27 aprile 2012

Novalis la zona buia della poesia

s. i. a.
Il romanticismo è stato un movimento spirituale, filosofico, poetico. Ma non è stato solo questo, bensì la scoperta di una costante dell’animo umano, un archetipo. Non si esaurisce nei suoi grandi poeti, non soffre delle precoci manifestazioni enfatiche generanti equivoci (romanticismo come sinonimo di sentimentalismo, svenevolezza, individualismo), ma si rivela una dimensione dell’essere. Dopo i romantici e grazie ai romantici noi scopriamo che erano romantici Omero, Dante e Shakespeare, vale a dire i tre più grandi di sempre, i tre che, con encomiabile ottusità e coerenza, gli illuministi misero al bando come primitivi, ingenui, rozzi e fanciulleschi. Romantico è una categoria dell’anima: indica avventura, racconto, ebbrezza lirica, estasi, vertigine: tutto concentrato nella poesia, nella parola che non si ritrova più puro mezzo di comunicazione, ma realtà conoscente e svelante. Romantica è la caverna di Platone, come la sua visione delle sirene che cantano quasi al pari delle muse: filosofia espressa in forma di mito, di fiaba. Romantica è l’opera di Giovanbattista Vico; l’avventura dei paleoantropologi che scendono nelle caverne per cercare, accanto alle ossa dei primi uomini e ai cavalli e bisonti dipinti, il senso ultimo e primo dell’esperienza umana nel mondo. Romantica è la competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica che cercano, negli anni Sessanta, di giungere per primi sulla luna, realizzando il sogno di Ariosto e di Leopardi. I grandi autori del romanticismo svelano una categoria antropologica che esisteva, fervida quanto non riconosciuta, dagli albori dell’umanità. Novalis, oltre che uno dei massimi poeti di sempre, è il pensatore mistico tedesco che più radicalmente fonda e realizza il romanticismo. E i suoi Inni alla notte - Canti spirituali (di cui esce il 18 aprile per Feltrinelli una versione con testo a fronte a cura di Susanna Mati, un lavoro serio e meritevole), costituiscono un prodigio della realtà romantica. «Mi ripiego verso la sacra notte, impronunciabile, colma di misteri (…) voglio precipitare in gocce di rugiada, mischiandomi con la cenere». Siamo all’inizio dell’opera, che si prefigura come un viaggio verso la notte, i misteri del buio, la culla del mondo, il regno in cui il sogno prende forma piena e la natura umana si libera. «Deve il mattino sempre ritornare? (…) Fu misurato alla luce il suo tempo; ma la signoria notturna è senza tempo e senza spazio. Eterna è la durata del sonno». La notte, come l’ombra del bosco, come il mare e il suo abisso: la zona buia ma traboccante di rivelazioni, il mistero che contiene i segreti incomprensibili, pur se smaglianti (e forse proprio perché smaglianti), alla luce del giorno. Non ci troviamo di fronte a un’impresa irrazionale ed evasiva: il viaggio di Novalis pone la poesia al centro del mondo, ma in onore al mondo. Che senza la poesia non sarebbe comprensibile e rappresentabile. Non una fuga dalla realtà, ma la ricerca della sua quintessenza e della sua continuazione. Senza poesia la realtà, nella sua misteriosa e travolgente creaturalità divina, non si perpetua, ma anzi impallidisce e si estingue. Lungi dall’essere un’alternativa a una realtà considerata effimera (il modello di Petrarca, che fa scuola per secoli), lontanissima dal ridursi a una ludica o sentimentale rappresentazione del mondo (l’archetipo fanciullesco di tutti i poeti mancati), la poesia è il cuore della realtà, e nello stesso tempo la chiave per aprirne il cuore. Immaginazione, estasi e magia sono tre delle parole chiave di Novalis: come per l’altro grande poeta romantico (il più grande di tutti), l’inglese S.T. Coleridge, l’autore della Ballata del vecchio marinaio, l’immaginazione è causa e condizione di conoscenza reale, non astratta, ma svelante e viva. La creazione poetica assoluta è una fiaba: contiene il fuoco lirico, la storia e la visione teoretica, illuminante, «l’annullamento del principio di non contraddizione». Mario Luzi tradurrà perfettamente questa realtà scrivendo «conoscenza per ardore». Per Novalis, con una lucidità perentoria, lampante, felicemente «posseduta» quanto inconfutabile con argomentazioni logiche, il poeta deve esasperare la propria opera di conoscenza e creazione. Creare e fare coincidono e significano conoscere, il poeta deve essere cosciente della natura magica congenita al suo compito: «Il vero pensatore appare come un fare, ed è davvero tale», «il vero poeta è onnisciente, è un microcosmo», «il mago è poeta». Come Coleridge, Novalis, in un grande calderone (Goethe, Foscolo, Byron, Shelley, Keats, Holderlin) di poeti ispirati da una sorta di religioso fuoco dell’anima mundi, un’energia vulcanica e panteista, trova invece il culmine della poesia e del romanticismo nella figura e nella realtà di Cristo. Cristianesimo e poesia convergono. L’immaginazione santifica il presente incorporando il passato. La morte e la resurrezione, come la compresenza di uomo e Dio, sono il mito supremo della poesia.
«Avvenire» del 16 aprile 2012

07 aprile 2012

Federer come esperienza filosofica

È l’artista del tennis. Dopo di lui, i cyborg
di Marco Imarisio
Per lui lo sport è un’estetica: sublime, desueta e veloce. Il primo a capirlo fu David Foster Wallace, che svelò l’esoterismo nascosto nei suoi gesti leggeri Oggi i filosofi indagano il mistero di un atleta moderno eppure fuori dal tempo Ma sul campo la forza estrema di Nadal e Djokovic ha sconfitto la sua bellezza
Roger Federer si è ritirato, dal tennis e dal mondo. Le sconfitte per mano di avversari più muscolosi, adepti del cyber-tennis che avanza, lo hanno consegnato a un crepuscolo da semidio. Un giornalista si appassiona al mistero della sua improvvisa sparizione. Entra nella sua villa di Basilea. Lo trova sdraiato nella sala dei trofei, in posizione fetale. Sulla scrivania, i libri dei suoi filosofi preferiti. Il campione è discepolo del trascendentalismo di Henry David Thoreau, il rapporto con la natura come possibilità per l’individuo di ritrovare se stesso in una società che non rappresenta i suoi valori, e della metafisica della qualità di Robert Pirsig, la presenza del divino non solo nella bellezza del paesaggio ma anche negli ingranaggi del cambio di una Harley Davidson.
Il seguito di Je suis une aventure, romanzo esistenzial-filosofico del francese Arno Bertina (Editions Verticales) è un viaggio delirante che comprende il tentativo di furto della sua statua di cera al Madame Tussauds di Londra, e si conclude sulle rive del Niger, epilogo conradiano della traversata nel cuore di tenebra dell’idolo caduto.
Lo stiamo perdendo, la verità è questa. Non importa quanti tornei vincerà ancora: guardarlo significa ormai prepararsi alla sua assenza. Ci saranno ancora fiammate, come avvenuto in queste settimane. Lo aiuteranno a illudersi che tutto è come prima, che si può inchiodare a fondo campo anche l’età che avanza, non solo gli avversari. Ma il risveglio sarà inevitabilmente amaro. Per lui, per noi. In questo tennis, Federer è postumo in vita. Lo è sempre stato, forse, con quella bellezza estetica desueta e veloce. Il primo a capirne il potenziale mistico fu il mai troppo compianto David Foster Wallace, che in Roger Federer come esperienza religiosa (Edizioni Casagrande) tentò di spiegare l’elemento quasi esoterico nascosto in quei gesti leggeri. E dopo sono arrivati gli studiosi di filosofia, attirati dal paradosso di Federer, essere così moderno e così fuori dal suo tempo.
«Lo stile e la presenza di Roger portano il tennis in un’altra direzione rispetto a quella tracciata dagli imperativi tecnici, economici e mediatici. Rivelano l’esistenza di una via di fuga». André Scala, uno dei più importanti studiosi dell’opera di Spinoza, ne è convinto. In Silences de Federer (Éditions de la Différence) afferma che Roger Federer non è stato un monarca, ma un legislatore che tenta una impossibile restaurazione, o rivoluzione, neoclassica.
A questo punto è necessario un passo indietro. Non può essere solo una coincidenza. Sia Scala che l’epistemologo Hans Ulrich Gumbrecht nel suo In praise of Athletic Beauty (Harvard University press) identificano con certezza l’ora e il giorno in cui tutto cambiò, e il tennis classico dovette cedere il passo a un nuovo ordine. Alle 19.08 del 10 giugno 1984, finale del Roland Garros, John McEnroe, il più geniale e creativo tennista di sempre, mette in rete una facile volée di dritto. Dall’altra parte esulta l’incredulo Ivan Lendl, il suo esatto contrario, sportivo e non solo. Game, set, match. In quel «momento barbaro», sostiene Scala, il tennis entra nell’era della sua riproducibilità tecnica. Gumbrecht invece piange sulla vittoria del «gesto ripetuto sempre più forte, il concetto di forza come mercificazione dello sport».
Abbiamo vissuto anni bui. Le poche luci, come quella emanata da Stefan Edberg, erano bagliori di una classe troppo leggera per essere definitiva. Il tennis è diventato cyber-tennis, luogo di forzuti e di parossismo atletico. Poi è arrivato Federer. Dice David Baggett, autore di tomi poco leggeri come Il buon Dio, ovvero la fondazione teistica della moralità nonché curatore di un monumentale Tennis and philosophy (edizioni Liberty University), che il suo avvento «obbliga a riplasmare i concetti di eccellenza ed estetica applicati all’era tecnologica».
L’inconsapevole neoclassicismo di cui è portatore si riflette sul personaggio. Frigidaire, re Indesit, questi sono i nomignoli che nel tempo hanno sottolineato una innegabile banalità espressiva. Andre Agassi, lo abbiamo letto in Open, odia il tennis. Anche Rafael Nadal e Nole Djokovic potrebbero giungere a conclusioni simili, una volta spente le luci della ribalta. Troppo sforzo, troppa sofferenza.
Federer è diverso. «Gioca con un senso storico — scrive Scala —, convinto che il nobile passato del suo sport non sia materia da archivio. Si accosta a esso senza nostalgia, ma convinto di poterne realizzare le potenzialità mai espresse».
Il tennis è tutto per lui, il tennis gli basta. «Il suo modo d’essere imperturbabile — sostiene Baggett — altro non è che l’omaggio a una storia dalla quale si sente rappresentato».
Nessuno sfugge alla propria nemesi, e non si può parlare di Federer senza citare Rafael Nadal, il Grande Restauratore, un Metternich spagnolo che ha interrotto la sua opera di umanizzazione, umiliandolo a più riprese e dimostrando così al mondo che un altro tennis non era più possibile. Anche qui viene in soccorso la storia del pensiero, grazie a Carlo Magnani, professore all’Università di Urbino, autore di Filosofia del tennis (Edizioni Mimesis), libro di rara intelligenza e leggerezza, almeno a parere di chi scrive.
«Nel tennis Federer occupa la posizione di Heidegger nella storia del pensiero. Un uomo estremamente poco complicato si è ritrovato nel ruolo del Profeta, colui che porta finalmente la Reincarnazione e la Luce in un mondo compromesso e sconsacrato». Con il suo tremendismo agonistico, Rafael Nadal invece non esprime la metafisica della bellezza, ma quella della forza vitale. Il riferimento, anche in questo caso a sua insaputa, è l’anticartesiano Henri Bergson. «Pure lui è immerso in una raffigurazione che mira a trascendere l’esistente però non dal lato estetico ma da quello della espressione di pura energia. Tutto è spirito e forza vitale, perché a prevalere è il moto interiore e la volontà».
La finale degli ultimi Australian Open dimostra chi sia il vincitore finale. Quasi sei ore di battaglia muscolare tra Nadal e Nole Djokovic, portatori di un tennis inumano ed estremo, segnato dallo sforzo fisico. Federer non c’era, non poteva esserci. E in fondo questo elenco di romanzi e saggi filosofici più o meno seriosi sul suo conto non sono altro che un anticipo del rimpianto. Quando arriverà il giorno del suo ritiro, dal tennis se non dal mondo, ci mancherà moltissimo.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 31 marzo 2012

05 aprile 2012

Ora con quelle vite tutti noi faremo i conti

Embrioni congelati: le domande ineludibili
di Assuntina Morresi
Saranno le autorità competenti a stabilire il come e il perché del guasto all’impianto di crioconservazione di embrioni e gameti al San Filippo Neri, ma possiamo dire fin d’ora che questo fatto scoperchia tragicamente il vaso di Pandora delle tecniche di procreazione assistita.
Sono tante le domande a cui sarà inevitabile rispondere, e non si tratterà di argomenti per addetti ai lavori, perché la creazione di vite umane al di fuori del grembo materno implica visioni antropologiche che coinvolgono i valori ultimi su cui si disegna il volto di una società. Anzitutto bisognerà capire perché tutti quegli embrioni erano crioconservati. La legge 40, anche dopo le modifiche della Consulta, ha mantenuto la disposizione secondo cui gli embrioni devono essere creati in numero «strettamente necessario» alla procreazione, e nessuno in più. La nostra normativa, pur consentendone la creazione in laboratorio, dà molte tutele all’embrione, che può essere creato in provetta ma solo per svilupparsi e, possibilmente, diventare un figlio per chi non riesce ad averne naturalmente, e non per altri scopi. Sarà necessario quindi verificare dalla documentazione medica che ognuno degli embrioni distrutti sia stato creato perché «strettamente necessario» alla procreazione, e non ancora trasferito in utero per motivi di salute della donna, come prevede la legge.
Si apre poi un’importantissima partita giudiziaria riguardo le responsabilità dell’incidente, gli eventuali reati e i danni morali e materiali. Ispezioni e commissioni di inchiesta aiuteranno a stabilire se ci sono profili penali oltre a quelli civili, e si avvieranno procedimenti per stabilire, caso per caso, il danno subìto dalle coppie. Ma per poter procedere a un risarcimento, sarà inevitabile porsi la domanda: quanto vale un embrione d’uomo? E quindi, piaccia o meno, torneranno a galla le questioni sorte con l’avvento delle nuove tecniche in campo medico, e messe a tema in Italia soprattutto nella campagna referendaria sulla legge 40, sulla natura e il valore e la dignità di ogni singolo embrione umano, e sulle conseguenze del concepimento di una persona in laboratorio.
Non serve essere dei giuristi per capire che alle coppie sarà destinato un risarcimento maggiore quanto più sarà dato valore ai loro embrioni distrutti. Non riconoscere l’esistenza di un essere umano in un embrione di pochi giorni, e ridurlo a «progetto parentale» o «grumo di cellule» – come spesso viene chiamato dai paladini del "diritto al figlio", soprattutto al figlio sano – sminuirebbe parecchio il danno subìto dalle famiglie coinvolte, e non darebbe ragione della loro sofferenza in questi giorni. La perdita di un figlio non ancora nato, anche se nel primissimo inizio della sua esistenza, per il quale, tra l’altro, si è tanto investito, in termini economici, fisici ed emotivi, è sicuramente più grave di quella di generico «materiale biologico», pur prezioso. Non a caso, fra chi ha perso i propri embrioni, qualche donna ha già dichiarato di sentirsi come se avesse subìto un aborto.
Insomma, nel caso giudiziario che si è aperto bisognerà pur dire se quegli embrioni sono o no vita umana, sarà necessario stabilire con chiarezza se sono equiparabili o no ai gameti andati distrutti, e stavolta non sarà una questione filosofica o destinata ai dibattiti televisivi: il riconoscimento o meno della morte di esseri umani a seguito dell’incidente del San Filippo Neri contribuirà in modo determinante a quantificare il danno, e a stabilire cifre congrue per i risarcimenti. Nel contenzioso che verrà bisognerà necessariamente stabilire se sono stati lesi dei diritti, e quali, e individuare i beni andati distrutti. Meglio ancora: se è andato perduto "qualcosa" o "qualcuno", e, nel caso, stabilire "chi" è quel qualcuno. Che, piaccia o non piaccia, era vivo e ora non lo è più.
«Avvenire» del 4 aprile 2012

Guardandosi allo specchio

I partiti e il finanziamento pubblico
di Ferruccio De Bortoli
Negli
L'antipolitica è una pratica deteriore che mina le fondamenta delle istituzioni. L'idea che una democrazia possa fare a meno dei partiti è terreno fertile per svolte autoritarie. Le inchieste di Rizzo e Stella, pubblicate dal Corriere , sui costi (scandalosi) della politica sono state lette da più parti con fastidio e disprezzo. Eppure non erano e non sono animate da un pernicioso qualunquismo, ma da una seria preoccupazione per l'immagine pubblica degli organi dello Stato e per la dignità dei rappresentanti della volontà popolare.
Il bene costituzionale della cittadinanza si riflette nell'orgoglio per i simboli repubblicani, nella rispettabilità degli organi elettivi, nel prestigio delle istituzioni e nella serietà e dirittura personale di coloro che temporaneamente ne reggono le sorti. Una buona legge sui partiti avrebbe fatto scoprire prima, o addirittura evitato, sia il caso Belsito, ex sottosegretario leghista alla Semplificazione ( sic ), sia l' affaire del senatore Lusi, ex della Margherita, che dimostra come i partiti, a differenza dei cittadini, incassino anche da morti. Se i parlamentari avessero affrontato con maggiore serietà, e non con sacrifici episodici, il tema dei loro emolumenti e del costo complessivo di funzionamento delle istituzioni, la loro popolarità non avrebbe raggiunto livelli così bassi. Se il referendum del 1993, che vietava il finanziamento dei partiti, non fosse stato aggirato con una legge truffa sui rimborsi elettorali, il discredito non sarebbe stato così devastante.
Difficile dimostrare a famiglie alle prese con tasse crescenti e salari magri che sia vitale per la democrazia una leggina del 2006 che, oltre a consentire l'anonimato dei contributi ai partiti sotto i 50 mila euro, non ha risolto il problema dei controlli sui rendiconti delle spese. I cittadini tirano la cinghia, soffrono, ma il finanziamento pubblico ai partiti in dieci anni è lievitato del 1.110 per cento. Se tutte le voci di spesa pubblica avessero seguito la stessa dinamica saremmo già in bancarotta. I rimborsi sono dieci volte più alti delle spese, ma nessuno si è mai sentito in dovere di restituire ai cittadini quanto incassato in più grazie a una legge troppo generosa. Sarebbe stata una forma di immediato rispetto per i molti che vengono pagati in ritardo, o non pagati affatto, per i tanti che si vedono ritirare i fidi dalle banche e non hanno la fortuna di ottenere rimborsi superiori alle loro spese. Nella vita reale, fuori dal Palazzo, se qualcuno incassa di più di quanto gli spetta, generalmente restituisce. Ha promesso di farlo Rutelli, ma solo dopo l'esplosione del caso Lusi. Non prima.
A parole tutti vogliono cambiare la legge sui rimborsi elettorali. Sono una quarantina le proposte di riforma. Nessuna delle quali è all'ordine del giorno dei due rami del Parlamento. Non è un caso che ieri Enrico Giovannini, capo dell'Istat, si sia dimesso dall'incarico di presidente della commissione incaricata di studiare come ridurre i costi della politica e allinearli alla media europea. Regole scritte male, missione impossibile. Il capo dello Stato è intervenuto, ancora una volta e autorevolmente, per sollecitare decisioni immediate. Forse sarebbe opportuno che i presidenti del Senato e della Camera chiedessero al governo di concordare un decreto legge da approvare in fretta. Per dimostrare che i partiti sanno guardarsi allo specchio. Conservano il senso della responsabilità nazionale e sapranno contrastare al meglio la deriva dell'antipolitica che si nutre di scandali e di microinteressi. E che conosce un solo antidoto: il buon esempio.
«Corriere della Sera» del 5 aprile 2012

I romanzi di (s)formazione

Adolescenti, ragazzini, perfino bimbi di 4 anni: tutti vogliono educare il lettore
di Ida Bozzi
I giovani Holden oggi nascono «già imparati». E non crescono
Il «romanzo di formazione» (in tedesco Bildungsroman) è il romanzo in cui si segue la crescita di uno o più personaggi, da una condizione o età acerba fino a una maturità che non è necessariamente l’età adulta (in genere l’azione si svolge in poche ore, o giorni, o mesi), ma è l’attraversamento di un’esperienza fondativa che trasforma il personaggio, lo cresce, lo indurisce; spesso (anche se non necessariamente) lo delude, lo ferisce, e a volte, perfino, lo distrugge. In generale, è un confronto con il mondo che difficilmente lascia identici e anche più difficilmente trova gli esseri umani preparati ad affrontarlo. In questo, molto simile alla vita. Proprio in ciò sta la formazione, nell’attraversare (goffamente, e sbagliando tutti i passi) quell’esperienza e nel trovarvi compagni, nemici, pericoli, brevi oasi di sopravvivenza, sonore lezioni e guide eccezionali nel bene e nel male; ma anche, sempre, perfino nelle storie a lieto fine, un retrogusto di disincanto, la percezione che il mondo si sia mostrato per quel che è davvero, e che l’epoca delle illusioni sia finita.
Sono le ore di fuga solitaria del giovane Holden di Salinger, sono le violenze subite e le dissipatezze del ragazzo Malcolm di Purdy, o la vita di orfano tra ladri e assassini di Oliver Twist. Per venire a casi più vicini, sono i ragazzi disorientati, luminosi e perdenti raccontati da Silvia Ballestra, oppure i protagonisti di Ammaniti, o quelli del Vasta de Il tempo materiale. All’inizio ingenui, o entusiasti, o appena un po’ sconnessi, poi sorpresi dal confronto con il mondo come da una scossa elettrica.
Insomma, parrebbe ovvio: a formarsi è il personaggio, non il lettore.
L’impressione però, da qualche anno a questa parte, è che alcuni protagonisti dei romanzi di formazione partano «già imparati», che nascano granitici e assai poco bisognosi di crescita, al più di un po’ di compagnia nella disavventura o di un orecchio cui raccontarla (il lettore) non senza qualche vanteria. «Guarda comeme la cavo, io». Poco innocenti. Poco disponibili a formarsi e anzi già dotati di caratteri immutabili, e di convinzioni formidabili che essi stessi tentano di comunicarci di continuo. Pulcini che danno l’impressione di saperla già così lunga, con buona pace dell’«inesperienza» di cui parla Antonio Scurati.
E viene il sospetto che chi si tenta di formare davvero sia qualcun altro: il lettore. E che non ci si trovi davvero davanti a romanzi di formazione (o Bildung, costruzione), bensì a storie di edificazione. Si tratta, diremmo scherzando, di ben altra «edilizia».
Un esempio significativo è il romanzo — pur ben scritto, avvincente e originale — Il bambino che parlava con i cani (Piemme) di Eva Hornung. È la storia di un orfano di quattro anni che viene allevato dai cani: quattro anni sono pochi per essere sicuri di sé, eppure il bambino riesce a esserlo. Non sono i cani a insegnare al bambino a vivere, è «il bambino insieme ai cani» a insegnare a noi lettori come ci si barcamena nelle difficoltà.
Un altro caso recente è Il quaderno di Maya (Feltrinelli) di Isabel Allende: Maya è un’ex tossicodipendente ombrosa, dolente, ferita, ma la sua formazione è già avvenuta altrove; ecco perché il suo soggiorno nel villaggio dell’isola, in fuga da oscuri nemici, sembra avere le caratteristiche di un racconto edificante, con ospiti e vicini che la circondano di attenzioni, in una dimensione di convalescenza e non di crescita. Proprio questa dimensione, tra edificazione (del lettore) e convalescenza, si ritrova nel romanzo Il mio inverno a Zerolandia (Rizzoli) di Paola Predicatori, in cui il lutto per la morte della madre e la storia d’amore con l’ultimo della classe, l’inquieto Gabriele, non pare occasione di formazione per il personaggio, che fin dalle prime pagine si muove nell’abisso del lutto con una familiarità sospetta, come guidato da una mano adulta (quella della scrittrice?). Ciò che accade in un altro romanzo italiano, La vita accanto (Einaudi) di Mariapia Veladiano, dove fin dalle prime righe la protagonista Rebecca mostra di sapere tutto ciò che c’è da sapere sulla vita di una donna brutta. Il che pare un paradosso, come certe inserzioni di lavoro lette qua e là: «Cercasi apprendista con esperienza».
La stessa mano sicura, anche se l’autrice è un’altra, pare guidare i passi di Ida Maria, protagonista del romanzo Dove finisce Roma (Einaudi Stile libero) di Paola Sòriga: la ragazza è una staffetta partigiana nascosta in una cava alle porte di Roma, a pochi giorni dall’arrivo degli Alleati, ma fin dalle prime pagine si muove come se fosse la sorella maggiore di tutti gli altri personaggi, dei genitori che le impediscono di vivere la storia d’amore con il suo professore nel natìo paese sardo, della sorella e del cognato che la portano a Roma, dei bambini di strada della capitale, dell’amore Antonio. Un po’ la stessa luce già matura del piccolo Zeno in L’estate alla fine del secolo (Dalai) di Fabio Geda, dove più del presente ciò che conta è il racconto dell’esperienza di formazione del nonno nelle persecuzioni razziali alla vigilia della guerra. Per queste storie però occorre considerare che si tratta di un passaggio difficile, probabilmente, per la letteratura: la necessità di consegnare un passato tragico alle nuove generazioni. Ci prova anche, con soluzioni irregolari e ambivalenti, il libro Salta, corri, canta! (Giuntina) di Lizzie Doron, una ricerca del padre dopo gli orrori della Shoah per la piccola Lizzie che a Tel Aviv cresce circondata dal silenzio sui segreti familiari, e diviene un’adulta tormentata. Un compromesso tra l’eccessiva sapienza del personaggio edificante e l’innocenza necessaria del personaggio in formazione forse lo trova un libro come La sognatrice bugiarda (Piemme) di Harry Bernstein, in cui a raccontare la storia di formazione della sorella Rose è il fratello maggiore, che osserva la piccola inventare genealogie nobiliari, eroismi guerreschi e altre bugie fantasiose quali rifugio per una realtà infelice.
Per chiudere, segnaliamo invece alcune autentiche storie di formazione, in cui non è impastata alla scrittura alcuna spinta edificante estranea al romanzo ma si sente il gusto di raccontare, di dubitare insieme ai protagonisti, di condurre il lettore nell’inconosciuto, anche nei territori della morte. L’adolescenza crudele e distruttiva di Niente (Feltrinelli) di Janne Teller; il piccolo mago e giocatore di Uccidere il padre (Voland) di un’Amélie Nothomb un po’ in sorvolo ma capace di punte acutissime; gli adolescenti post-pasoliniani d’oggi in Ivan il terribile (Rizzoli) di Alcide Pierantozzi, l’adolescenza di faide e banditi nella Sardegna di Da qui a cent’anni (Frassinelli) di Anna Melis.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 31 marzo 2012

Il suicidio della filosofia

Le scoperte sui meccanismi della mente superano le ambizioni del «new realism»
di Sandro Modeo
Da biologia e neuroscienze le risposte più profonde sul senso ultimo della vita
La discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del nuovo realismo) e la serie di convegni sul «new realism» potrebbero indurre a pensare che la realtà sia finalmente (e ufficialmente) rientrata nel discorso filosofico.
La sua eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti- illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa. Su questo versante socio-politico, il Manifesto ha pagine taglienti e disintossicanti. Ma quando affronta il nucleo dell’equivoco postmodernista (il credo costruttivista, per cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni») per introdurre un «nuovo realismo» fondato su una realtà oggettiva indipendente dagli schemi cognitivi dell’osservatore, ci si trova a disagio. Una simile prospettiva — così come quella, recentemente proposta da Eco, di un realismo «negativo», fondato su «uno zoccolo duro dell’essere» — è stata infatti disegnata molte volte prima (e meglio): soprattutto in un ambito, la biologia evoluzionistica, che dalla filosofia continua a essere ignorato e/o frainteso… Lo stesso Ferraris — che pure rivaluta l’oggettività fattuale e concettuale della scienza — tiene a smarcarsi dalla pretesa della scienza stessa a invadere terreni non suoi.
Eppure, basterebbe avvicinarsi senza pregiudizi non solo all’evoluzione, ma anche alle sue conferme e integrazioni più recenti (genetiche, neurobiologiche, embriologiche), per trovare risposte davvero innovative e convincenti su tante questioni filosofiche e socio-psicologiche; per accorgersi che non c’è nessun reingresso della realtà nel discorso filosofico, per il semplice motivo che non ne è mai uscita, e che la liquidazione del postmodernismo (presentata come un funerale) è solo la visita a una tomba da tempo ricoperta di rampicanti.
Prendiamo due libri-chiave. Nel primo (L’altra faccia dello specchio, 1973), Konrad Lorenz — risalendo a sue ipotesi degli anni Trenta — inserisce la connessione tra «soggetto conoscente» e «oggetto conosciuto» nel profondo del processo evolutivo, mostrando come gli schemi concettuali con cui gli organismi viventi «leggono» il mondo esterno siano informazioni adattative: dal paramecio che scansa l’ostacolo ai complessi comportamenti umani (o, come diceva Popper, dall’ameba a Einstein, accomunati dal procedere per tentativi ed errori) conoscere equivale a sopravvivere. Rifacendosi a Donald Campbell, Lorenz inscrive questa attitudine entro un «realismo ipotetico». Nel secondo libro (Sulla materia della mente, 1993), l’immunologo-neuroscienziato Gerald Edelman parla invece di «realismo condizionato», riferendosi a come il nostro corredo (neuro)fisiologico rappresenti e ridefinisca in continuazione le vastità di un ambiente «senza etichette»: proprio come l’evoluzione (la selezione), il nostro cervello opera in modo strutturato e «aperto». Per Edelman, un simile realismo è l’unico «ismo» superstite, in un cimitero di «ismi» in cui la tomba del postmoderno viene circondata da cappelle e mausolei (monismo e dualismo, razionalismo e idealismo, e così via).
In questa prospettiva, il ruolo centrale viene assunto dal cervello e dal sistema nervoso: nei termini di Lorenz, «l’altra faccia dello specchio», che è però metafora suggestiva ma impropria, perché i substrati neuronali che ci permettono di accendere delle «scene» sul mondo non agiscono come superfici passive, ma come strutture attive e creative, già a livello percettivo. Lo vediamo in tutti i sistemi nervosi che hanno preceduto il nostro. Proseguendo una distinzione tra «sé» e «non sé» avviata dalle cellule — grazie alla membrana — 3 miliardi e mezzo di anni fa, l’evolversi di tali sistemi è una sequenza di «modelli interni del mondo esterno», via via più complessi secondo le variazioni climatiche, il mutare dell’ambiente, la crescente competizione tra specie: si va dai proto-sistemi nervosi di certi vermi (302 neuroni con schemi basici di orientamento) a quelli di pesci, anfibi e rettili, fino ai paleo-mammiferi (già capaci di emozioni ememoria episodica) e ai neo-mammiferi (in cui la corteccia consente di percepire la profondità e i neuroni-specchio di provare empatia).
Ma in questa successione non c’è un progresso: l’evoluzione, nonostante la sua storicità — e fatte salve le estinzioni — è sempre «contemporanea»: i batteri, da cui tutto è cominciato, ne sono i veri vincitori. In un recente, straordinario libro (Engineering Animals), i biologi Mark Denny e Alan McFadzean ricostruiscono nei dettagli non solo la genesi dell’anatomia e la bio-meccanica di decine e decine di animali (come il volo degli albatros), ma anche i meccanismi sensoriali e cognitivi, cioè proprio i loro «modelli interni del mondo esterno». Tra le tante sequenzememorabili: il gusto dei panda rossi (con recettori peculiari del dolce); l’udito «attivo» dei pipistrelli (i cui sonar leggono in anticipo i rilievi della roccia); il campo visivo «elettrico» dell’anguilla; e la fitta elaborazione che presiede all’orientamento dei piccioni, con mappe cerebrali che integrano l’attenzione al sole, alle stelle, ai poli, alle linee costiere.
La lezione è duplice. In primo luogo, elimina il problema del noumeno kantiano, la «cosa in sé» posta al di là dei sensi e della ragione: il nesso tra la realtà «là fuori» (il brulichio di atomi e molecole della materia, animata o inanimata) e quella «là dentro» o «là dietro» (il corredo neurofisiologico) è un incessante dialogo dinamico. Se i cervelli non sono specchi, non sono tuttavia nemmeno proiettori su uno schermo inerte (come vorrebbe il costruttivismo); e il loro interagire col mondo (secondo le predisposizioni delle specie e, in forma più sottile, degli individui) vanno a formare una fantasmagoria di letture del mondo, tra loro fittamente intrecciate. Nello stesso tempo, tutto questo ci ricorda che tutti noi siamo dei patchwork plasmati dal bricolage di un’evoluzione che adatta strutture remote a funzioni nuove, mescolando le specie: e anche qui, non soltanto a livello anatomico (i polmoni come sviluppo delle branchie), ma a livello di schemi percettivi ed emotivo-cognitivi: basti pensare al nostro cervello «rettiliano», al fatto che le proteine attive nelle nostre connessioni neuronali siano quelle dell’adesione cellulare di antichissime spugne, o che un gene decisivo nel predisporre al linguaggio (il Fox P2) sia stato e sia adibito — nell’uomo e in altri animali — alla funzione respiratoria, senza la cui modulazione non potremmo parlare.
Certo, questa continuità/contiguità dell’uomo col resto del vivente coesiste con una netta discontinuità: proprio il linguaggio e la «coscienza di essere coscienti» (esiti di alte integrazioni tra aree cerebrali) ci hanno permesso di penetrare la realtà con acquisizioni spiazzanti, a partire da quelle contro-intuitive della scienza, da cui abbiamo appreso — a correzione dei nostri sensi — che la terra gira intorno al sole o che gli oggetti sono composti di atomi. Ma non dobbiamo sopravvalutare (né, beninteso, sottovalutare) questa attitudine. Per quanto possiamo spingere in avanti i nostri confini conoscitivi con astrazioni teoriche e prolungamenti tecnici dei nostri sensi (dal telescopio al microscopio) o delle nostre facoltà cognitive (il computer), la nostra raffigurazione del mondo sarà sempre condizionata e mediata dai nostri vincoli evolutivi e neurofisiologici. E lo stesso vale per le più raffinate speculazioni teologiche e filosofiche, per le possibilità dell’immaginazione, per le più azzardate elaborazioni linguistiche: tutte le nostre protesi concettuali più estreme (la Divinità e l’Infinito, l’Essere e il Nulla) si perdono come frecce scagliate nell’indeterminato, o vanno a sbattere sul mondo esterno, «là fuori », perché vanno a sbattere, simultaneamente, sui limiti del nostro cervello, «là dentro». In quest’ottica, anche la dorsale più «provocatoria» della proposta di Ferraris e del «new realism» — tenere scissa l’ontologia dall’epistemologia, il discorso sull’essere dalla teoria della conoscenza — rischia di risultare poco più di un elegante sofisma, se non un mezzo improprio per proteggere l’autonomia della filosofia dalla scienza.
Edoardo Boncinelli scrive spesso come la biologia si possa «trascendere, ma non ignorare». È un adagio che può essere rovesciato: ignorare la biologia, in fondo, è l’unico modo per poter avere l’illusione di trascenderla.
«Corriere della Sera - Suppl. La Lettura» del 31 marzo 2012

La paranoia del complotto

Sindromi Cia, Mossad, massoni, gesuiti: per molti ci sono loro dietro tutti i misteri
di Giovanni Belardelli
Tranfaglia, Gustavo Selva, perfino «Le Monde». Non tramonta mai l’ossessione delle trame
Secondo un’opinione molto diffusa, la realtà non è mai come appare perché i veri protagonisti delle decisioni non rilasciano interviste, non vanno in televisione, ma restano sempre nell’ombra. E quel che noi crediamo di conoscere è, invece, soltanto ciò che «loro» vogliono farci conoscere. «Loro», secondo questa ossessione del complotto che in Italia ha una circolazione assai ampia, sono di volta in volta i poteri forti, i servizi segreti più o meno deviati, la Cia e gli americani, le mafie, il Mossad ovvero, per non mandare in pensione una delle versioni più antiche della teoria del complotto, puramente e semplicemente «gli ebrei». Per qualcuno la discesa in politica di Berlusconi nel 1994 sarebbe stata preventivamente concordata con la mafia, per qualcun altro (e non un osservatore qualunque, ma l’ex presidente della Repubblica Cossiga) negli eventi che di quella discesa furono causa indiretta — le inchieste di Mani pulite e la crisi del sistema dei partiti — c’era senz’altro lo zampino degli Stati Uniti e della Cia.
Nel novembre scorso, dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Berlusconi, le interpretazioni complottiste si diffusero a macchia d’olio sul Web e non solo: perfino «Le Monde» vide all’origine del governo Monti una trama maturata negli ambienti di Goldman Sachs. Nel 2010 l’ex parlamentare di An Gustavo Selva dichiarò che la rottura tra Fini e Berlusconi nasceva dalla contiguità del presidente della Camera con lamassoneria (ma cinque anni prima La Russa, Gasparri e Matteoli avevano addirittura ipotizzato «un’iniziazione massonica di Fini da parte di Amato e Chirac», membri con lui della Convenzione europea).
Se negli anni Settanta si parlò delle «sedicenti» Brigate rosse, fu appunto per l’idea che dietro il terrorismo di Curcio e Franceschini vi fossero trame e soggetti di ben altro colore e con ben altri scopi rispetto a quelli dichiarati nelle risoluzioni strategiche delle Br. Per anni anche storici come Franco De Felice o Nicola Tranfaglia hanno dato credito alla teoria di un «doppio Stato» che legherebbe tutti, e tutti spiegherebbe, imisteri della nostra storia. Naturalmente, non è che le vicende italiane difettino di misteri, di episodi oscuri, di fatti mai chiariti in modo convincente. Ma ciò che distingue la sindrome del complotto è un salto di immaginazione: partendo da fatti che sono almeno in parte veri, si dà corpo all’idea di una «grande cospirazione» come veromotore degli eventi storici. È questo l’elemento distintivo di ciò che lo storico Richard Hofstadter chiamò lo «stile paranoico» in un famoso saggio di quasi cinquant’anni fa (Lo stile paranoico nella politica americana), finalmente tradotto in italiano sull’ultimo numero della «Rivista di politica» diretta da Alessandro Campi (Rubbettino), che dedica vari articoli proprio al tema del complotto.
Nel corso del XX secolo — ricorda Hofstadter — lo stile paranoico riportò un trionfo assoluto nella Germania di Hitler, che pretese di giustificare la propria politica antisemita come reazione a un complotto ebraico, ma fu ben presente anche nei processi staliniani, dominati da una costante ossessione della congiura. Un’ossessione che era presente anche in alcuni esponenti della destra americana, convinti che, a partire dal New Deal di Roosevelt, i vertici del governo fossero infiltrati dai comunisti. Nel 1951 il senatore McCarthy denunciò una «vasta cospirazione» che a suo dire aveva tra i propri capi il segretario di Stato George C. Marshall, le cui decisioni «servivano sempre e invariabilmente la politica mondiale del Cremlino».
Che si tratti dei deliri anticomunisti del senatore McCarthy, della descrizione del complotto ebraico contenuta nei famigerati Protocolli dei Savi anziani di Sion (ancora oggi molto diffusi in alcuni Paesi arabi), del ricorso a un «doppio Stato» o a qualche «grande vecchio» per spiegare la «vera storia» dell’Italia repubblicana, l’immaginario complottista utilizza un modello che nella sua struttura è sempre lo stesso. È il modello — come sostiene Raoul Girardet in un testo anch’esso pubblicato sulla «Rivista di politica» — che venne utilizzato dall’abate Barruel nelle sue Memorie per servire alla storia del giacobinismo, del 1797. Di fronte alla necessità di spiegare quell’evento straordinario che era la Rivoluzione francese, Barruel la considerò appunto come il risultato di un complotto massonico volto alla distruzione della civiltà cristiana. Altri, negli anni seguenti, chiameranno in causa piuttosto gli ebrei o i gesuiti come veri capi del complotto destinato alla conquista del potere mondiale. Ma la struttura del paradigma complottista restava invariata: un’organizzazione potentissima e segreta; l’utilizzazione di ogni mezzo per il raggiungimento dei propri scopi; l’importanza attribuita al controllo dei mezzi di informazione e del sistema finanziario internazionale; la presenza di rituali e pratiche criminali.
Rispetto agli esempi ottocenteschi citati da Girardet, l’ossessione del complotto assume oggi altre forme ed evoca altri responsabili (anche se non sempre, perché gli ebrei e Israele rappresentano purtroppo un evergreen dell’ossessione complottista). Ma utilizza una struttura che è ancora fondamentalmente la stessa. A determinare il costante successo delle teorie del complotto, anche delle più inverosimili che costantemente circolano sul Web, sta infatti sempre una medesima esigenza: la necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi del mondo globalizzato nel quale viviamo. «Quando la società soffre — osservò Émile Durkheim — sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suomale, qualcuno su cui vendicarsi delle sue delusioni». Per tanti piccoli negozianti francesi che a fine Ottocento soffrivano le conseguenze della crisi economica, era di ben scarsa soddisfazione sapere che a ridurli sul lastrico era stata una entità impersonale e inafferrabile come «il mercato». Assai meglio prendersela con le trame ordite dai Rothschild e dai loro confratelli ebrei.
La forza di ogni teoria complottista, ciò che ne favorisce il successo, è dunque il fatto che essa fornisce una spiegazione semplice di ciò che è complicato e spesso mai interamente spiegabile (chi è affetto dalla sindrome del complotto non crede all’eterogenesi dei fini, cioè al fatto che gli avvenimenti non corrispondono mai del tutto alle intenzioni iniziali dei protagonisti). Ma per l’Italia possiamo ipotizzare che la facilità con cui molti credono a complotti e congiure, ai «grandi vecchi» o ai «pezzi di Stato» che tramano nell’ombra e tutto decidono, si alimenti anche di una cronica sfiducia nelle istituzioni. È probabile insomma che nel nostro Paese la sindrome del complotto, unendosi al dilagante sentimento antipolitico, di questo condivida la popolarità e il successo.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 31 marzo 2012

02 aprile 2012

Così una donna minuta e gentile si è fatta mito per salvare un popolo


Il vero lavoro inizia ora: riforme costituzionali, lotta alla corruzione
di Paolo Giordano
In nome della libertà: per questo la Lady ha accettato di marcire in casa, lontano da marito e figli
C'è questo ragazzino che conosco, ha tredici anni e tutti i vizi e le virtù della sua età. I vizi riguardano, in particolare, una scorza che lo rende impassibile, quasi abulico nei confronti del mondo esterno; la sua virtù più spiccata è la schiettezza fulminante, sfrontata con cui è in grado di farti sentire di un altro pianeta già defunto. La settimana scorsa l'ho invitato al cinema, volevo che vedesse il nuovo film di Luc Besson, «The Lady», dedicato alla leader della resistenza birmana Aung San Suu Kyi. Io l'avevo visto appena qualche giorno prima e n'ero uscito sottosopra, fortemente ispirato da una forma astratta di eroismo, che in altre circostanze e in fasi precedenti della mia vita avrei liquidato come troppo zuccherosa. Mi sembrava che l'attualità della storia, la mancanza quasi totale di ombre dell'Orchidea d'Acciaio e l'impostazione un po' didascalica del film potessero essere di altrettanta ispirazione per un adolescente. Lui era scettico, non vedeva ragione d'impiegare tante forze, se ci tenevo tanto che ne sapesse qualcosa gli bastava consultare Wikipedia. «Non è lo stesso» ho insistito. Ci sono vicende alle quali bisogna partecipare con il corpo e con i sensi, bisogna sentirsele addosso per comprenderne la portata. Ho dovuto blandirlo con la promessa di un hamburger, ma alla fine mi ha seguito.
Fuori dal cinema, dove io avevo trattenuto a stento la commozione che m'invadeva per la seconda volta (accanto a lui mi sembrava patetica), era pensoso, contrariato. Ho creduto di aver raggiunto il mio scopo, renderlo più vulnerabile alle tragedie dell'umanità. Arrivati alla macchina, in quel suo modo lapidario, ha detto: «Comunque, di questa Birmania non ne parla nessuno».
Ho incassato, sapevo che aveva ragione. Ma poteva andare molto peggio. Senza Aung San Suu Kyi, senza il Nobel per la pace assegnatole nel 1991 e le fotografie del suo viso compassato sui giornali, della Birmania si parlerebbe ancora meno. Anzi, non se ne parlerebbe affatto. Gli U2 non avrebbero scritto quella canzone, Walk On, che la fece conoscere ai rockettari spensierati come me, Time non avrebbe dedicato una copertina a un Paese agli antipodi degli Stati Uniti e Luc Besson avrebbe continuato a dedicarsi alla tribù dei Minimei, ingrassando. Senza un uomo o una donna, a chi si può dedicare una canzone? A chi si conferisce il premio Nobel? A un popolo intero? La Birmania sarebbe diventata uno dei molti spazi neri sul mappamondo bucherellato dell'inconscio occidentale, l'avremmo semplicemente rubricato fra le aree ostili, dominate ancora dall'ingiustizia più bieca e dalla barbarie, uno dei tanti Paesi per i quali non è possibile fare nulla.
La nostra mente non è strutturata per accogliere i drammi collettivi. Quando le si para davanti l'onda gigantesca della sofferenza di un popolo, innalza subito una barriera protettiva. Il solo modo in cui quel dolore può intrufolarsi è attraverso la storia di un singolo individuo, meglio ancora se veicolata da un'opera d'arte - una canzone, un romanzo, un film -, che abbia anche una narrazione leggera. Aung San Suu Kyi, questo, lo ha sempre saputo e ha offerto se stessa come materiale vivente per quei racconti. Ha accettato di marcire dentro la stessa casa per quindici anni, lontana dal marito e i figli, inchiodata alla punizione peggiore per un'attivista, l'inazione, solamente per continuare a esserci. È il lumicino tenace che rischiara da oltre vent'anni la Birmania, per noi. Attraverso il suo sguardo fiero e amorevole siamo in grado di vedere un'intera nazione che altrimenti sprofonderebbe nel buio.
Mi accorgo, mentre scrivo di lei, che il tono delle frasi vira verso il celebrativo. Non ci sono abituato. Di solito, mi affretto a corrompere tutto ciò che ha il profumo dell'ideale con un po' di crudo realismo puzzolente. Ma con Aung San Suu Kyi non ci riesco. Desidero con tutte le forze mantenere intatto il mito che rappresenta, come un punto all'infinito a cui tendere, una perfezione asintotica fatta di coraggio e lealtà e purezza. Voglio mantenere la fede un po' idiota che il suo successo in queste elezioni, dopo che nel 1990 ne vinse delle altre immediatamente cancellate, sia la panacea per la Birmania, e dimenticarmi che la realtà di un Paese è molto più complessa di così, che ci saranno tensioni, lentezze, recrudescenze e altro sangue, forse. Non oso neppure rovinare la sua immagine iconografica, i fiori freschi tra i capelli e la mano alzata in segno di saluto. Credo sia il motivo per cui ho convinto quel ragazzino a venire al cinema con me: volevo che esistesse anche per lui un riferimento assoluto d'integrità. Ieri è stato lui a scrivermi un messaggio: «Aung ha vinto».
The Lady si conclude con una frase celebre del Premio Nobel: «Usate la vostra libertà per favorire la nostra». Più che un monito una preghiera, forte e difficilissima anche solo da concepire. La libertà, per noi, è quasi sempre un traguardo, si esaurisce nel suo conseguimento. Una donna minuta, dalla sua casa piantonata nell'entroterra birmano, ci fa sapere che è qualcosa di più e di meglio, è materia da plasmare, un mezzo. Ci sono molte altre nazioni sul mappamondo, disastrate almeno quanto il Myanmar, che attendono ancora la loro Orchidea d'Acciaio. Quello che dovremmo fare è molto chiaro, ce l'ha suggerito lei: usare la nostra libertà per favorire la loro. Ma, come al solito, saperlo non basta.
«Corriere della Sera» del 2 aprile 2012