29 giugno 2012

Quando la gelosia uccide

Lo scandalo del delitto d'onore, eredità terribile dei classici
di Eva Cantarella
Nessuno poteva dirlo meglio di Giuseppe Pontiggia. Oggi il peggior nemico dei classici è un nemico che non li affronta, ma li ignora: la programmazione scolastica. Un nuovo nemico che «delude, amareggia, scoraggia per la sua stupidità. Dilapidare - noi che ne saremmo i beneficiari diretti - l'eredità classica, è una ignominia e uno spreco che nessuna nazione consapevole si permetterebbe». Da allora, le cose sono precipitate, e una scuola appiattita sul presente ha reso ancor più forte la necessità di ripetere che la prima funzione della scuola è quella di formare cittadini dotati di ragione e di coscienza critica: che i classici, appunto, aiutano in primo luogo a costruire. Non perché, beninteso, essi siano depositari di valori superiori, eterni e immutabili, come un tempo si diceva. Ci sono aspetti della loro cultura oggi inaccettabili: l'idea che la schiavitù fosse naturale, ad esempio, o che la ragione delle donne fosse diversa e inferiore. Ma per noi è essenziale conoscere anche questi aspetti. Al di là delle rotture e le discontinuità che hanno segnato i millenni che ci separano, infatti, alcuni di essi sono arrivati sino a noi, insieme ad alcune delle regole giuridiche a questi ispirate. Tra le quali (non potendo ovviamente occuparci di tutte) ce n'è una sulla quale oggi vale la pena riflettere: la regola che garantiva pene irrisorie a chi commetteva un «omicidio per causa d'onore», cancellata dal nostro codice penale solo nel 1981, dopo aver superato resistenze che solo il suo antichissimo radicamento riesce a spiegare. La giustificazione della causa d'onore nasce in Grecia. Più precisamente nella prima legge ateniese, che nel 621-620 a.C. segnò la fine della cultura della vendetta, sino a quel momento considerata l'unico modo per difendere l'onore. A partire da quel momento l'omicidio divenne un reato punito con pene irrogate da tribunali appositamente istituiti: morte per l'omicidio volontario, esilio per quello involontario. Ma nel fare questo la legge stabilì un'eccezione: chi sorprendeva in casa propria un uomo che intratteneva rapporti sessuali con la propria moglie, madre, figlia, sorella o concubina non veniva punito. Il suo omicidio infatti era «dikaios», vale a dire legittimo. Rimasta in vigore per tutto il corso della storia greca, la regola ispirò Augusto, che nel 18 d.C. concesse al padre l'impunità per l'uccisione della figlia e del suo amante sorpresi in flagrante in casa propria o del genero, e al marito, in determinate circostanze, per l'uccisione dell'amante (uccidere la figlia, anche se sposata, spettava solo al padre). L'impunità concessa da Augusto era dunque meno estesa di quella prevista da Draconte, ma nei secoli dell'impero si ampliò molto sensibilmente. Solo nel 556 Giustiniano cercò di limitare le uccisioni, con una regola sulla quale vale la pena soffermarsi: per uccidere impunemente i mariti dovevano preventivamente inviare all'amante tre diffide scritte. Una regola molto discussa, specchio ed esempio di una lunga, veramente lunghissima durata delle mentalità. Per secoli, infatti, la regola delle tre diffide, sempre in vigore, venne osteggiata suscitando crudeli ironie. Quando, nell'XI secolo, il diritto romano ricominciò a essere studiato nelle università, i giuristi si divertivano redigendo dei formulari quali ad esempio (riportato da Giovanni Nevizzano d'Asti tra XV e XVI secolo), quello che così suonava: «Io, Martino di Cornigliano in questi scritti denunzio te, Tristano de Bravi, perché ti sospetto di commettere adulterio con mia moglie. Astieniti dunque dall'incontrarti con lei e dal parlare con lei. Se lo farai, io dichiaro in questi scritti che userò contro di te del rimedio concesso dal diritto...». Superfluo notare lo sbeffeggio del marito, il cui nome, Martinus de Cornigliano, è una dotta attestazione dell'antichità di due termini che tornano con frequenza non solo nel linguaggio popolare, ma nelle successive opere della giurisprudenza: «cornua» e «cornutus». Ma proseguiamo: sul finire del XVI secolo (1583), Giulio Claro Alessandrino scrive che i mariti non osavano denunciare la moglie adultera «per non incorrere nell'infamia perpetua che ricade su di loro a causa di una malvagia consuetudine»: i giudici infatti - scrive Felino Sandeo - deridevano chi proponeva un'accusa di adulterio, al punto che per i mariti saggi era meglio «tenersi le corna ("cornua") nel petto». Oppure uccidere, con margini di impunità sempre più ampi. Il Senato milanese, ad esempio (sentenza 26 aprile 1588) stabilì che l'onore del marito era offeso dal semplice fatto che si potesse pensare che egli era «cornutus», e successive sentenze dichiararono che era suo dovere uccidere la moglie adultera e il complice. E così, rafforzata dal consenso costante della giurisprudenza, l'idea che l'onore familiare fosse legato al comportamento sessuale femminile superò anche il secolo dei Lumi. Neppure la critica illuminista, infatti, mise in discussione la causa d'onore che, nel 1810, arrivò nel primo codice penale francese come causa di totale esclusione della pena. Diverse le previsioni delle legislazioni italiane, per le quali la causa d'onore non escludeva totalmente la pena, si limitava a limitarla. Ma allo stesso tempo estesero l'attenuante alla moglie che uccideva il marito traditore e alla madre e alla sorella che uccidevano figlia o sorella, anche se non sposata. E da questi codici la regola giunse al primo codice unitario (Zanardelli, 1890), e nel 1930, pressoché invariata, al codice Rocco, che non richiedeva più che gli amanti fossero sorpresi in casa e in flagranza. Bastava che l'assassino agisse «nell'atto in cui scopriva» la relazione illegittima. Così che la «causa d'onore» veniva concessa, ad esempio, a chi aveva scoperto la relazione aprendo una lettera o ascoltando una telefonata. Le innovazioni introdotte dai codici italiani, dunque, erano state notevoli. Ma i custodi dell'onore familiare erano sempre gli uomini: l'estensione del beneficio era stata concessa alla moglie in considerazione dei suoi «sentimenti di affetto», e a madri e sorelle perché il comportamento sessuale illecito di un'altra donna della famiglia metteva in discussione la loro onestà. Per vedere cancellato questo articolo, lo abbiamo detto, si è dovuto attendere il 1981. Ma non sono mancate sentenze successive che hanno concesso a chi aveva ucciso per causa d'onore l'attenuante di aver agito «per motivi di particolare valore morale o sociale». E le cronache odierne, purtroppo, ci costringono a ricordare che esistono ancora sacche nelle quali questa mentalità non è sparita. Una ragione in più per studiare i classici: oltre che per i loro grandissimi lasciti, anche per alcune imbarazzanti eredità, che ci aiutano, comunque, a orientarci in questo difficile presente.
«Corriere della Sera» del 27 giugno 2012

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