06 febbraio 2012

Il ritorno della Volante Rossa

di Roberto Beretta
Esiste anche (forse è un po’ fuoritempo...) un revisionismo «di sinistra»... È il pensiero che viene alla mente riponendo la ricerca in cui Massimo Recchioni punta a «riabilitare» la Volante Rossa: ovvero il manipolo di ex partigiani comunisti che negli anni subito dopo la guerra seminò nel milanese sanguinosi episodi di «giustizia proletaria» ante litteram.
Non che l’autore non abbia qualche ragione di farlo, se è vero – come si attesta nel suo Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici in Cecoslovacchia (DeriveApprodi, pp. 220, euro 17) sulla base dei documenti processuali – che la mitizzata/demonizzata formazione si rese responsabile "soltanto" di tre assassinii di presunti fascisti, e non invece di tutto il codazzo di esecuzioni premeditate e delitti ideologici che la vulgata in genere le attribuisce. Però nelle testimonianze pazientemente raccolte dall’autore tra gli ex appartenenti alla formazione, con lo scopo di chiarire le «motivazioni che avevano causato vendette e giustizie partigiane» e per smentire che «questi ragazzi andassero in giro ad ammazzare avversari politici quasi per diletto», non sempre viene rispettata la proclamata imparzialità.
La figura centrale è il «tenente Alvaro», alias Giulio Paggio, giovanissimo comandante partigiano che nel 1945 alla Casa del Popolo di Lambrate – periferia operaia di Milano – fondò la Volante Rossa, prima come una sorta di dopolavoro turistico giovanile, poi con funzioni di banda paramilitare segreta. Il primo omicidio «antifascista» avvenne nel novembre 1947, gli altri due a gennaio 1949.
Di lì a poco Paggio venne aiutato a fuggire all’estero e rimase in Cecoslovacchia fino alla morte, avvenuta nel 2008, anche se il presidente Pertini aveva concesso a lui e ad altri esuli comunisti la grazia fin dal 1978. E proprio confortato da tale granitica coerenza di militante Recchioni traccia del «Tenente Alvaro» il partecipe ritratto di un uomo che «fece le sue scelte... con estrema generosità, accettando di pagarne le conseguenze fino in fondo» senza essersi (a differenza di altri, anche comunisti) «mai sottratto alle sue responsabilità, al suo destino e alla sua espiazione»: un giudizio che peraltro è stato applicato pari pari a molti brigatisti rossi non pentiti... In effetti la parte più interessante del volume riguarda la ricostruzione dell’emigrazione politica italiana in Cecoslovacchia dopo la seconda guerra mondiale, storia che presenta una dignità e persino una drammaticità umana più che rispettabili.
Ad esempio quando, dopo i primi mesi d’ambientamento in un ex collegio di Praga, i «compagni» italiani vengono spediti al nord a lavorare nelle miniere, nelle acciaierie o nelle colonie agricole e sperimentano sulla propria pelle – senza peraltro mai rinnegare la fede comunista – le contraddizioni del «paradiso socialista»: lavoro durissimo, case collettive, niente soldi, pochi servizi e poco cibo... «Si può dire che noi abbiamo cominciato a stare decentemente dopo il 1968», depone una testimone.
Qualche volta il Partito manda aiuti dall’Italia, ma «oggi parlano ancora di noi come esiliati d’oro, non immaginano neanche la vita di sacrifici che abbiamo dovuto fare»... È qui che la biografia del «Tenente Alvaro» – il quale all’estero ha dovuto assumere il nome di Antonio Boffi – e dei suoi sodali può circondarsi di un’aura di coerenza eroica. Anche quando Paggio torna a Praga e viene assunto a «Oggi in Italia», radio di controinformazione politica diretta al nostro Paese, la sua situazione economica e sociale non si fa certo idilliaca, anche perché nel frattempo ha fatto famiglia. Funge comunque da compensazione la solidarietà tra gli esuli italiani, fortissima pur nella reciproca ignoranza delle rispettive vicende personali o addirittura dei veri nomi – secondo la segretezza abituale nelle strutture politiche clandestine. Aspetti umani che colpiscono, indubbiamente; e che – insieme alla sostanziale rimozione compiuta nel frattempo dal Pci sul «sacrificio» di quei fedelissimi, diventato ormai molto scomodo nel gioco democratico – fanno riflettere sull’amaro destino di quegli uomini.
Ciò che difetta tuttavia è un’analisi storica e politica dell’operato di Paggio, con l’ammissione non tanto delle responsabilità della Volante Rossa (ammissione che per la verità non manca, anzi viene persino iscritta a merito dai protagonisti stessi) ma che le conseguenze delle sue azioni alla fine sono state negative, per tutti: per le vittime e per i colpevoli, ma più in generale per la democrazia in Italia. Così in questo volume tutta la vicenda dell’emigrazione politica italiana in Cecoslovacchia sembra bloccata sulla rivendicazione della qualità «antifascista» delle proprie scelte violente: essa da sola basterebbe a giustificarle. Ma oggi, 60 anni e una stagione di terrorismo dopo, questo non può certo accontentarci; anzi, esaltarne i protagonisti rischia di sviare altri giovani dietro un mito pericoloso. Resta dunque l’umano rispetto per la coerenza di quei militanti; però è impossibile condividerne l’oggetto. E occorre dirlo più chiaro.
«Avvenire» del 2 febbraio 2012

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