiediamo all'infinito

Il vuoto (la vacanza) è lo stampo di Dio
di Alessandro D'Avenia
Leggevo in questi giorni uno spietato romanzo sulla vita di un rapinatore e assassino degli anni 50, ambientato nei bassofondi di Los Angeles. Dopo aver messo a segno un colpo da mezzo milione di dollari, si ritrova in una casa con vista sul mare a godersi il bottino: «Quando sono arrivato quaggiù è stato come arrivare alla fine dell’arcobaleno, nel luogo baciato dal sole che appartiene ai sogni di tutti. Era tutto quello che desideravo dalla vita: semplicità, una spiaggia, la pace. Ma la pace si è trasformata in noia e solitudine». Giorno dopo giorno la noia lo assale, lo divora da dentro. Non basta mezzo milione di dollari da spendere in divertimenti a trovar pace. Ha bisogno di riempire il vuoto e allora, pur sapendo di rischiare la cattura dal momento che è un super-ricercato, comincia a preparare un altro colpo.
Ci si può annoiare anche in vacanza, e siamo disposti persino a scegliere il rischio pur di lenire il vuoto profondo che ci afferra.
Il vuoto. Non credo che in altre epoche della storia sia stato concesso il privilegio di sentire la morsa disperante del non senso, come nella nostra o almeno nella forma cristallina che ha raggiunto oggi.
C’è stata un’epoca in cui gli uomini sapevano di essere finiti, dentro l’infinito di Dio, e per questo interpretavano ogni cosa finita come segno dell’infinito. Venne poi un’epoca in cui il finito si rese autonomo dall’infinito ed esplorò tutti gli angoli della sua finitezza, scoprendo cose che prima non sospettava.
Si sentì più solo, ma sapeva di essere sorvegliato dall’infinito, così si rassicurava anche se cominciava ad averne paura. Venne poi un tempo, il nostro, in cui il finito non volle essere più rassicurato né impaurito, accantonò l’infinito e si rese del tutto autonomo, tanto da diventare infinito o credere di esserlo. Il prezzo pagato fu che insieme alla sua raggiunta infinitezza sperimentò l’infinitezza del suo limite: emerse il vuoto in forma nitida, come uno stampo svuotato, perfettamente pulito, ma privo della sua sostanza.
Si decise allora di riempirlo dell’ottimismo delle "cose da fare" per scacciare quel vuoto, ma nessuna coincideva con lo stampo e le troppe cose si rivelarono ingombranti, e si rompevano pure. Nacque così la vacanza: per svuotare di nuovo lo stampo dalle cose di cui lo si era riempito, e tornò la violenta evidenza del vuoto e si desiderò tornare al pieno di cose da fare, pur di non sentire con tale forza l’assenza perturbante. E si cominciò a pendolare, inquieti. Riempi e svuota.
L’assenza di infinito ci costringe a rendere infinito tutto: lavoro e vacanza. Andiamo in vacanza come uno che spegne il computer quando è andato in tilt, perché il lavoro è solo schiavitù funzionale a guadagnarsi la vacanza. Trattiamo l’anima come un interruttore: on/off. E non troviamo pace.
Cesare Pavese in alcune delle sue poesie più belle di Lavorare stanca dipinge questo tedio che ci sorprende all’alba o alla sera: «Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta / il gran vuoto ch’è sotto le stelle... / L’uomo, stanco di attesa, / leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla... / Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla accadrà... / Vale la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci?».
Attendiamo la vacanza come se potesse risolvere il nostro infinito desiderio di felicità, minacciato dalla schiavitù del lavoro, ma la vacanza, impietosa, ci mostra il vuoto che abbiamo coperto con i troppi impegni feriali. Così l’attesa si fa ancora più dolorosa e delusa e le stelle in cui avevamo sperato non ci ascoltano. Cerchiamo la compagnia in spiagge affollate e locali rumorosi, che pochi giorni prima fuggivamo. Cerchiamo divertimenti ancora più impegnativi di un lavoro che avevamo vissuto come alibi al vuoto. E non troviamo pace, perché l’anima non è un interruttore e il corpo la sua lampadina che prima o poi si fulmina, ma un’unità che ha pace solo quando è unità.
Per questo credo che, suo malgrado, l’uomo di quest’epoca, guardando lo stampo mal riempito o vuoto, potrà più facilmente chiedere all’infinito di tornare. L’infinito lo ascolterebbe e si riverserebbe subito dentro di lui, come una grazia, colmandone di pace ogni angolo. Il tedio non è da disprezzare: altro non è che la percezione dell’assenza dell’immagine che siamo. L’immagine del Dio fatto carne.
«Avvenire» del 16 luglio 2012

Parto anonimo, una scelta per la vita

No all'aborto
di Graziella Melina
Da una parte la gioia di aver messo al mondo un bimbo. Dall’altra il dramma di doverlo lasciare nelle mani di chi potrà prendersene cura. Non sono affatto semplici le storie delle donne che scelgono di portare avanti la gravidanza, nonostante tutto. Come ha fatto la mamma di Mario, il piccolino lasciato pochi giorni fa nella culla della vita della clinica Mangiagalli di Milano, nella speranza che sia accudito e amato da qualcun altro.
E come fanno centinaia di mamme che a far nascere il proprio bimbo non vogliono per nulla rinunciare: la Società italiana di neonatologia (Sin) ha stimato che sono circa 400 i bimbi non riconosciuti dalle mamme biologiche ogni anno.
In Italia infatti è possibile “lasciare” i propri figli negli ospedali subito dopo la nascita, mantenendo l’anonimato. La legge lo consente. Ma purtroppo non tutti lo sanno. In realtà, non esiste un registro nazionale dei parti anonimi. I dati disponibili sono purtroppo parcellizzati, e riferiti a specifiche realtà locali. C’è sicuramente «un problema di disinformazione – specifica il presidente della Sin, Paolo Giliberti – fermo restando che la politica sociale dovrebbe consentire alle madri di sostenere il proprio figlio. L’infanzia in Italia è la grande sgradita. Non interessa».
Ma soprattutto, o meglio prima di tutto, c’è un problema culturale: di fronte alle difficoltà delle donne, ormai si dà per scontato che esista soltanto la via dell’aborto. In questo modo, sottolinea Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita italiano «il figlio viene cancellato mentalmente. Prima ancora che fisicamente. Viene dimenticato, ogni ricordo è censurato». Tanto è vero che molte mamme che scelgono l’interruzione volontaria della gravidanza neanche considerano l’idea di far nascere il bimbo per poi farlo adottare. Quando invece «una mamma che affida il figlio ad altre mani – ricorda Casini – non cessa di essere mamma».
D’altro canto, la possibilità di far adottare il proprio bimbo spesso non viene neanche prospettata. Secondo uno studio del consorzio Preferire la vita, in collaborazione con la Fondazione Università Iulm e pubblicato ad agosto dell’anno scorso, «l’unica forma di comunicazione ricordata dalle mamme sono gli opuscoli informativi su allattamento e corsi preparto trovati al consultorio». Niente che riguardi la possibilità di un parto anonimo. Nessuna informazione spesso neanche da parte degli operatori sociali, che preferiscono non “intromettersi” nelle scelte delle donne.
Eppure «se le mamme sanno che c’è un’alternativa all’aborto – assicura Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli –, il figlio preferiscono farlo nascere», seppure rinuncino a crescerlo. «Omologare le persone che scelgono l’anonimato è sbagliato – prosegue Noia –. L’atto in sé colpisce situazioni di fragilità forte, persone depresse, oggetto di violenza», ma pur nella diversità di storie e convinzioni, tutte riconoscono però «il bene prezioso della vita».
E non è una questione di fede. Spesso infatti si tratta di donne straniere, non cattoliche. Costrette magari dalla stessa famiglia di origine o da situazioni economiche difficili a non tenere il proprio bimbo. «Una madre che si è rivolta a me ha avuto l’onestà di dire che non poteva farcela – racconta Maria Teresa Ceni, presidente del Centro di aiuto alla vita di Abbiategrasso e Magenta (Milano) –. Siamo di fronte ad una situazione molto dolorosa per la mamma.
Che però ha dato al figlio il dono della vita». «Accogliere il bambino non è un valore cattolico – rimarca poi Antonella Diegoli, presidente di Federvita dell’Emilia Romagna –, ma una sensibilità che hanno tutte le donne». Che però andrebbero sostenute di fronte a una maternità che non sanno come portare avanti. E che in molti casi, alla fine, decidono di accogliere.
«Avvenire» del 17 luglio 2012

Avarizia: avere, troppo avere questo è il problema

Vizi capitali (7)
di Renato Boccardo
Si conclude oggi al Festival di Spoleto (ore 17, chiesa di San Domenico) il ciclo di prediche sui 7 vizi capitali. Pubblichiamo qui stralci dell’omelia di Renato Boccardo, arcivescovo di Spoleto, sull’«Avarizia». Sul sito «www.avvenire.it» il testo integrale di tutte le prediche.

Un giovane desidera entrare in monastero. Il maestro dei novizi lo interroga per sapere se è veramente deciso ad abbandonare il mondo: «Se tu avessi tre monete d’oro le daresti ai poveri?». Di tutto cuore, padre. «E se avessi tre monete d’argento?» Ben volentieri. «E se avessi tre monete di rame?» No, padre. «E perché?», domanda il monaco stupefatto. «Perché le ho!». Possedere è legittimo. Il problema inizia quando il denaro e i beni posseggono noi. O ci ossessionano.
La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro infatti sfida Dio, giacché ne occupa il posto: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24), dice Gesù. Se noi fossimo davvero liberi nei confronti del danaro, ci risulterebbe così difficile pagare le imposte o le contravvenzioni? Come l’orgoglioso, il lussurioso ed il goloso, anche l’avaro è definito peccatore e vizioso non perché ama un qualche bene di questo mondo, ma perché il suo amore per questo bene è smisurato. Massimo il Confessore spiega che il peccato inizia non con il possesso del denaro, ma con il suo «cattivo uso», quando cioè il danaro cessa di essere un mezzo e diventa un fine. «Io sono ciò che ho», ripete di sé l’avaro, e pone nell’avere la radice del suo essere.
Di ogni realtà egli cerca il dominio esclusivo, economicamente quantificabile, e non un gioioso godimento. Esistono due specie di avarizia: materiale e spirituale. Louis de Funès, il grande comico francese, non pagava mai il taxi in moneta ma con un assegno. «Aveva infatti notato – racconta il commediografo Pierre Ricard – che i tassisti invece di riscuotere gli assegni preferivano conservarli per mostrarli ai colleghi: Hai visto? È un assegno di de Funès. Risultato: Louis risparmiava denaro». Ciò che è vero per il denaro vale anche per ogni altro genere di beni: mobili, macchine, abiti, scarpe, francobolli, vecchi libri... li si accumula e li si ricerca in maniera sfrenata, come se potessero appagare la sete che ci divora.
Alla base di tutto ciò, come radice, troviamo l’amore per il danaro, senza il quale nessuno di questi beni sarebbe accessibile. I Padri della Chiesa distinguono tre momenti in questa avarizia materiale: l’attaccamento del cuore al danaro, cioè l’avarizia in senso proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la cupidigia o l’avidità; l’ostinazione nel possesso, cioè l’assenza di generosità. La possessività non si riferisce solo al denaro. Essa si può riferire anche al tempo. Balzac diceva del padre di Eugénie Grandet che «sembrava economizzare tutto, anche il movimento».
Al contrario, santa Teresa di Gesù Bambino offriva a Dio il tempo delle sue giornate perché ne potesse disporre a suo piacimento. La vita associativa e la vita politica conoscono personaggi che non arrivano mai a «staccare la spina» e a lasciare spazio ai più giovani. Nell’ambito del volontariato civile ed ecclesiale succede spesso di incontrare persone molto generose che diventano come «proprietarie» delle loro responsabilità e si attaccano gelosamente al loro servizio e ai loro piccoli poteri come l’edera si abbarbica al muro. «Ci sono dei volontari – mi diceva un prete – che danno veramente tutto, salvo le dimissioni».
Una tale possessività genera confusione, irritazione ed impazienza. San Francesco d’Assisi la denunciava frequentemente. San Giovanni della Croce sapeva riconoscere nei fedeli i segni di cupidigia spirituale: evoca, per esempio, quelli che sono «insaziabili di libri che trattano di spiritualità». E precisa: «Ciò che rimprovero è l’attaccamento del cuore, l’importanza attribuita alla fattura o al numero e alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie alla povertà di spirito». Il peccato rende ciechi. E l’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che non si confessava il peccato di avarizia: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore.
Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una solida posizione. Non si possiede mai abbastanza; si trova sempre un motivo per avere di più». Il denaro si riferisce alla nostra relazione alla sicurezza, che è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Dopo aver tentato diverse spiegazioni, nessuna delle quali però appare sufficiente – sete di potenza, volontà di accedere a una condizione di super-rispettabilità dovuta al volume del conto in banca, riflesso che tenta di sostituire con il denaro qualità o nobiltà umane di cui ci si riconosce carente – gli antropologi hanno dimostrato che è finalmente alla paura della morte che tenta di rispondere l’ossessione della fortuna economica. Risparmio maniacale, accumulo di beni: quali sintomi migliori per rivelare una oscura paura del domani, cioè della morte? Il taccagno non ripone la sua fiducia in Dio ma nei suoi averi, non dorme tra due guanciali ma sul suo denaro, è inquieto e ansioso in permanenza. «Il ricco, anche quando non subisce alcuna perdita, teme di subirne», spiega ancora san Giovanni Cristostomo, e aggiunge che una volta raggiunta la ricchezza permane «la preoccupazione di conservare tutto quanto si è acquisito con tanta fatica».
San Francesco d’Assisi temeva talmente la «febbre dell’oro» da proibire ai suoi frati di toccare anche la più piccola moneta. Perché, a forza di suscitare preoccupazione, il denaro accaparra lo spirito. E prima o poi giunge ad occupare insidiosamente il primo posto; ciò che è proprio dell’idolo. Figlie dell’avarizia sono, secondo san Gregorio Magno, l’insensibilità del cuore, come avviene per il ricco del vangelo, indifferente al povero Lazzaro che geme alla sua porta (cf Lc 16, 19-30); l’inquietudine nel possesso; la violenza nell’appropriazione (quante famiglie unite si sbranano al momento dell’eredità?); il furto e anche il tradimento. Senza parlare della tristezza. Giovanni Verga racconta nel suo Mastro don Gesualdo che quando il protagonista si accorge di essere malato decide di dare un ultimo saluto alle sue amate proprietà: «Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». L’avarizia è un fardello che appesantisce il cuore, ritarda la conversione, il cambiamento di vita, impedisce l’adesione a Dio. Al di là della sfera personale, infine, la cupidigia produce anche effetti devastanti su scala sociale: in Brasile, l’80% delle terre appartiene a meno del 10% della popolazione; le ricchezze di numerosi Paesi africani sono saccheggiate da qualche despota; quanti siti naturali nel mondo sono violati e danneggiati per procurarsi guadagni immediati?

Il decalogo: 10 regole contro la taccagneria
1. Non sottovalutare questo vizio
«Nessuno consideri l’avarizia come malattia di poca importanza – raccomanda Giovanni Cassiano –. Chiunque abbia ceduto anche una sola volta non può non essere presto infiammato da un desiderio più violento».
2. Ricordarsi l’origine dei beni
Il denaro e la proprietà non vengono da noi e non sono per noi. Certo, si devono al nostro lavoro ma, in ultima analisi, vengono da Dio.
3. Ricordarsi il fine dei beni
Il denaro ed i beni non sono destinati unicamente a colui che li ha guadagnati.
4. Praticare la sobrietà
Felice colui che si accontenta di quello che ha. È importante sapere anche mettere un freno alla cupidigia onorando il riposo di cui abbiamo bisogno, specialmente quello domenicale.
5. Esercitare la fiducia
Dietro al bisogno di sicurezza si nasconde spesso una non confessata mancanza di fiducia, quasi una disperazione nella Provvidenza. L’accumulare fortuna è una sicurezza illusoria.
6. Praticare la generosità
Imparare a donare gratuitamente, senza indugio e senza restrizione.
7. Ricordarsi dei poveri
San Basilio scriveva: «Sotterrando il tuo oro, tu in realtà hai sotterrato il tuo cuore .Sì, tu sei povero, non possiedi alcun bene: sei povero d’amore, povero di bontà, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna».
8. Essere concreto nel dono
Perché ad inizio anno non fare una valutazione dei propri beni: ciò che non è servito durante un anno o più (abiti, utensili, mobili, veicoli) è veramente utile?
9. Rovesciare le prospettive
Invece di promettere: «Farò beneficienza quando mi sarò assicurato il necessario» (ciò che non si farà mai), dire: «Riservo tale percentuale del mio budget per il Signore e per chi è meno fortunato di me».
10. Meditare sulla croce
La Passione è la più grande forma di povertà e di distacco. La contemplazione della Croce ci guarisce da un attaccamento smisurato ai beni terreni e ci salva dalle cupidigie sbagliate.
«Avvenire» del 16 luglio 2012

Buon compleanno, blog

Blog, da 15 anni voce del web ma coi social è un'altra storia
di Silvio Gulizia
Il 18 luglio del 1997 il primo strumento per "bloggare". Un fenomeno che ha cambiato il modo di fare informazione su internet ma che è stato stravolto dal successo di Facebook e Twitter. Ecco la sua breve ma intensa storia
Il 18 luglio 1997 lo sviluppatore statunitense Dave Winer 1 annunciava il primo strumento per "bloggare", come si sarebbe poi detto. A 15 anni dalla nascita del primo sistema per raccogliere link e pensieri e presentarli dall'ultimo al primo ci sono oggi oltre 181 milioni di blog, secondo l'ultimo studio di NM Incite 2 (gruppo Nielsen). Il 63% degli internauti italiani ha un blog. Uno su dieci ci scrive tutti i giorni, mentre il 43% almeno una volta al mese (dati Mediascope IAB Europe 3).
Il Frontier, questo il nome che Winer dette al suo tool, era un archetipo delle piattaforme di cura dei contenuti poi divenute comuni. Fra queste c'è stata pure Splinder, che in Italia raggiunse i 600mila utenti prima di iniziare il declino schiacciata dall'arrivo nel nostro Paese di Wordpress (2005) e Blogger (2006) e dall'apertura a tutti di Facebook (2007), con il conseguente boom dei social network (2008) che ha stravolto il modo di bloggare.
In questi 15 anni i blog sono decisamente cambiati. E pure molto. Il 18 luglio 1997 in realtà è una data arbitraria. C'è chi sostiene di aver iniziato a scrivere blog prima, come Justin Hall che afferma di aver cominciato links.net 4 nel 1994. Siccome fu sempre Winer a inventare gli Rss, che dal 2000 permisero di seguire facilmente un blog, ed è in parte a lui che si deve la nascita del podcasting (una specie di audio-blog), la ricorrenza sembra fatta apposta per ricordarci come i blog siano cambiati e nel tempo abbiano cambiato il nostro modo di comunicare.
Il termine blog fu usato per la prima volta nel 1999 da Peter Merholz che sul proprio Peterme 5 scrisse: "Per quello che conta, ho deciso di pronunciare la parola weblog come wee-blog. O blog, per brevità". Web-log era stato il termine usato nel 1997 da Jorn Barger, autore di Robot Wisdom 6, uno dei primi siti creati con la piattaforma di Winer. Barger chiamò così la propria "raccolta di link" che intendeva "salvare e condividere". Il termine log indica il giornale di bordo delle navi, ma viene anche usato per indicare il file che raccoglie le attività compiute su un computer.
All'inizio del nuovo millennio si cominciò a parlare di rivoluzione del modo di fare informazione grazie ai blog. Il riferimento fu lo scandalo Lewinsky, inizialmente ignorato dalla stampa e divenuto pubblico grazie a un post sul blog Drudge Report 7. Fra il 1999 e il 2003 nacquero Blogger, LiveJournal, Wordpress e Movable Type, ancora oggi fra le piattaforme più diffuse. Nel 2000 in Italia Dagospia pubblicò il primo post. Il blog in generale divenne una forma d'espressione personale tramite la quale ognuno poteva far sentire la propria voce ed eventi di portata mondiale come la caduta delle Torri Gemelle e la guerra in Iraq contribuirono all'affermazione del mezzo.
Dal 2000 in poi nacquero diversi tipi di blog: personali, multi-autori, dedicati a un tema o aziendali. Declinati in varie forme: testuali, fatti di immagini, video o audio. Nel 2002 si contarono 500 mila blog in giro per la rete, mentre nel 2006 secondo Technorati 8, che dal 2004 monitora lo stato di quella che è stata battezza la Blogosfera, c'erano già 50 milioni di blog. Dal 2004 si diffuse anche il fenomeno del live-blogging, cominciato nella forma di post scritti in tempo reale davanti a un programma tv ed evolutosi in strumento di cronaca usato oggi anche dai giornali on line. Nel 2005 nacque l'Huffington Post come aggregatore di blog e a ruota la Bbc lanciò una piattaforma di blogging per i propri giornalisti. In Italia comparvero gli aggregatori Blogo e Blogosfere e Beppe Grillo aprì il proprio. Nel 2007 il governo italiano tentò invano di normare i blog ed equipararli a testate giornalistiche. Sommersa dalle proteste, la proposta riemerse poi ciclicamente con esito simile.
Che la formula del blog abbia cambiato il modo di fare informazione lo certifica anche il successo di Wordpress, su cui oggi si stima poggi il 16% dei siti web 9. Non solo blog (come Mashable, TechCrunch o BoingBoing), ma anche vere e proprie testate giornalistiche come New York Times, CNN, Forbes o Time.
Fra il 2007 e il 2009 ci fu una rivoluzione che stravolse in parte il blogging. A cambiare il modo in cui si bloggava fino ad allora furono i primi servizi di micro-blogging: Twitter e Tumblr. Con il termine micro-blogging si definiscono queste piattaforme che prevedono post brevissimi sulla scia degli aggiornamenti di status divenuti comuni grazie a Facebook. All'inizio di quest'anno Twitter e Tumblr hanno superato entrambi i cento milioni di utenti attivi. "Una parte dei blogger italiani - spiega Vincenzo Cosenza, autore di Vincos.it 10 e uno dei maggiori esperti di blogging e social network - ha raccolto l'invito al lazy web (web pigro, ndr) di queste piattaforme diradando la scrittura sui blog a favore di messaggi brevi e rilancio di contenuti altrui. Piattaforme come Facebook e Google Plus, che permettono di scrivere status update lunghi, hanno dato la possibilità ai meno esperti di condividere pensieri articolati e intavolare discussioni con altri, dando a tutti la possibilità di essere blogger senza avere un blog".
I blog non sono morti a causa dei social network anche perché questi sono divenuti strumento di amplificazione dei blog-post. Secondo NM Incite, i blog sono addirittura passati da 173 a 181 milioni da ottobre 2011 a marzo 2012. Oggi i blogger più attivi sono donne e giovani tra i 18 e i 34 anni, sette su dieci con una laurea alle spalle. Nel corso del 2011 hanno aggiornato i propri blog più spesso e curato maggiormente i propri siti. Sono divenuti però più auto-referenziali: si parlano fra di loro anziché prendere spunto dalle conversazioni con gli amici. Il numero di persone che bloggano in Italia è cresciuto del 378% dal 2010 (IAB).
Recentemente la piattaforma francese Overblog 11 ha introdotto una nuova forma di blog il cui gli status update dei diversi social network diventano i post di un unico blog per ricucire insieme i frammenti personali dispersi nel web. Nel frattempo sono tornate in auge le raccolte di link attraverso un nuovo fenomeno che oggi si chiama "cura dei contenuti", con piattaforme come Scoop.it 12 o l'italiana Searcheeze 13 che puntano sulla content-curation per creare giornali monotematici.
«La Repubblica» del 16 luglio 2012

Matrimonio & sofismi

La questione omosessuale
di Francesco D’Agostino
​Si è riacceso il dibattito sui matrimoni gay. E ritorna a diffondersi un curioso sofisma, che bisogna tornare a smascherare una volta per tutte. Lo ripropongo nella formulazione (per altro molto efficace) datagli da Adriano Sofri (su Repubblica del 16 luglio). «Io sono personalmente contrario al matrimonio gay» può significare, per Sofri, due cose diverse, una ragionevole e quindi accettabile, l’altra irragionevole e quindi inaccettabile.
È accettabile che questa frase significhi: «Io non intendo sposare una persona del mio sesso». La frase diverrebbe invece irragionevole se la si intende in questo modo: «Sono personalmente contrario a che lo facciano altri miei simili».
Dov’è il sofisma? Nel dare per scontato (mentre non lo è affatto) che la questione del matrimonio omosessuale si debba ridurre a un’opzione di tipo «personale», legittima quando coinvolge un soggetto e le sue personalissime scelte, ma illegittima quando verrebbe a coinvolgere altri soggetti. È un sofisma analogo a quello che usano gli abortisti: «Le donne che non vogliono abortire non lo facciano, ma non possono impedire alle altre donne l’aborto volontario». Affermazione ragionevole, se l’aborto fosse riducibile a una scelta privata e personalissima. L’aborto però è irriducibile a una scelta privata, perché mette in gioco non solo gli interessi di una madre, ma anche e soprattutto la vita di una terza persona, il figlio.
Analogamente, la legalizzazione del matrimonio gay non si riduce alla tutela di un «privato» interesse di coppia, per la sola ragione che il matrimonio ha una valenza pubblica e mette in gioco interessi sociali di carattere generale.
Per mostrare quanto fragile sia il sofisma, riproduciamolo in forme leggermente variate, ma non arbitrarie: «Io non intendo vivere da poligamo, ma non posso impedire a chi lo voglia di sperimentare la poligamia – purché ovviamente le donne siano maggiorenni e consenzienti». Dubito che questo ragionamento possa essere ritenuto sensato.
Una questione simile si pose, anni fa, in occasione dei dibattiti sulla legalizzazione del divorzio. Alcuni fecero la proposta di attivare due diversi regimi coniugali, l’uno divorziabile, l’altro no. Il paradigma proposto era analogo a quello ipotizzato da Sofri per il matrimonio omosessuale: «Io intende scegliere un regime coniugale divorziabile, ma non posso impedire a una coppia –consapevole e consenziente – di optare per un matrimonio indissolubile».
La proposta, peraltro interessante, naufragò: il matrimonio è uno e uno soltanto, si disse e poiché ha un valore pubblico, non possiamo regolamentarlo se non in modo unitario. Ed è vero: il matrimonio è uno e uno soltanto e in tutte le culture e in tutti i tempi è stato pensato e legalizzato come eterosessuale.
Ma i tempi mutano, si dice, e perfino il presidente degli Stati Uniti d’America. Barack Obama, è favorevole al matrimonio gay! È vero; ma è ancor più vero che tutti gli argomenti portati a favore del matrimonio gay (in sintesi: la tutela dei diritti delle coppie omosessuali) sono fragilissimi, per due ragioni. La prima è che la tutela giuridica del matrimonio ha la sua unica ragion d’essere nella sua "naturale" funzione generativa, preclusa, sempre per ragioni "naturali", alle coppie gay.
La seconda è che comunque, precludendo ai gay il matrimonio, non togliamo loro assolutamente nulla, perché non esiste un «diritto dei conviventi» che non possa essere efficacemente tutelato – su un piano socio-patrimoniale – a prescindere dal riconoscimento del vincolo coniugale (e questa è stata, in buona sostanza, l’opinione della Corte Costituzionale, che curiosamente in questo dibattito non viene mai ricordata). È su questi punti e non su vaghi appelli a non restare indietro sul piano della «storia» che vorremmo che si impostasse una discussione seria, e non ideologica.
«Avvenire» del 17 luglio 2012

Il sogno vero che cambiò l’Occidente

Costantino
di Franco Gàbici
Non è dato sapere se sia realmente accaduto o se si tratti di una leggenda, ma sta di fatto che gli studiosi hanno preso in considerazione la questione e alcuni sono andati alla ricerca di riferimenti astronomici che potrebbero giustificare la famosa visione che apparve all’imperatore Costantino 1700 anni fa, il 27 ottobre del 312, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio combattuta in località Saxa Rubra e nel corso della quale venne sconfitto Massenzio. Secondo Lattanzio (250-327) la visione sarebbe avvenuta in sogno, mentre Eusebio di Cesarea (265-340) scrive che la croce luminosa sarebbe apparsa in pieno pomeriggio e fu osservata anche da tutti i soldati.
Sulla croce campeggiava la scritta «Toutô nika», che più tardi Rufino tradusse Hoc signo victor eris» e che la tradizione trasformò nel più noto «In hoc signo vinces». Tutti invece concordano sul fatto che Costantino, dopo la visione, fece incidere sui labari dei soldati la lettera greca «chi», il simbolo del Dio cristiano.
Già Filostorgio (368-439) aveva proposto una interpretazione astronomica del «segno celeste» e in tempi più recenti Fritz Heiland del Planetario di Jena ha avanzato l’ipotesi che la visione potesse essere interpretata come una congiunzione planetaria. A differenza delle stelle, che vengono chiamate "fisse" perché su intervalli temporali abbastanza lunghi mantengono inalterate le loro reciproche posizioni, i pianeti non hanno posizioni immobili e in effetti il termine "pianeta" deriva da un termine greco che significa «astro errante».
Heiland, dunque, dopo aver ricostruito il cielo del 312 notò che nell’autunno di quell’anno Giove, Saturno e Marte, tre pianeti molto luminosi, si trovavano vicini e allineati fra le costellazioni del Capricorno e del Sagittario. La configurazione planetaria insolita poteva essere interpretata dai soldati come un cattivo presagio e Costantino avrebbe addirittura inventato la storia della visione per trasformare il presagio in un segno di buon auspicio. Subito dopo il tramonto, inoltre, in mezzo alla volta celeste campeggiava il Cigno, una costellazione a forma di croce, tant’è che viene chiamata dagli astronomi la «Croce del Nord».
Una stella laterale, poi, le conferiva l’aspetto di uno «staurogramma», dove con questo termine si definisce il monogramma che si ottiene sovrapponendo le due lettere greche maiuscole tau (T) e rho (P). Sotto il Cigno, inoltre, si trova la costellazione dell’Aquila, simbolo di Roma e dei suoi eserciti, e anche questa circostanza contribuì a rafforzare i significati simbolici della visione. Interessante a questo proposito è l’affresco di Piero della Francesca nella basilica di San Francesco di Arezzo intitolato «Il sogno di Costantino» nel quale l’artista, come ricordano Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi nel volume In hoc signo vinces (Edizioni Mediterranee), riproduce il cielo stellato relativo all’evento e un angelo dall’aspetto di cigno che porge una croce all’imperatore.
Va anche sottolineato che la posizione dell’angelo nell’affresco non è casuale, ma rispecchierebbe la posizione realmente occupata nel cielo dalla costellazione del Cigno. Un altro segno della visione di Costantino si può ammirare all’interno del battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte di Napoli, fatto erigere dallo stesso imperatore. Sulla cupola, infatti, spicca un bellissimo mosaico che raffigura un grande staurogramma a ricordo della visione di Costantino. Legato a Costantino è anche il casale di Malborghetto, ricavato da un arco quadrifronte sulla via Flaminia a Roma. Il casale fu oggetto di studio dell’archeologo tedesco Fritz Toebelmann, il primo ad avanzare l’ipotesi che il monumento fosse stato eretto proprio nel luogo dove si accamparono le truppe di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio. Il monumento dista parecchi chilometri dal luogo della battaglia e dunque, secondo l’archeologo tedesco, non fu innalzato per celebrare la vittoria su Massenzio ma per ricordare la famosa visione che ebbe l’imperatore alla vigilia della battaglia.
L’ipotesi dell’archeologo fu poi sostenuta anche da recenti studi condotti da Gaetano Messineo. Per giustificare la visione di Costantino è stata chiamata in causa anche la caduta di un meteorite il cui impatto sarebbe oggi testimoniato dalla presenza di un laghetto dalla forma leggermente ellittica (115x140 metri) nel massiccio del Sirente, a una decina di chilometri da Secinaro (L’Aquila). Il cratere è stato individuato nel 2000 dal geologo svedese Jens Ormö e, dato l’interesse della scoperta, fu immediatamente costituito il gruppo di lavoro «Sirente Crater Group» con la collaborazione di Angelo Pio Rossi e Goro Komatsu dell’International Research School of Planetary Sciences dell’Università D’Annunzio di Pescara. Il meteorite, del diametro di 10 metri, attraversò il cielo alla velocità di 20 Km/sec lasciando una lunga traccia luminosa e cadde a terra provocando un’enorme esplosione il cui boato fu avvertito con gran spavento in tutte le valli vicine.​
«A» del 16 luglio 2012

13 luglio 2012

I matrimoni durano quindici anni. Più separazioni tra i sessantenni

Ci si sposa tardi e nell'85 per cento dei casi la scelta di dividersi è consensuale
di Valentina Santarpia
Il rapporto dell'Istat: ci si lascia quando lui ha 45 e lei 42 anni
Le coppie italiane continuano a «scoppia-re»: il 30% delle nozze naufraga al giro di boa dei 15 anni ed è sempre più frequente l'addio tra sessantenni.
A confermarlo è il rapporto dell'Istat «Separazioni e divorzi in Italia» secondo cui nel 2010 ci sono state 307 separazioni (+2,6% rispetto all'anno precedente) e 182 divorzi (-0,5%) ogni mille matrimoni, un trend in continua crescita. Nel '95, a non stare a galla erano 158 coppie su mille. Non c'è un'età «giusta» per rompere il pattc d'amore, ma il flop avviene più frequentemente quando i mariti veleggiano intorno ai 45 e le mogli intorno ai 42, mentre fino a dieci anni fa ci si separava tra i 35 e i 39 anni.
Coppie più resistenti? Niente affatto: «L'innalzamento dell'età della separazione - spiega l'Istat - è il risultato sia della maggiore propensione allo scioglimento di unioni di lunga durata, sia di un processo di invecchiamento complessivo della popolazione dei coniugati». Insomma, ci si sposa più tardi (meno di un matrimonio su quattro vede attualmente entrambi gli sposi sotto i 30 anni) e comunque si hanno meno scrupoli, rispetto a un tempo, a chiudere un matrimonio anche se si sta insieme da tempo. Tanto è vero che negli ultimi dieci anni sono passati dal 5,9% al 9,9% gli uomini con più di sessant'anni che optano per la separazione. Le donne sono un po' meno, ma anche loro in crescita, con un valore raddoppiato (dal 3,6% al 6,4%) nel periodo 2000-2010. E rispetto al 1995 le separazioni che arrivano dopo aver festeggiato le nozze d'argento (25 anni di matrimonio) sono più che raddoppiate.
C'è una categoria a rischio? Forse sì, visto che laureati e specializzati si lasciano con più disinvoltura di chi ha trascorso meno anni sui banchi di scuola, contrariamente a quanto accade nel resto d'Europa: sono più propense a separarsi - sottolinea l'lstat - le coppie con un titolo di studio più elevato e «prevalentemente se marito e moglie hanno lo stesso livello di istruzione». Numeri alla mano, nel 2010 ci sono state 4,4 separazioni ogni mille uomini laureati e solo 1,3 per chi aveva solo la licenza elementare.
Il 20,7% delle separazioni giudiziali avviene tra coniugi con basso livello di istruzione e il 14,5% nel Mezzogiorno. Mentre per fortuna generalmente ci si toglie la fede senza farsi guerra: nell'85,5% dei casi - rileva il report dell'Istituto di statistica - la separazione è consensuale.
Scoppiano anche le coppie miste, «e in più di sette casi su dieci, la tipologia che arriva a separarsi è quella con marito italiano e moglie straniera». Nel 2010 sono state oltre 7.000 le separazioni delle coppie miste, pari all'8,1% di tutte le separazioni contro il 9,2% del 2000. E non ci sono figli che tengano: il 68,7% delle separazioni e il 68,5% dei divorzi hanno riguardato coppie con prole. Che viene «gestita» in maniera condivisa nel 90% dei casi: nel 9% dei casi i figli sono affidati solo alla madre, mentre «la quota di affidamenti concessi al padre continua a rimanere su livelli molto bassi». Nel 20,6% delle separazioni uno dei due coniugi (nel g8% dei casi è il marito) deve versare un assegno di mantenimento all'altro: l'importo medio è più alto al Sud (520 euro) che nel resto del Paese (447,4).
Eppure c'è chi ci riprova. «Nell'ultimo anno - sottolinea l'Associazione avvocati matrimonialisti italiani - i secondi matrimoni sono stati il 14% del totale».
«Corriere della sera» del 13 luglio 2012