29 maggio 2012

Porzûs, l'ora della pacificazione

I conti con la storia
di Paolo Simoncelli
Il presidente Napolitano oggi a Faedis rendendo omaggio ai martiri di Porzûs contribuirà in modo determinante a dissolvere un’antica e inaccettabile omertà politico-ideologica e a ricomporre istituzionalmente la memoria storica della Resistenza in Friuli; memoria andata in pezzi nella faziosità ideologica del dopoguerra. Alle malghe di Porzûs infatti, il 7 febbraio ’45 iniziò il massacro a tradimento dei partigiani della "Osoppo" da parte dei partigiani comunisti, un massacro protrattosi ancora nelle settimane seguenti con crudeltà e cinismo. E che fece vittime tra i personaggi più eroici e più noti della Resistenza friulana: Francesco De Gregori, Gastone Valente, Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo (che non riuscì a comporre il conflitto doloroso dei suoi sentimenti personali e politici) e altri coraggiosi ragazzi di varie regioni d’Italia. Storia fin troppo nota, ma impossibile da far circolare nell’epica resistenziale: «Benché mandante di tale eccidio sia stato il comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del Pci di Udine». A testimoniarlo, un loro esponente di spicco, Giovanni Padoan, "Vanni", poi protagonista dal 2001 con don Redento Bello, superstite della "Osoppo", di un percorso di pacificazione personale che non ebbe tuttavia seguito politico. Alla "Osoppo", impegnata nella lotta a fascismo e nazismo, veniva imputato di opporsi anche alla violenta penetrazione slavo-comunista, prevista fino al Tagliamento; sulla "Osoppo" piovvero così preventive e false accuse di tradimento, di complicità coi fascisti, con la X Mas di Borghese. Tanto avrebbe continuato a scrivere proprio a don Redento Bello, ancora nel ’76, il comandante comunista responsabile dell’eccidio, Mario Toffanin, "Giacca", rifugiato nella Jugoslavia titina, mai pentito. Toffanin sarebbe stato graziato da Pertini appena eletto al Quirinale; una "grazia" che lasciò stupiti magistrati ed esponenti della stessa cultura di sinistra; ancora nel settembre ’97 L’Espresso ricordando che, oltre la strage di Porzûs, gravavano su "Giacca" sentenze per capi d’imputazione gravissimi come estorsioni, rapine, omicidio senza alcuna motivazione politico-ideologica, non trovava altra spiegazione alla "grazia" che un simbolicamente concreto "grazie" di Pertini al Pci per averlo sostenuto nell’elezione al Quirinale. Toffanin non venne mai meno alla sua violenza ideologica, né mancò di estimatori pronti a rilanciarla ad ogni minimo progresso di pur difficili intenti di pacificazione. Nel febbraio 2005, ad esempio, venne ripubblicata da un collettivo comunista rivoluzionario una sua intervista apparsa già nel ’98 su La verità di Porzûs, la cui introduzione redazionale interpreta la strage degli osovani come «espressione di fatto della contraddizione tra il campo proletario e il campo borghese», e vede la "Osoppo" all’origine d’una linea di sangue e stragi progettata dallo Stato borghese fino a piazza Fontana. Toffanin da par suo non recede dal contesto della violenza di classe (il comando della "Osoppo" era "il comando della borghesia della zona"), considera spie e traditori gli osovani cui quindi attribuisce l’assassinio di alcuni partigiani comunisti, auspicando ancora di riorganizzarsi per la rivoluzione, «avere un partito comunista e anche un esercito, dei combattenti proletari». Frasario sinistramente sperimentato, noto e ancor oggi non desueto.
Emblematico di un clima di egemonia ideologica il fatto che, dopo che Pertini poté concedere la grazia a un tal personaggio, a un altro presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, non fu consentito rendere omaggio ufficiale, come nelle sue intenzioni, ai partigiani non comunisti trucidati a Porzûs dai partigiani comunisti. Anche questa è una storia nella storia riemersa solo dopo l’annuncio della visita ufficiale del presidente Napolitano in Friuli. Cossiga avrebbe voluto farlo nel febbraio ’92, poco prima di finire il suo mandato presidenziale. Immediate le polemiche: il gesto venne considerato una "provocazione politica" obbligando Cossiga solo ad una personale visita privata. Il relativo carteggio con l’Associazione partigiana Osoppo documenta la persistenza inaccettabile del graffio subìto: ancora il 22 gennaio 2004 Cossiga scriveva infatti al presidente dell’Associazione Osoppo esprimendogli la «piena solidarietà per la dolorosa situazione creatasi in relazione al ricordo dei valorosi vostri compagni e nostri comuni Eroi trucidati da mano fratricida a Malga Porzûs su ordine del IX Corpus Jugoslavo, a motivo delle loro limpide idealità democratiche e patriottiche; e che poi furono oggetto anche di un’infame campagna di calunnie da parte dei dirigenti del Friuli e della Venezia Giulia del Partito Comunista Italiano». Cossiga ricordava quindi di essersi recato «da presidente della Repubblica sul luogo del martirio, rompendo un pavido silenzio omertoso che aveva impedito alle autorità dello Stato di rendere omaggio a questi Eroi». Da presidente della Repubblica sì, ma in visita privata.
Il tributo ufficiale al disseppellimento della memoria occultata sotto il macigno del monolite ideologico è ora offerto dal presidente Napolitano; terzo dei capi dello Stato testimoni della difficoltà di sciogliere quegli antichi e drammatici nodi, emblematizzati da lacerti ambigui e ipocriti di memoria marmorea come le lapidi apposte sul muro della tragica malga che ancora nascondono gli assassini e le cause della strage. La nuova, a Faedis, nell’apprezzamento degli "osovani" per la visita del presidente Napolitano, ricorderà almeno quel «sacrificio per la libertà del Friuli e dell’Italia intera».
«Avvenire» del 29 maggio 2012

28 maggio 2012

Vieni avanti, Critone. Quando il dialogo è un «monologo assistito»

Travestimenti falliti
di Guido Vitiello
Dal modello platonico maestro-discepolo a quello della fusione genetica (ed etnica)
«Una confessione per iscritto è sempre menzognera». Lo diceva Italo Svevo, o meglio lo diceva Zeno, o forse entrambi, e questo è solo il primo di molti tranelli. Non per nulla l’autobiografia ha fama di essere il più malfido dei generi letterari; si presta a tutte le reticenze e le compiacenze, agli accomodamenti retrospettivi, alle civetterie. Qui si lascia osservare l’analogia fondamentale tra l’ego umano e il soufflé in cottura, che è tutto un informe gonfiarsi e ribollire finché non lo trafigga la punta di una forchetta. Ecco, questa forchetta potrebbe provvederla il formato del libro-intervista, dove il narcisismo dell’autore cozza a ogni pagina con un emissario del principio di realtà, l’intervistatore. In altre parole, l’unico rimedio all’espansione incontrollata del soufflé è il dialogo, e anche per questo c’è chi mette in capo all’albero genealogico degli intervistatori Platone, fondatore del libro-intervista in forma di dialogo filosofico. Genealogia rivelatrice da qualunque lato la si guardi, perché 1) Platone scriveva sia le domande sia le risposte, se la suonava e se la cantava; 2) certi intervistatori di Socrate erano, per dire il meno, piuttosto accomodanti: Critone non fa che punteggiare gli sproloqui del maestro con i suoi «vero», «è chiaro», e «come no?». Ergo, dire che Platone è il padre del libro-intervista equivale a dire, grosso modo, che ogni intervista è un’intervista immaginaria o un monologo camuffato.
Nella nostra epoca, il modello platonico puro va ricercato nelle interviste ai leader politici, e in particolare in un sottogenere assai nutrito: l’intervista a Fidel Castro. Il Critone di turno si è chiamato di volta in volta Frei Betto, Gianni Minà o Tomás Borge, tutti impegnati in una strenua gara di resistenza. Minà resse sedici ore, tanto che Valerio Riva lo candidò al Guinness dei primati per «la più lunga intervista fatta in ginocchio». Ma i record sono fatti per essere battuti, e così Ignacio Ramonet accumulò tra il 2002 e il 2005 ben cento ore di conversazione con il facondo líder maximo, che divennero un libro di settecento pagine. Ma lo si dovrebbe squalificare dalla competizione: come dimostrò all’epoca il giornalista spagnolo Arcadi Espada, l’intervista dell’allora direttore di «Le Monde diplomatique» era per buona parte un copia-e-incolla di vecchi discorsi di Castro e articoli usciti sulla stampa di regime. Il libro, ironicamente, s’intitolava Autobiografia a due voci. Presentandolo, Ramonet si premurava di ricordare che anche «i dialoghi platonici erano interviste». Appunto, e le scriveva tutte Platone.
Se non piace il modello asimmetrico maestro-discepolo, con Socrate che sproloquia e Critone che annuisce, il panorama dei libri- intervista offre soluzioni più franche, paritarie, intonate al fair play. Esempio insuperato è la vecchia conversazione tra il magistrato Marcello Maddalena e un Marco Travaglio poco più che trentenne, pubblicata da Donzelli nel 1997 con il titolo Meno grazia, più giustizia. Qui si respira tutt’altra aria, non è l’Accademia, è un tavolo da ping-pong: domanda, risposta, domanda, risposta. Senonché, dopo un po’ di scambi, siamo costretti a notare che i due giocatori sono sulla stessa metà del campo, e che il modello occulto non è il ping-pong ma la pallavolo: io alzo, tu schiacci, io alzo, tu schiacci. «Ma insomma, avete o no invaso il campo della politica, svolgendo un “ruolo di supplenza”?» ; «Direi proprio di no». «Siamo il paese più garantista del mondo?»; «Che io sappia, sì». Pare un dialogo, ed è un altro monologo assistito.
Accanto al Critone e al Pallavolista, la tradizione del libro-intervista conosce almeno una terza variante, assai diffusa in quel regno dell’adulazione reciproca universale che è la società delle lettere. Qui l’effetto monologo si ottiene alla radice, per via di blandizie e ammiccamenti, dalla fusione genetica tra gli interlocutori: erunt duo in carne una. La progressione ricorda quello sketch dei Monty Python in cui un intervistatore si rivolge all’intervistato chiamandolo prima sir Edward Ross, poi Edward, poi Ted e infine «zuccherino» e «micetto». Un esempio estremo, aggravato dal cameratismo da corregionali, è il libro-intervista di Marcello Sorgi ad Andrea Camilleri, La testa ci fa dire (Sellerio). Si parte in guardia: «Per prima cosa, scambiamoci una raccomandazione: di non esagerare, da siciliani». Ma non c’è verso, la compenetrazione del giornalista palermitano e dello scrittore di Porto Empedocle è tale che dopo neppure trenta pagine, tra pacche sulla spalla e divagazioni sulla sicilitudine, il Dna siciliano, l’amicizia siciliana e la diffidenza siciliana, le due voci risuonano indiscernibili, come se i parlanti si fossero fusi a livello genetico (il Dna siciliano, appunto). Risultato? Pare un dialogo, ed è di nuovo un monologo a due.
Si dirà che un’intervista non è un interrogatorio, che una disposizione accomodante è un’astuzia per conquistare la fiducia dell’interlocutore ed estorcergli confidenze. Sarà. Ma perché privare il lettore dell’occasionale spettacolo di una forchetta che affonda nel soufflé? Per questo c’è una sola via: che l’intervistatore esca dall’angolo e si faccia sotto. Vieni avanti, Critone.
«Corriere della Sera» - supplemento La lettura del mese di maggio 2012