29 febbraio 2012

Homo, humanus, humanitas (Di Sacco - Serìo)

Brano tratto dal volume Il mondo latino, vol. 1, Bruno Mondadori 2000, pp. 151-152.
di Di Sacco - Serìo
La parola humanitas fu coniata solo nel I secolo a.C. e venne usata in particolare da Cicerone e da Cesare. Già nell'età arcaica, però, i romani conoscevano un concetto di homo e di humanus più ricco dei corrispondenti termini greci. Infatti nell'ànthropos, l«uomo», i greci ravvisavano una condizione effimera e infelice, a paragone di quella degli dèi beati e immortali.
Cicerone tenderà a identificare l'humanitas con la cultura e l'eloquenza, che rendono l'uomo humanus e politus in antitesi agli esseri indocti et agrestes. Nel I secolo a.C. Plinio il Vecchio sosterrà (Naturalis Historia III, 5, 39) che Roma ha dato l'humanitas all'uomo (humanitatem homini dare). Più approfonditamente, nel II secolo d.C., Aulo Gellio (13, 17) evidenzierà come humanitas sia una parola dal doppio significato: il primo, "benevolenza", corrisponde alla philanthropìa dei greci (solidarietà tra gli uomini, compassione nel dolore); il secondo, proprio del lessico elevato, indica l«educazione letteraria», significa «raffinatezza» e «cultura», quanto cioè di meglio distingue l'uomo dagli altri esseri viventi. Lo stesso Gellio sottolineerà che in questa seconda accezione humanitas si avvicina al concetto greco di paidéia ("educazione").
In ogni caso, per la mentalità romana l'essere uomo acquista un valore in quanto inserito in una comunità civile, la civitas: al di fuori di essa non c'è sostanzialmente posto per l'homo, inteso come essere razionale distinto dalle bestie, né per l'humanitas, vista come condizione antitetica alla feritas.
Sarà il cristianesimo a conferire a tale concetto quel superiore significato spirituale, di cultura, civiltà, moralità, che oggi noi gli riconosciamo. Ma sarebbe ingiusto tacere che la cultura greca, e segnatamente la filosofia ellenistica, aveva in parte già sprigionato l'attenzione per l'ambito individuale dell'uomo singolo: ne abbiamo parlato a proposito di Panezio. Su questa scia le voci più profetiche di Roma sviluppano un interesse autentico per le esigenze dell'individuo, per l'homo in sé, al di là del civis da Terenzio a Cicerone, da Virgilio a Seneca vibra a tratti una voce più profonda e matura, in cui 'il riconoscere e il rispettare l'uomo in ogni uomo» (è la pregnante definizione di humanitas data da Alfonso Traina) costituisce il tramite più immediato tra gli antichi e noi.
Riassumendo: il concetto di humanitas era il frutto di una mediazione culturale, perché sincretisticamente rielaborato dai romani a partire dalla filosofia e dalla letteratura greca; ma grazie all'incontro tra romanità e cristianesimo esso ha potuto esercitare per quasi due millenni un peso decisivo sulla storia dell'educazione e sulla cultura dell'Europa occidentale.

Il "circolo" scipionico e l'humanitas
Giusto questo concetto di humanitas rappresenta il frutto migliore dell'elaborazione del "circolo degli Scipioni". Naturalmente non era facile impiantare i valori dell'humanitas (amabilità, cortesia, urbanità, raffinatezza e, in senso più lato, cultura letteraria ed educazione al bello) sui preesistenti valori di gravitas, dignitas, constantia, auctoritas, elaborati dalla mentalità tradizionale romana. Acutamente Cicerone nel De re publica osserverà quanto fosse difficile realizzare questo connubio tra humanitas e mos maiorum, rilevando tuttavia come tale sintesi fu precisamente l'ideale realizzato dagli uomini del grex scipionico.
Bisogna peraltro domandarsi, come fa Bruno Snell, «se già nella cerchia di Scipione la parola humanitas fosse adoperata in questo senso che è divenuto così importante per i tempi futuri, ma a questa domanda non possiamo trovare risposta. Ci accostiamo forse maggiormente alla verità ritenendo che per i Romani fossero humani i Greci della specie dei personaggi di Menandro e Terenzio [...] e che essi indicassero appunto come humanitas il loro particolare modo di essere: questo concetto si connetteva poi naturalmente con la coscienza aristocratica romana e con l'idea che ci si faceva della cultura greca».
Va infine precisato che gli stessi filelleni romani non riuscivano a superare del tutto, sul piano dei comportamenti politici, la loro atavica presunzione di superiorità verso i greci; se le fonti ci attestano atteggiamenti ispirati a raffinata umanità (per esempio, Lucio Emilio Paolo versò lacrime, dopo la vittoria di Pidna, sulle sorti degli uomini, mentre Scipione l'Emiliano pianse sulle rovine della distrutta Cartagine, recitando Omero), tuttavia essi si resero anche responsabili di atti crudeli e spietati che male si conciliano con l'humanitas nel senso moderno della parola.

La paidéia greca
Per i greci la paidéia non è solo l'educazione ricevuta durante l'infanzia o l'istruzione scolastica; il concetto si allarga a una formazione complessiva della personalità, tale da coinvolgere l'intero arco dell'esistenza, al fine di realizzare una vita «degna di essere vissuta», come scrive Platone nel Simposio (211d). La paidéia greca concerne l'individuo singolo, ma anche la collettività; è pervasa di agonismo, implicando una lotta contro le proprie tendenze malvage, contro i cattivi influssi del destino e della propria epoca.
A partire dall'VIII secolo a.C. il tema educativo è trattato dai poeti epici, lirici e tragici; poi esso diviene centrale nella riflessione dei filosofi. I sofisti proclamano l'insegnabilità della virtù (areté) a chiunque: l'educazione è fornita di un metodo e si volge alla formazione essenzialmente intellettuale della persona. I limiti della paidéia sofistica sono segnalati da Socrate e Platone: occorre chiarire che cosa sia la virtù e, quindi, i fini ultimi dell'educazione.
Nel suo progetto di paidéia, mirato all'educazione di guerrieri e governanti (le masse lavoratrici ne sono escluse, potendo essere al più oggetto di una formazione professionale), Platone aggiunge dunque alla conoscenza l'educazione morale (da attuarsi mediante musica, ginnastica, addestramento militare, dialettica): attraverso la "terapia dell'anima" l'educatore si sforza di creare e mantenere l'equilibrio tra le diverse forze dell'anima. Il vero fine della paidéia diviene così la costruzione dell'uomo libero, libero dalle passioni e padrone di sé, in grado di occuparsi del bene proprio e della città. In questo senso, all'antica virtù aristocratica Platone sostituisce un'aristocrazia della virtù, raffinata appunto dall'educazione. Anche la passione e il desiderio, l'eros, risultano utili nel processo formativo. Platone pensa sia all'amore per la conoscenza, sia al rapporto tra maestro e discepolo, tra adulto e ragazzo, che il Simposio idealizza nella relazione tra Socrate e Alcibiade: Socrate è il vero maestro non perché è colui che sa, ma in quanto capace di una costante autoeducazione all'eros; su queste basi propone sé come modello agli allievi.
Rispetto a Platone, Aristotele tende a distinguere tra educazione intellettuale (via alla scienza, cioè alle diverse discipline, e all'intelligenza dei princìpi) ed educazione delle virtù etiche; paradigma dell'educazione non è dunque più il filosofo, bensì l'uomo saggio (phrònimos). Grammatica, ginnastica, musica e disegno sono, per Aristotele, le basi su cui il cittadino libero (e maschio) può occupare degnamente il proprio tempo libero (skholé), anche – ma non più esclusivamente, come in Platone – in rapporto alla vita della polis.
Postato il 29 febbraio 2012

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