31 gennaio 2012

Siamo pronti alla pillola della moralità? Se si cancella il libero arbitrio

Il filosofo Singer pone il dibattito in USA. Ma è il sintomo di una genetomania
di Massimo Pattelli Palmarini
Un test apre nuovi scenari sull'empatia degli uomini
Un blog del New York Times, con un articolo del noto filosofo dell'etica e ambientalista Peter Singer, professore a Princeton, ritorna in questi giorni su un esperimento effettuato sui ratti all'Università di Chicago lo scorso Dicembre dal neuroscienziato Jean Decety e dai suoi collaboratori.
L'esperimento fece molto rumore perché, come ho avuto occasione di descrivere io stesso sul Corriere della Sera , in essenza, aveva dimostrato che alcuni ratti (si noti: alcuni, non proprio tutti), posti di fronte a una situazione nella quale potevano tranquillamente mangiare della cioccolata, oppure liberare un altro ratto visibilmente imprigionato in un tubo trasparente, preferivano agire da liberatori e poi condividere con il compagno quella cioccolata. Nessuna differenza è stata osservata tra ratti maschi e ratti femmine nel liberare un compagno dello stesso sesso. Sono ancora in corso i più complessi esperimenti su maschi che liberano femmine o l'inverso.
L'empatia, cioè la condivisione soggettiva della sofferenza altrui, si rivela essere, quindi, evolutivamente molto antica. Risale a circa 60 milioni di anni addietro, quando roditori e primati avevano un antenato comune. Infatti, Decety mi conferma che i circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina.
Peter Singer riporta anche casi reali del tutto opposti, cioè suprema indifferenza degli esseri umani di fronte a una manifesta, tragica sofferenza di altri esseri umani. Si chiede se sarebbe possibile creare una pillola dell'empatia, un farmaco che, una volta somministrato, generasse compassione in chi ne è spontaneamente carente. Se questo fosse farmacologicamente possibile, avremmo, per i potenziali criminali, una terapia preventiva assai più semplice e indolore di quella rappresentata da Stanley Kubrick nel noto film Arancia meccanica.
Immaginiamo che una simile pillola, chiamiamola empaten , sia possibile. Decideremmo di usarla? Su chi e perché? Immaginiamo anche che un semplice test effettuato mediante prelievo di sangue riveli quali individui sono spontaneamente inclini all'empatia e quali non lo sono. Vorremmo somministrare ai secondi, preventivamente, l' empaten ? Solo se accettano, o anche se non accettano? E con quale autorità? Dove finirebbe il libero arbitrio? I commentatori del blog di Singer offrono un vasto spettro di opinioni, per lo più contrarie all'idea della pillola e tutte problematiche. In effetti i problemi sono molti e tutti spinosi. Per esempio, l'autore dello studio sui ratti, Jean Decety, ha anche verificato che nei medici e nei chirurghi l'empatia è assai attenuata, per necessità professionali. Rise quando gli tradussi il vecchio proverbio «Il medico pietoso fa la piaga puzzolente» e ammise che è un proverbio saggio.
Vorremmo somministrare l'empaten anche ai clinici? Personalmente ritengo che si sia tutti un po' succubi di una certa crescente neuromania e di una genetomania. Va benissimo sondare le radici neurobiologiche e genetiche di un numero sempre crescente di comportamenti, predisposizioni e stati d'animo. Meno bene, però, adottare di conseguenza un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore. Il libero arbitrio è un peso, ma dobbiamo sopportarlo. Le spontanee differenze comportamentali, caratteriali e morali tra gli individui arrecano incertezze e complicano la vita. Provocano anche tragedie e orrori, ma la soluzione non sarà una pillola o una stimolazione di aree cerebrali specifiche. I progressi della neurobiologia, la neurofarmacologia e la genetica ci consentiranno di capire meglio come siamo fatti, ci daranno un quadro più approfondito della natura umana, ma le conseguenze dovremmo trarle noi tutti, individualmente e collettivamente, con la mente, il sentimento, la persuasione e l'educazione. Cureremo meglio le malattie, anche quelle psichiatriche, ma con il pieno consenso dei pazienti. Nel blog, una signora di Arlington, Massachusetts, chiede, come paradosso, se vorremmo accordarci in anticipo sul punteggio finale del campionato di football. Il paragone mi sembra calzante. La vita quotidiana è piena di incerti e non vorremmo pillole che progressivamente li eliminassero tutti.
«Corriere della Sera» del 31 gennaio 2012

28 gennaio 2012

Il Giorno della Memoria: ecco l’antisemita di oggi

Odia gli ebrei per motivi ideologico-politici, demonizza Israele e ottiene il plauso del mediocre mondo culturale
di Fiamma Nirenstein
Qualsiasi cosa si scriva e si dica oggi nel Giorno della Memoria non servirà a porre fine all’antisemitismo. È difficile ormai credere nel potere della memoria. Questo giorno varrà come un tranquillante; potrà funzionare per blandire per alcuni minuti la coscienza europea che mal sopporta il crimine della Shoah.
Servirà a unificare momentaneamente politici e intellettuali di varie appartenenze che avranno la sensazione di lavorare per opporsi all’antisemitismo, motore di ogni persecuzione. Eppure anche coloro che si riuniranno per ricordare i propri morti nella Shoah, e con loro chi li sostiene, sanno ormai che, come dice lo scrittore yidish L. Shapiro, l’antisemitismo è eterno come è eterno Dio. Robert Wistrich, il maggiore studioso di antisemitismo afferma che «probabilmente sta peggiorando»: lo dimostrano i dati del mondo intero, oltre al fatto che su Internet esso è moneta corrente non sanzionata. Nel mondo arabo è obbligatorio. Risparmio al lettore l’elenco di dati europei molto noti, fra cui quelli della commissione parlamentare sull’antisemitismo che ci dice che circa il 44 per cento degli italiani non ha simpatia per gli ebrei. I numeri sono facilmente reperibili.
Lasciatemi dire, in questo giorno, che è pesante essere oggetto di antisemitismo, chi non ne ha esperienza non lo sa: ti costringe a misurare sul tuo naso, sul tuo corpo, la permanenza della storia. Una caricatura antisemita che mi rappresenta è stata accusata di essere tale dal bravo giornalista Giuseppe Caldarola, e per questo egli, oggi, così ha stabilito il giudice, dovrà versare a Vauro, il caricaturista, 25mila euro. Per aver detto la verità, basta guardare l’orribile disegnino pubblicato durante la campagna elettorale dal Manifesto. Vauro, disegnatore di sinistra, non può essere antisemita, e va addirittura ricompensato.
Il fatto che qualcuno abbia giustificato (su Libero) la sentenza contro Caldarola perché io difendo Israele, è un errore: quando il Parlamento intero ha votato contro la conferenza antisemita di Durban, il suo onore è stato innalzato. L’antisemita, poiché sopravviverà a lungo, deve avere almeno la forza di riconoscersi tale, deve pagare il fio culturale del suo odio per gli ebrei nella loro espressione più evidente, lo Stato degli Ebrei, Israele.
Ci siamo illusi: il sionismo nasce come uno dei tanti movimenti nazionali dell’800 con la speranza della normalizzazione. Una volta nella loro terra, gli antisemiti non avrebbero avuto più ragione di perseguitare gli ebrei. È accaduto il contrario: la Lega Araba e le Nazioni Unite hanno fatto qualsiasi cosa per rendere la nazione ebraica una continua anomalia. Qui nasce l’antisemitismo politico-ideologico. Esso segue nei secoli a quello religioso e poi a quello scientifico dell’illuminismo, e poi a quello razziale dei nazisti. Ma il minuto dopo la «partizione» dell’ONU i Paesi arabi attaccavano Israele, e l’ONU nemmeno sospirò per la violazione della sua stessa risoluzione: gli ebrei erano di nuovo nella posizione di accusati.
Il doppio standard oggi è la cartina al tornasole dell’antisemitismo. Vauro mi ha ritratto in forma di orrido mostro giudaico, naso adunco, stella di David, fascio. La causa: la candidatura nelle file del PDL. Non mi risulta che niente del genere sia accaduto a nessun altro candidato. Solo a me, perché sono ebrea.
Nel 1982 al tempo di Sabra e Chatila, quando 800 palestinesi furono sciaguratamente uccisi dai cristiani maroniti nella zona si trovava l’IDF che non li difese. Israele fu accusata dell’eccidio con toni definitivi. Nello stesso anno Hafez Assad di Siria non subì nessuna critica per avere ucciso a Hama decine di migliaia di suoi compatrioti. Il doppio standard e la demonizzazione sono due metri indispensabili per capire l’antisemitismo, e Giuseppe Caldarola, avendolo denunciato è stato condannato a pagare a Vauro, autore della caricatura un indennizzo di 25mila euro. Leggere fra i commenti al suo blog permetterà al lettore di informarsi dettagliatamente sulla forma del mio naso.
Il cristianesimo che si ritenne Verus Israel consentiva la conversione, l’illuminismo promette tutto al cittadino e niente al popolo ebraico, i fascisti, i nazisti ti uccidevano in ogni caso, il comunismo ti perseguitava per il tuo cosmopolitismo. E anche chi ti nascondeva. Oggi, se dici la verità su Israele, se lo ami, hai il naso adunco e la stella di David cucita sul petto.
«Il Giornale» del 27 gennaio 2012

Negare, banalizzare, sacralizzare: i tre errori che oscurano la Shoah

Le
di Giorgio Israel
In occasione del Giorno della Memoria 2012 Valentina Pisanty pubblica Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori) in cui identifica gli abusi di memoria nei meccanismi della negazione, banalizzazione e sacralizzazione della Shoah. Pisanty accenna ai limiti della Giornata, spesso intrisa di «retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente» e di «derive banalizzanti e sacralizzanti», dovute all’aver legato la Shoah alla categoria (soggettiva) della memoria anziché a quella (tendenzialmente intersoggettiva) della storia. Banalizzazione e sacralizzazione sono facce della stessa medaglia: la prima spoglia la Shoah «dei suoi attributi specifici per equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo»; la seconda la proietta in «una dimensione metafisica e ultrastorica». È una tesi che condivido. La enunciò per primo Alain Finkielkraut trenta anni fa, sostenendo che l’idea dell’unicità del «genocidio» ebraico avrebbe creato un corteo di «aspiranti» miranti a ottenere il «privilegio» dello stato di vittima suprema. L’ho sviluppata criticando la tesi dell'unicità della Shoah, vista come evento metafisico e astorico, nel libro La questione ebraica oggi e in tanti articoli. Ho sostenuto che è legittimo istituire confronti storici tra la Shoah ed eventi comparabili come il Gulag sovietico. Tutto ciò mi è costato (anche di recente) critiche veementi da parte dei «sacralizzatori». È quindi con divertita sorpresa che vedo arrivare l’attacco opposto: Pisanty mi presenta come «sacralizzatore», per un articolo pubblicato sul Giornale (15 febbraio 2011) in cui criticavo episodi di banalizzazione: l’uso dello slogan Se non ora quando (titolo di un celebre libro di Primo Levi) da parte dei «partigiani antiberlusconiani»; il corteo degli insegnanti che sfilarono con la stella gialla contro la riforma Gelmini.
Il meccanismo critico «semiologico» di Pisanty è interessante. Si scarta in nota il fatto che esistano miei scritti in cui critico la sacralizzazione: conta solo l’articolo sul Giornale. E si fa un’operazione di ricostruzione degli «spazi vuoti di cui il testo è intessuto» per sostenere che «non è di banalizzazione che si sta discutendo ma di una colpa di lesa sacralità della memoria». La mia tesi sarebbe che il «nocciolo dell’identità ebraica è lo scontro eroico con un nemico immensamente più potente». Che tale tesi non mi appartenga affatto non conta: essa c’è, «sia pure in forma implicita e “tecnicizzata”» (?) negli «spazi vuoti» e usa «gli stessi meccanismi sacralizzanti che l’autore altrove respinge». Una serie di ardite acrobazie sugli spazi vuoti mi attribuisce pure la sacralizzazione di «resistenza e sionismo assieme alla Shoah»… Inoltre, conferirei solo ai sostenitori dell’attuale politica israeliana il diritto di usare lo slogan di Levi. Si conclude con la reboante condanna: «interpretazione insostenibile se non francamente scandalosa».
Viene da ridere leggendo che, per attribuirmi queste tesi, «gli impliciti da riempire per dare un senso coerente al testo si moltiplicano», che «le inferenze necessarie sono al di sotto della consapevolezza critica» e la mia sacralizzazione non è forse «neppure intenzionale. Ma è più che altro malinconico che l’autrice non si renda conto che il meccanismo messo in atto - ignorare il pensiero altrui nel suo complesso, appuntarsi su un singolo testo, «riempiendolo» del senso voluto, anche contro l’evidenza - appartiene alla metodologia inquisitoria di tutti i tempi.
Il senso del mio articolo - che lo rende del tutto coerente con la critica della banalizzazione e sacralizzazione come facce della stessa medaglia - sta proprio nell’aver criticato la pretesa di stabilire ogni sorta di comparazione. Chi ha un minimo di senso storico può comparare la Shoah con «altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo», come il Gulag, ma non includere tra questi la riforma Gelmini e il governo Berlusconi. Più che la storia ne va di mezzo il buon senso. Pisanty, invece di leggere questa tesi ne ha costruita una ad hoc. Cosa l'ha spinta a una simile figuraccia? Viene da chiedersi: se qualche categoria sgradita, un po’ «reazionaria» - che so io, i tassinari - fosse scesa in piazza con la stella di David e avessi scritto lo stesso articolo contro questa banalizzazione (di certo l’avrei fatto), Pisanty mi avrebbe criticato allo stesso modo? Sospetto che mi avrebbe addirittura lodato. Ma qui mi fermo, perché non intendo scendere sullo stesso terreno di un metodo che riempie gli spazi vuoti con una mediocre psicanalisi. Preferisco il metodo dell’analisi storica, il riferimento all’integrità del pensiero altrui, il diritto di chiunque a criticare chiunque (inclusi i governi di Israele); incluso quello di criticare come indecenza banalizzante/sacralizzante l'omologazione dei «partigiani» e degli insegnanti antiberlusconiani alle vittime di Auschwitz, senza l’assurdo di vedersi ritorta l’accusa che si sta muovendo. Di certo, attorno al Giorno della Memoria la confusione cresce, il che, con i tempi che corrono, è assai preoccupante.
«Il Giornale» del 27 gennaio 2012

25 gennaio 2012

Perché ci baciamo resta un mistero

Per scoprire l’origine del bacio si sono impegnati antropologi, biologi, etologi. Ma nessuna ricerca è approdata a qualcosa di certo
di Marco Rossari
Nonostante sia un gesto comune che per amore o amicizia quasi ogni individuo reitera addirittura su base quotidiana, le opinioni intorno all'«osculazione» divergono. Gli scienziati proprio non sono riusciti a trovare una linea univoca sui motivi che ci hanno spinto a questa pratica bizzarra: sarà un fenomeno naturale o di natura culturale? Derivante dall'istinto o dall'apprendimento? E quali reazioni scatena nel nostro corpo, dalle estremità fino al cervello? Soprattutto: di che diavolo parliamo quando alludiamo all'atto definito da questo termine infelice? Parliamo di bacio, semplicemente. Questo gesto, che innesca una forte reazione emotiva e ha un palese significato evolutivo, ha spinto Sheril Kirshenbaum, giornalista scientifica dall'anima pop, a indagare con l'aiuto della biologia e dell'antropologia, delle neuroscienze e della psicologia, quella che l’attrice Mae West, primo sex symbol del cinema americano, chiamava «la firma di un uomo». O di un animale, tanto per cominciare. Perché quando Darwin si convinse che l'uomo fosse il solo a sapere baciare prese un abbaglio grande come una casa.
Anche se parrà un brano partorito dalla fantasia di Gianni Rodari, oggi sappiamo che le talpe si strofinano il muso, le tartarughe si danno qualche colpetto con la testa, i porcospini si sfregano il naso (altre parti libere, d'altro canto, non sarà facile trovarne), i criceti si piazzano faccia a faccia, i gatti si leccano, le giraffe intrecciano il collo e diverse specie di pipistrelli usano perfino la lingua. D'ora in poi, vietato affermare: «Baci come un animale». Potrebbe essere scambiato per un complimento.
Più complesso determinare come la prassi si sia affermata fra gli esseri umani. Le teorie sono tante. Secondo il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran, i nostri antenati, una volta suggestionati a puntare sul colore rosso a caccia di cibo (leggi: i frutti maturi in mezzo al fogliame), hanno applicato quell'istinto all'anatomia femminile, passando dalle zone intime alla bocca, che già il celebre Desmond Morris definiva «un'eco genitale». A quest'ultimo si deve anche la seconda teoria, che collega in modo ragionevole la sensazione di benessere alla fase dell'allattamento. Sempre all'infanzia si fa risalire la terza ipotesi, quella sulla «premasticazione», un metodo essenziale da che esiste il genere umano per svezzare bambini ancora non autosufficienti. Se ci rivolgiamo all'anatomia potremo invece scoprire che non c'è alcuna relazione tra la mano con la quale scriviamo e il fatto di inclinare la testa a destra nel corso di un bacio. Anche qui le opinioni divergono: c'è chi sostiene che la faccenda abbia inizio nell'utero e chi con l'allattamento Di sicuro, per quanto poco sexy, sarà istruttivo sapere che lo zygomaticus major, lo zygomaticos minor e il levator labii superior lavorano di concerto a sollevare il labbro superiore, mentre il depressor anguli oris e il depressor labii inferioris spostano quello inferiore. A quel punto entrano in gioco le terminazioni nervose: le minuscole ma alacri connessioni mandano una cascata di segnali alla corteccia somatosensoriale e al sistema limbico. Così gli impulsi neurali spingono il nostro corpo a produrre una serie di neurotrasmettitori e ormoni, tra cui dopamina, ossitocina e serotonina. Crederete di aver baciato il principe azzurro o la donna ideale, ma in verità siete solo manovrati da una cascata di endorfine prodotte dalla ghiandola pituitaria e dall’ipotalamo. Forse non sembrerà molto romantico, ma l'amore ha un nome ed è epinefrina (più nota come adrenalina).
Certo, se diamo retta ai biologi potremmo invece farci l'idea che a spingerci a baciare siano soprattutto i nostri germi, smaniosi di fare a cambio con i loro consimili. Negli anni Cinquanta un ricercatore del Baltimore City College stabilì che due individui innocentemente dediti a sdilinquirsi nelle ultime file di un drive-in si scambiano 278 colonie di batteri, per quanto innocui al 95%, e questo perché la nostra saliva contiene cento milioni di germi al centimetro cubo. Sarà da qui che avrà origine la cosiddetta filematofobia, ossia "paura del bacio", dietro la quale si nasconde il timore per l'Herpes o per il virus Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi o "malattia del bacio"? Nell'ambizione di scoprire quale eco avesse nel nostro corpo lo stucchevole "apostrofo rosa" (così definito da Rostand, l'autore del Cyrano), la Kirshenbaum s'è spinta fino al laboratorio di un neuroscienziato cognitivo, per cercare - con risultati poco rilevanti, va detto - di "vedere" grazie a uno strumento di scansione cerebrale, ossia la macchina della magnetoencefalografia, detta affettuosamente MEG, la reazione di un gruppo di volontari alla visione di qualche bacio in fotografia. S'è arresa con un nulla di fatto. Ci vuole anche un briciolo di mistero. O di poesia, se si preferisce. Quella di uno come E.E. Cummings, ad esempio, che se ne intendeva: «I baci sono un destino migliore della saggezza». Parole sagge che cascano al bacio
«Corriere della Sera» 24 del gennaio 2012

24 gennaio 2012

Mi scusi, dov’è il Medioevo?

Storia
di Franco Cardini
Ormai da anni siamo obbligati a registrare il fenomeno dell’attualità-attualizzazione del medioevo: magari di un Medioevo da cinema, da televisione, da festa cittadina o paesana, da war games, da heroic fantasy, che irrita molti medievisti seri, quelli che insegnano all’università, mentre ne divertono o ne tentano alcuni altri, che intravedono la possibilità di conquistare allo studio severo del medioevo qualche giovane (ora che l’università è in calo) facendolo divertire o che, più banalmente, sono a loro volta in cerca di visibilità in questa società dell’immagine.
Uno studioso che senza dubbio non ha bisogno di correre dietro alla notorietà, perché ne ha fin troppa, è Umberto Eco, che da molto tempo, soprattutto da quando dovette gestire il colossale successo di Il nome della rosa, si è posto il problema del rapporto tra il medioevo "vero" (quello della storia e della filologia) e quello a più livelli immaginato, rielaborato, ricostruito e sconvolto.
Ora esce il suo volume conclusivo, dedicato a Il Medioevo e sintetizzante la grande opera in dieci volumi redatta sotto la sua guida per Encyclomedia. Eco, medievista e studioso di estetica medievale per formazione, è stato a lungo affascinato e lo è senza dubbio ancora, dalla vitalità di un medioevo che poco forse ha a che fare con quello reale, ma che comunque impazza nelle rievocazioni e nelle ricostruzioni di ogni genere, dalle più o meno velleitariamente "fedeli" a quelle scopertamente "fantastiche". Ma in fondo bisogna pur ammettere di essere ancora prigionieri, due secoli e più post eventa, dal micidiale duello tra illuminismo e romanticismo, tanto fondamentale per la contemporaneità.
Già un grande studioso di alcuni anni or sono, aveva ricostruito questo scontro in un libro divenuto un "classico", La polemica sul Medioevo. Agli enciclopedisti e a Voltaire, che avevano condannato e ridicolizzato il medioevo era della superstizione, della violenza, della barbarie e del fanatismo, il romanticismo aperto da Novalis e da Chateaubriand aveva risposto col Medioevo europeo e cristiano della poesia e delle cattedrali, quel medioevo su cui, riferendosi alla storia italiana, è tornato recentissimamente a insistere Paolo Golinelli col suo Medioevo romantico. Poesie e miti all’origine della nostra identità (Mursia).
Ma Tommaso di Carpegna Falconieri, guardando al presente, è andato oltre e, nel suo Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati (Einaudi), è partito dal gioco attualizzante del medioevo (quello delle molte sagre e rievocazioni che oggi fioriscono non solo in tutta Europa, ma nel mondo intero, dall’America all’Australia al Giappone, e alle quali il diffuso mensile Medioevo dedica regolarmente una ricca rubrica fissa dal titolo Medioevo oggi) per studiare, con particolari eruditi e finezza interpretativa, il fenomeno della politicizzazione di massa di un Medioevo preso a pretesto dalla demagogia politica in infinite occasioni: dal "giuramento leghista" di Pontida all’incitamento a "nuove crociate" in difesa dell’Occidente invaso dai "nuovi barbari", gli extracomunitari, fino alle risorgenti paure della fine del mondo.
Rispetto alla medievistica, termine designato per indicare il complesso di materie di tipo storico, filosofico e filologico che studiano l’età tra V e XV secolo e convenzionalmente posta sotto la denominazione di "Medioevo" il fenomeno proposto dal di Carpegna Falconieri è il "medievalismo", che può non andar disgiunto da un serio impegno erudito oppure giungere a livelli di assurdità abbastanza divertente o irritante, ma che qua e là può addirittura turbare e preoccupare: come nel caso del serial killer Breivik e delle sue ossessioni templari le quali ci obbligano a domandarci se il diffuso associazionismo e le ossessive mode "neotemplaristiche" siano davvero innocui, e fino a che punto.
Il "gioco del Medioevo" riconduce comunque, lo si voglia o no, al "vero" medioevo, quello che continua a essere oggetto di studio serio e impegnato, correlato a scuole precise e sostenuto da una ricerca metodologicamente condotta. Non si tratta necessariamente di materia per i soli addetti ai lavori. Chi è abituato a pensare al bislacco medievalismo che troppo spesso s’incontra in tv, con le sue improbabili connessioni tra fantascienza, ufologia e misteriosofia, deve tener presente che spesso la realtà storica supera la fantasia. In un libro straordinario, uno dei più belli e geniali che siano stati scritti nel Novecento, Le pietre che cantano, Marius Schneider ha studiato i capitelli del duecentesco chiostro di Sant Cugat del Vallès in Catalogna, dimostrando che ciascuno dei vari animali in essi scolpito ha un preciso valore in termini di scala musicale: il chiostro è un immenso spartito, che può esser letto, musicato e cantato.
Qui la realtà supera di gran lunga la fantasia: ma si tratta di un’appassionante ricerca che richiede fatica e acquisizione di competenze, che non si esaurisce nella lettura di qualche libretto funambolesco acquistato in edicola. Ecco perché bisogna salutare davvero come un evento la pubblicazione di un’opera seria e prestigiosa, l’Atlante storico della musica nel medioevo, pubblicato dalla Jaca Book su un progetto editoriale di Vera Minazzi, con il contributo di F.A. Gallo. Pregio specifico di questa grande opera è l’avere contestualizzato la musica in un universo che mostra com’essa fosse strettamente collegata non solo alla filosofia, alla letteratura, alle scienze (a partire ovviamente dalla matematica) e alle arti (principale fra tutte l’architettura, essa stessa scienza a sua volta) del suo tempo, ma anche alla vita politica e sociale.
La scoperta di Marius Schneider, ad esempio, da sola, vale molto di più di mille "misteri templari" evocati da sedicenti esperti, e fa capire come davvero ci siano più misteri nel nostro Medioevo, quello vero, di quanti non possano neanche immaginare quanti sono abituati a cercar di risolvere il mistero del Graal leggendo libretti new age.
«Avvenire» del 24 gennaio 2012

21 gennaio 2012

Grazie, Capitano

di Aldo Grasso
Quando ci vuole ci vuole. Ci sono espressioni che, pur usurate dalla quotidianità, conservano una loro volgarità di fondo. Ma in circostanze come queste, quando l’intontito comandante della Concordia sembra non rendersi conto del disastro che ha combinato, assumono persino un che di nobile, quasi fossero l’ultima risorsa della disperazione.
La drammatica telefonata tra Francesco Schettino e il capitano di fregata Gregorio Maria De Falco della Capitaneria di porto di Livorno è forse il documento che meglio testimonia le due anime dell’Italia. Da una parte un uomo irrimediabilmente perso, un comandante codardo e fellone che rifugge alle sue responsabilità, di uomo e di ufficiale, e che si sta macchiando di un’onta incancellabile.
Dall’altra un uomo energico che capisce immediatamente la portata della tragedia e cerca di richiamare con voce alterata il vile ai suoi obblighi. In mezzo un mondo che affonda, con una forza metaforica persino insolente, con una ferita più grande di quello squarcio sulla fiancata.
Il capitano De Falco fosse stato sulla nave sarebbe sceso per ultimo, come vuole l’etica del mare. Al telefono non può che appellarsi al bene più prezioso ed esigente che possediamo: la responsabilità personale. Ogni volta che succede un dramma la colpa è sempre di un altro, persona o entità astratta non importa. Eppure la responsabilità personale — quell’insieme di competenza e di senso del dovere, di cura e di coscienza civica — dovrebbe essere condizione necessaria per ogni forma di comando, in terra come in mare. E invece le nostre miserie e le nostre fragilità ci indicano sempre una via di fuga, ben sapendo che il coraggio rende positivi anche i vizi e la viltà rende negative le virtù.
Quella frase «Vada a bordo, cazzo!» («Get on Board, Damn it!» così tradotta nei tg americani) è qualcosa di più di un grido di dolore, di un inno motivazionale, di un segnale di riscossa. Il naufragio è uno degli archetipi di ogni letteratura perché illustra i rischi dell’esistenza umana nel corso della «navigazione della vita». Esso rinvia agli atteggiamenti fondamentali che si assumono nei confronti del mondo: in favore della sicurezza o del rischio, dell’estraneità o del coinvolgimento negli eventi, del ruolo di chi sprofonda e di chi sta a guardare dalla terraferma.
Ma ci vuole un grido che scuota e ci infonda coraggio, che, ancora una volta, ci richiami alle nostre responsabilità. Ecco perché ieri su Twitter era l’hashtag più utilizzato, una sorta di mantra collettivo. Ecco perché vorremmo, in ogni occasione, per chi guida il Paese o per chi fa semplicemente il suo mestiere, ci fosse qualcuno come il capitano De Falco che ci richiamasse perentoriamente all’ordine. (Intanto, su Internet, c’è già chi vende la t-shirt con la frase. E qui torniamo all’Italia degli Schettino).
Vada a bordo, e quello non ci è andato (ora è a casa agli arresti domiciliari in attesa che la giustizia faccia il suo corso e che la coscienza gli ridesti il senso dell’onore). Due uomini, casualmente due marinai campani, due storie: l’una che ci umilia, l’altra che tenta di riscattarci. Grazie capitano De Falco, il nostro Paese ha estremo bisogno di gente come lei.
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2012

20 gennaio 2012

La Russia rinasce con Dostoevskij

Lettere e società
di Alessandra Zaccuri
«In Russia il comunismo ha peccato di ingenuità: non si può togliere Dio a un popolo che legge Dostoevskij. Sarebbe come illudersi di poter togliere Dio a un popolo che legge Dante». Parola di Tat’jana Kasatkina, che presso l’Accademia delle scienze di Mosca presiede appunto la commissione per lo studio dell’autore di Delitto e castigo. Filologa e critica letteraria, da qualche anno è di casa nel nostro Paese, come testimoniano le conversazioni raccolte in Dal paradiso all’inferno (Itaca Libri, a cura di Elena Mazzola, pagine 224, euro 14,00), tutte incentrate sull’indagine dei «confini dell’umano in Dostoevskij». Ieri sera, a Milano, la professoressa Kasatkina ha partecipato al Teatro Dal Verme alla serata di letture dostoevskijane affidata alla voce di Massimo Popolizio all’interno del ciclo “Le forze che muovono la storia” organizzato dal Centro culturale di Milano (per informazioni www.cmc.milano.it); giovedì alle 18 sarà a Brescia, per un incontro nell’Aula magna dell’Università cattolica, e domenica alle 18 a Roma, presso la sala del Centro internazionale di via Malpighi 2. «Dostoevskij – osserva – è lo scrittore russo della sua epoca più vicino ai lettori di oggi, giovani compresi. Più di Tolstoj, grandissimo romanziere, certo, che però finisce per allontanarsi da noi per la sua preoccupazione di impartire precetti morali. Si presenta come un maestro, vuole insegnarci la bontà, ma davanti a questa pretesa l’essere umano si sottrae, perché intuisce l’accusa nascosta in un simile atteggiamento: “Così non va bene, pare che sostenga Tolstoj, non sei come dovresti essere, non sei abbastanza buono”. Dostoevskij, al contrario, lancia un richiamo al qual l’essere umano non può non rispondere. “Sii, dice a ciascuno di noi, diventa te stesso”. È una sfida completamente diversa, che implica il rischio, l’avventura, un totale abbandono all’inatteso».
Anche il pericolo di perdersi? Il concetto dostoevskijano di «sottosuolo» non è del tutto rassicurante ...
«Perché viene frainteso. Nei Ricordi del sottosuolo Dostoevskij rappresenta l’uomo del suo tempo, al quale non è stata neppure data la possibilità di credere in Dio. Una condizione terribile, con il mondo ripiegato su se stesso, chiuso a ogni occasione di incontro con l’Assoluto. È il momento in cui l’umanità crede di salvarsi con le sue sole forze, facendo affidamento sulla propria intelligenza. Il cosiddetto “uomo del sottosuolo” non rappresenta il nostro lato di tenebra, ma il disaccordo radicale nei confronti di questa limitazione. Sente di essere più grande di ciò che gli viene imposto, è come se dovesse sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mutili per adeguarlo alle richieste della mentalità corrente. Ma lui sa che nella sua persona non c’è nulla di superfluo e quindi non può smettere di picchiare conto la “parete di pietra” eretta dalle leggi di natura, a causa della quale sarebbe condannato a un’esistenza solo orizzontale. Del resto, già prima di scrivere Ricordi del sottosuolo, in alcune pagine poi espunte da Memoria da una casa morta Dostoevskij aveva affermato con chiarezza che la vera pena non sta nella sofferenza e neppure nella reclusione: l’uomo soffre veramente solo quando sa di non essere più libero».
E qui torniamo all’era sovietica, al suo primo incontro con Dostoevskij.
«Ho scoperto L’idiota a undici anni: allora non potevamo conoscere il Vangelo, ma potevamo conoscere il principe Myskin. È stata la mia e la nostra salvezza. Dostoevskij ci ha fatto capire che eravamo costretti a vivere sotto un cielo artificiale. Meglio, sotto una stuoia che era stata stesa al posto del cielo. Intendiamoci, anche oggi c’è qualcuno che si adatta a stare sotto una specie di ombrello che lo separa da Dio. Ma per la maggior parte di noi quella era la morte. Dostoevskij è stato più di uno scrittore: è stata la persona che ci ha aiutato a liberarci di quella stuoia, in modo da ritrovare il cielo. Andando oltre la parete di pietra, insomma».
Vale anche per la Russia di oggi?
«Dopo le scorse elezioni è accaduto qualcosa di sorprendente per la sua naturalezza. A Mosca sono scese in piazza non meno di trentamila persone (cinquantamila, secondo alcuni), non con l’intento di creare disordini, ma per guardare finalmente il potere negli occhi. “Non capiamo come sia possibile continuare a mentire così”, questa è la sostanza della ribellione, che coincide con la richiesta di essere trattati non come sudditi, bensì come esseri umani. Le proposte che hanno preso a circolare sul web non sono rivolte alle autorità, ma ai singoli cittadini, alle persone nella loro straordinaria e irripetibile singolarità. Il compito è lo stesso indicato da Dostoevskij: “Sii”, e cioè “diventa uomo in tutta la tua pienezza, lì dove ti trovi, in ciò che fai ogni giorno”. La vera rivoluzione russa sta in questo cambiamento interiore, che prescinde dai passi che il governo vorrà o non vorrà compiere».
«Avvenire» del 17 gennaio 2012

Ragazzi, non tutto è merce e il mondo non è un palcoscenico

Un 14enne, il suo sito, le foto osé delle amiche
di Umberto Folena
Chissà se Alex (nome di fantasia) si sta rendendo conto di quel che ha fatto. Se sa che cosa significhi essere «indagato» dalla Procura minorile della sua città, Bolzano. Se i suoi genitori gli stanno spiegando quel che egli non deve aver compreso nei suoi primi 14 anni di vita. Se le compagne di scuola sono sollevate o dispiaciute per la chiusura del sito dove Alex collocava, da collezionista che ostenta la sua collezione con orgoglio, le foto in cui si mostravano seminude in pose da loro ritenute provocanti.
Chissà. Non è il primo né sarà l’ultimo episodio che dimostra come una porzione di nostri figli si affacci all’adolescenza con il cuore e la coscienza anestetizzati. Peggio: mitridatizzati. Non solo non sembrano provare pudore, vergogna, riprovazione, indignazione e altri sentimenti analoghi, ma riescono a ignorarli senza farsene sfiorare. È come se dosi minuscole ma quotidiane di "veleno" – il veleno dell’indifferenza, del corpo considerato come oggetto, della messinscena e dell’ostentazione continue come cifra dell’esistenza – li avessero resi immuni dal veleno stesso, consentendo loro di maneggiarlo con noncurante disinvoltura.
Una porzione di adolescenti, sia chiaro. L’errore, da circa cinque millenni, ossia da quando abbiamo testimonianze in merito, è il solito: far coincidere la parte con il tutto. Alex, con il suo sito internet chiuso dalla polizia postale di Bolzano, è il classico albero che cade, fa un gran fracasso e induce i pigri, i miopi e i pessimisti a oltranza a credere che sia crollata l’intera foresta. Alex non è solo, ma non è neppure maggioranza. È però una minoranza vistosa, esibizionista, fragorosa che rischia di oscurare la maggioranza di quattordicenni che vivono accanto ad Alex senza farsene sfiorare, senza condividere pressoché nulla del suo mondo.
Alex però c’è, ingombrante e inquietante. È un segno dei tempi che sarebbe imperdonabile ignorare. Alex, e le sue amichette felici di finire nel suo sito, orgogliose delle proprie forme acerbe offerte allo sguardo di tutti, giovani e vecchi, sono l’icona indigesta del mondo come palcoscenico, dove tutto va esibito. Alex e amiche l’hanno "imparato". Vedono e ascoltano adulti i cui sforzi sono protesi tutti e soltanto all’apparire; al riuscire a strappare sguardi e commenti ammirati; al circondarsi di oggetti totemici la cui magia conferisca il potere di sedurre e comandare. Alex e amiche semplicemente si adeguano, a modo loro, da quattordicenni.
Dispiace doverlo ammettere, ma aveva ragione Guy Debord (noioso, rancoroso, antocontemplativo... tutt’altro che un "maestro", per noi) quando, nel 1967, affidava al suo libro La società dello spettacolo una terribile profezia. Dello slittamento dall’essere all’avere avrebbe scritto Erich Fromm nel 1976, con ben altro spessore. Debord vedeva oltre: lo slittamento era triplice, dall’essere all’avere e dall’avere all’apparire, quell’apparire «da cui ogni "avere" effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima». Tutto diventa spettacolo, nella società – oggi di Alex e amiche – in cui lo spettacolo, suggerisce Debord, è il «rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini».
Chissà se, come ieri un’agenzia di stampa affermava sicura, il fenomeno del sexting – l’ostentazione mediatica di sé come corpo ridotto a merce da esibire e osservare – «dilaga tra i giovanissimi». C’è, non va sottovalutato, ma forse non è così «dilagante». La speranza è che qualcuno spieghi ad Alex e alle sue amiche che non tutto è merce e c’è qualcosa che appartiene soltanto a noi, e non va esibito. Che la vita non è un grande spettacolo e la società non è un colossale palcoscenico, anche se qualcuno ha interesse a farcelo credere per renderci più docili, creduloni e manipolabili. Il corpo, il cuore e la coscienza, strettamente uniti, sono soltanto nostri e vanno donati, con generosità e prudenza, al momento opportuno a chi ne è veramente degno.
Già , ma chi? Chi può spiegarglielo non può essere che un adulto, autorevole perché credibile. Un educatore vero. Ciò di cui c’è più che mai un disperato bisogno, dietro le quinte del palcoscenico.
«Avvenire» del 19 gennaio 2012

Il Paese senza nome

L’etica della vita e i 44 milioni di aborti
di Francesco Ognibene
​Quanti sono 44 milioni di persone? O meglio: a cosa equivale un numero così ingente di donne e uomini? Atlanti alla mano, parliamo di un numero quasi pari agli abitanti di Paesi come l’Ucraina (45 milioni) o la Colombia (44,8), un po’ meno della Spagna (46,6) ma assai più della Polonia (38) o dell’Argentina (40). Ecco: ogni anno nel mondo un’ipotetica nazione composta da 44 milioni di individui viene cancellata, rimossa, semplicemente azzerata ancor prima che se ne possano enumerare i componenti. Vite, destini, intelligenze, scelte, geni, quotidianità che non saranno mai conteggiati da alcun registro anagrafico, privi persino di un nome, buoni solo a far statistica.
Questa rimozione a sei zeri accade oggi per effetto degli aborti – ufficiali e clandestini – praticati ogni anno e per ogni dove, sotto l’ombrello di leggi che lasciano fare o di altre più restrittive, ma anche là dove la pratica è tollerata o persino proibita. Aborti conteggiati con precisione dallo Stato, e altri semplicemente stimati, fino all’approssimazione assoluta di aree del mondo dove già contare chi viene al mondo è un’autentica impresa.
Di anno in anno il totale, anziché ridursi, si allarga progressivamente, espandendo questo popolo di non cittadini, di fantasmi che entrano nelle categorie di grandi istituzioni internazionali esclusivamente preoccupate di rendere l’aborto «sicuro», e non di circoscriverlo come si fa di un incendio che dietro di sé lascia solo nera cenere. Agevolare l’aborto, ecco l’obiettivo primo dei palazzi della sanità mondiale, cominciando dalla sua legalizzazione e facilitazione (anche tramite la forma solitaria e semiclandestina delle pillole) anche dove la porta per accedervi è sbarrata, o soltanto socchiusa.
Il Paese dei senza nome, i 44 milioni (per la precisione 43,8 secondo il rapporto annuale appena diffuso dall’Organizzazione mondiale della sanità), non sembrano preoccupare chi distribuisce lezioni e pagelle ai governi sull’amministrazione sanitaria, i burocrati della salute per i quali la vita concepita – personale e irripetibile – ha la stessa rilevanza di una malattia da estirpare in tutta sicurezza.
E se l’integrità della madre va certamente difesa da pratiche criminali, risalta al confronto la completa assenza nei report sanitari internazionali di qualsiasi interesse per quei milioni di progetti individuali spenti prima ancora che potessero mostrare al mondo il proprio irresistibile volto. Non contemplare l’ipotesi che ogni aborto sia una ferita che l’umanità infligge a se stessa vuol dire condannarsi a ignorare che il primo diritto umano è di poter rispondere a una chiamata alla vita. Quei 44 milioni non sono in primis un problema sanitario ma un’angosciante lacerazione etica di fronte alla quale non è ammessa la neutralità, e neppure ce la si può cavare con il rimando a convinzioni religiose o ideologiche "private". Proprio qui, sull’etica della vita, corre infatti una frontiera decisiva del nostro tempo, ammaliato da «letture riduzioniste e totalitarie della persona umana e della natura della società», come le ha definite ieri Papa Benedetto.
Parlava a un gruppo di vescovi americani, ma per loro tramite le sue parole echeggiano in tutto l’Occidente del quale gli Stati Uniti sono spesso l’avamposto culturale e antropologico, laboratorio di quelle correnti «che, sulla base di un individualismo estremo, cercano di promuovere nozioni di libertà separati dalla verità morale». La libertà più estrema e tragica – quella di spezzare una vita inerme, affidata e tradita – è una resa al pragmatismo indifferente che divora anche l’etica sociale, incapace di allarmarsi scorgendo in quei milioni di aborti un mare che bisogna impegnarsi a prosciugare goccia a goccia.
Per questo il Papa sprona a sostenere i «cattolici impegnati nella vita politica aiutandoli a capire la loro personale responsabilità» in particolare sui «grandi temi morali del nostro tempo: il rispetto per la vita dono di Dio, la protezione della dignità umana e la promozione degli autentici diritti umani». È l’ora di mettere in discussione alla radice il tetro libertarismo dei "nuovi diritti" asettici e indifferenti. Lo dobbiamo al Paese senza nome.
«Avvenire» del 20 gennaio 2012

Quel coraggio ci interroga

L'altra faccia di una tragedia
di Marina Corradi
Nell’incrocio di destini del naufragio della Costa Concordia alcune storie emergono e restano nella memoria anche quando il telegiornale è finito, il pc spento. Come la storia del passeggero disabile salvato da un viaggiatore che ha trascinato la carrozzella verso le scialuppe; o del commissario di bordo rimasto intrappolato e ferito dopo avere aiutato molti altri; come le storie di salvagente allungati a un amico o a uno sconosciuto, che si salva, e poi sul molo dell’isola del Giglio cercherà invano la faccia che vuole ringraziare. Ma dallo stesso groviglio di memoria annodato attorno a una nave che affonda vengono altri echi: di salvagente contesi e strappati, di spintoni per accaparrarsi un posto su una scialuppa, di bambini abbandonati dalle baby sitter al miniclub, nell’ora della paura. Addirittura del comandante che, sembra, ha abbandonato la sua nave, quando, per legge e per onore, avrebbe dovuto essere l’ultimo.
Il coraggio e l’egoismo o la viltà emergono dalle testimonianze del naufragio con una schietta evidenza, che però non sempre corrisponde agli schemi precostituiti. Il coraggio si mostra su facce che avresti detto qualunque, e non magari dietro una divisa, a delle mostrine, là dove te lo aspetteresti. Perché una tragedia come quella dell’altra notte è una sorta di reagente nel coacervo di sconosciute umanità di una grande nave con 4.000 persone a bordo, una festante nave appena partita per una lieta crociera; dove si mangia, si beve, si balla, e la vita appare spensierata, e si può e forse si desidera, stanchi, finalmente in vacanza, di dimenticarsi di sé.
Repentino, l’imprevisto si manifesta con un boato, le luci che si spengono, la musica che tace. Confusione, cellulari che squillano, figli che non si trovano, passi di corsa, paura. Poi la regale ammiraglia che si inclina, il panico che si insinua. Che sia possibile morire così, sulla più grande nave da crociera italiana, a poche centinaia di metri dalla terra?
E nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella lucente città sull’acqua, in quella babele di lingue fra loro straniere, di colpo ognuno viene riportato in sé, alle domande più vere. Se nella vita quotidiana è possibile illudersi di essere forti e generosi, negli istanti di una emergenza, mentre la folla spinge e le carrucole delle scialuppe cigolano inceppate, non si può traccheggiare, né ingannarsi. C’è una molla potente e antica, l’istinto di sopravvivenza, che spinge verso la salvezza. Come accadrebbe in un’orda di animali inseguita dai cacciatori: si travolgono fra loro, tesi a sopravvivere. Eppure in alcuni, in tanti, contro all’istinto, qualcosa insorge dentro, una cosa che in un’ottica puramente darwinista è strana, perché non risponde alla logica della selezione del più forte: chi si ferma e aiuta un vecchio, chi cede il suo salvagente, chi prende in braccio uno sconosciuto bambino. Fra le urla, fra gli spintoni, anche mani allungate ad aiutarsi, coperte allargate sulle spalle di gente mai vista, passi che tornano indietro, a cercare chi manca.
Cos’è, che fronteggia l’istinto di sopravvivenza e compare inaspettato, in uomini che magari avresti detto pavidi, in vite che avresti detto qualunque? L’ora di una tragedia vaglia gli animi e interroga, e in un istante bisogna rispondere: viviamo solo per noi, ci importa solo di noi, o invece il destino degli altri ci riguarda, e quel vecchio smarrito all’improvviso ha la faccia di nostro padre, e non possiamo lasciarlo solo? La domanda di certe ore è terribile, e rivela, senza possibilità di mentire.
E noi che non c’eravamo stiamo a guardare e ad ascoltare, attenti, commossi e come stranamente inquieti: e tu – è come se qualcuno ci dicesse – in quel buio, in quel panico, cosa avresti fatto? Saresti tornato sui tuoi passi, tu, per un grido avvertito in una cabina chiusa? Certo le madri, i padri, sì, ritornano, a cercare i figli. Ma c’è gente che non era padre né madre, eppure è tornata indietro, come inesorabilmente legata all’altrui destino. Ed è questo, in una notte come quella del Giglio, il più grande mistero.
«Avvenire» del 17 gennaio 2012

Fruttero, un maestro del disincanto

di Ernesto Ferrero
Ciò che rende la morte effettivamente misteriosa, diceva Carlo Fruttero, è che nessuno ne può parlare per esperienza diretta. «Staremo a vedere» è tutto quello che si può dire del «singolare fenomeno». Con l'amico Lucentini sorrideva dell’idea di un Dio-salvagente, chiamato all’ultimo momento, come fosse il 118, a correre in soccorso dell'Io individuale che altrimenti annegherebbe nel gran mare del non essere. Gli risultava incomprensibile tutto questo attaccamento al nostro Io: «Questo casuale e in fondo estraneo, eterogeneo miscuglio di mediocri virtù e poverissimi vizi». Possibile venerarlo al punto di sperarlo immortale?
È con questo atteggiamento di spettatore vigile e disincantato che Carlo ha vissuto i suoi ultimi mesi, seguendo la cronaca con la solita curiosità, giocando a limare con le amorevoli figlie l’annuncio funebre: «Circondato dall’affetto dei suoi cari…». Diceva che «dopo» gli sarebbe piaciuto un party in giardino. Magrissimo, estenuato, adagiato su molti cuscini, non aveva perso il suo humour settecentesco, pungente ma mai malevolo, una sigaretta sottile tenuta con eleganza tra le dita, con una sorta di ironica sprezzatura. L’ultima volta che l’avevo visto, in estate, gli teneva compagnia l’assordante concerto delle cicale della pineta di Roccamare; verso sera sarebbe toccato alle rane. Lui rievocava con un guizzo da gourmet la bontà di certi brodi di rana di tanti anni fa, nel vercellese. Adesso non se ne trovano più, quelle poche arrivano dalla Cina sotto vuoto.
Ricordando nell’estate 2002 Lucentini appena scomparso, Carlo raccontava di quando andava a trovarlo nella sua cabane in pietra tra Fontainebleau e Nemours, accanto a un canale su cui passavano lentamente chiatte pensose. La sera passeggiavano lungo l'argine o per villaggi deserti, discutendo fittamente di problemi costruttivi dei loro romanzi, fumando senza soste. Si sentivano come i fumeurs obscurs di cui parla Valéry rievocando le sue camminate notturne con Mallarmé: due puntini di brace nell'oscurità. Quei due punti rossi, così fermi e discreti, li abbiamo seguiti a lungo con divertito piacere, con grata adesione. Perché rappresentavano anche l'estrema linea di difesa contro la «prevalenza del cretino», ormai inarrestabile; e un raro esempio di manutenzione del sorriso in tempi poco allegri. Carlo diceva che qualcuno li aveva paragonati a Bouvard e Pécuchet, vedendoli sempre così indaffarati, fermi col mento in mano davanti alla macchina da scrivere, a falciare l'erba davanti alla casa di Franco, o piantar chiodi in una scala pericolante. Ma contrariamente ai due ex copisti, loro di fiducia nel progresso tecnologico non ve avevano proprio. Preferivano definirsi «meccanici trafelati» che cercavano di aggiustare l’aggiustabile, cacciavite e chiave inglese alla mano. Di certo erano dei grandissimi artigiani, veri pronipoti di Flaubert: una lunga gavetta alle spalle, una padronanza perfetta dei ferri dei mestieri acquisita sul campo, prima in Einaudi, poi in Mondadori come direttori di Urania in tempi in cui, Sergio Solmi a parte, la fantascienza era relegata nel ghetto poco elegante delle pratiche commerciali. Esemplarmente flaubertiana in Carlo l'immane capacità di lavoro, il tenersi in disparte, il non partecipare ai riti della socialità letteraria. Fare le cose con estrema serietà senza mai prendersi troppo sul serio. Il contrario del vate, del profeta, del grillo parlante, del monumento equestre. In una delle ultime interviste, ha rivendicato con sommesso orgoglio l’esser rimasto estraneo ai vacui dibattiti della galassia intellettuale, il non aver mai pagato pedaggi. Poco più che ragazzo, aveva lavorato in Francia come operaio, il proletariato lo conosceva per esperienza diretta e non lo idealizzava, il fumo delle ideologie non l'aveva mai incantato. Non aveva mai pensato che il comunismo fosse un nuovo illuminismo. Ha sempre guardato la realtà in faccia per quello che è, senza cercare consolazioni o scappatoie, ma anche senza disperare. Non si è mai sentito, perché lavorava nei libri, il depositario di un qualche sapere superiore. Ha sempre adottato una linea di empirismo stoico: affrontare un problema alla volta con un massimo di professionalità, correttezza, onestà intellettuale, schiena diritta. Diceva che con Franco sorvegliava la situazione, spalla a spalla, le pistole all'erta. Certo, hanno dovuto sparare molto, ma mai con cattiveria o per acre moralismo. Semplicemente per la decenza: loro e di tutti.
Diffidava delle persone sicure di quello che dicono, che parlano di politica, di economia, di letteratura come se avessero capito tutto e sapessero esattamente cosa dire o, peggio, fare. Osservava che c’è in giro una confusione permanente e generalizzata, molto chiacchiericcio, pettegolezzo, voyeurismo e poca verità umana, poca sostanza. Non gli sono mai piaciute le consorterie, le associazioni, i gruppi, i branchi, le cosche. Ha evitato accuratamente di diventare uno di quegli intellettuali carichi di onorificenze che tengono lezioni in prestigiose università, trafficano in premi importanti e imperversano nei talk show. Da Carlo e dal suo amico Franco abbiamo imparato cosa possano produrre l’ironia, l’allegra e micidiale esattezza della satira, le parole chiare, la limpidezza del tratto, l’amore maniacale per il dettaglio, la leggerezza conoscitiva del gioco, la capacità di vedere i caratteri degli uomini e il piacere di ritrarli, la qualità della scrittura. I puntini rossi delle loro sigarette nel buio della notte ci mancheranno molto.
La Stampa» del 16 gennaio 2012

Fruttero, una scrittura allergica ai luoghi comuni

Dai romanzi a quattro mani ai testi autobiografici il tratto caratteristico è la distanza dalle fedi perentorie
di Lorenzo Mondo
E’ nel 1972, con il successo della Donna della domenica, che il nome di Carlo Fruttero, accoppiato a quello di Franco Lucentini, diventa noto al grande pubblico. Ma egli aveva alle spalle una intensa attività di traduttore, che si era esercitata su autori di spicco (Nathanael West, Beckett, Ralph Ellison, Salinger) e aveva in particolare pubblicato nel 1959, con Sergio Solmi, Le meraviglie del possibile, un’antologia della fantascienza destinata a grande fortuna, che ebbe il merito di dare piena legittimità in Italia a quella che era considerata una letteratura minore, di puro intrattenimento. Egli si poneva fin da allora in una posizione eccentrica, capace di abbattere con le risorse della cultura e della scrittura ogni confine di «genere». E’ quello che accade anche con La donna della domenica, con il «giallo» che diventa una serrata indagine di costume, non meno pungente perché divertita, su Torino: una città rimasta a mezza via tra passato e futuro, tra i residui risorgimentali e le caotiche periferie industriali, dove il perbenismo si contamina con la trasgressione.
Soltanto filologi acuminati potrebbero assegnare, nella sapienza della costruzione e nell’alacrità della scrittura, la parte che spetta a ciascuno dei due autori, che procedono imperterriti a fare coppia nelle successive prove romanzesche: A che punto è la notte, Il palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora (non dimenticando le sferzanti note, memori dei moralisti d’antan, che trovano il loro più vivace contrassegno nel volume intitolato La prevalenza del cretino). Mi sembra di poter cogliere l’indizio di una più personale disposizione nel brillante racconto Ti trovo un po’ pallida. Scritto nel 1979, appartiene al solo Fruttero e insinua nel contesto mondano di una assolata Maremma brividi onirici e visionari. Il pensiero corre allora allo straordinario Palio delle contrade morte, alla sfilata di fantasmi che denunciano nella piazza del Campo, insieme alle frodi e alle crudeltà della Storia, le compromissioni e le insolvenze di ciascuno nei confronti della propria vita.
Sia come sia, è negli scritti di Fruttero seguiti alla morte dell’amico Lucentini che ci muoviamo su un terreno sicuro. A trent’anni di distanza dalla Donna della domenica, Donne informate sui fatti ricorre ai meccanismi del romanzo poliziesco per indagare sull’assassinio di una immigrata che ha fatto fortuna. Ma l’inchiesta si estende dal truce fatto di cronaca a una intera città, ancora Torino, aggiornata sul mutare dei tempi. E l’emulo del commissario Santamaria sarà orientato alla soluzione del giallo da un coro di voci femminili, restituite alla brava nel loro vivace linguaggio, dissonante per anagrafe ed estrazione sociale. Risulta centrale, con i suoi risvolti dolenti, il tema dell’immigrazione. Ma l’interesse dell’autore è mosso più largamente dagli oscuri meandri del cuore, dalle passioni indomabili come l’avidità, l’assenza di pietà, la gelosia, l’orgoglio. Inclina a condividere con uno dei suoi personaggi l’idea di Schopenauer che «i cinque sesti dell’umanità fanno schifo, sono gentaglia». Il suo pessimismo assolve tuttavia la parte residua della specieumana che, con tutti i suoi difetti, si astiene dalla malvagità e merita di essere considerata con indulgente sorriso.
Il Fruttero più scoperto, e il suo commiato, lo troviamo in un libro, apparentemente minore, di capitoli autobiografici che viene intitolato, con ironico understatement, Mutandine di chiffon. Qui compaiono gli amici più cari, gli incontri avuti nel lavoro editoriale alla Einaudi e alla Mondadori, la Torino di sempre evocata con guardingo affetto nelle sue atmosfere, la Francia amatissima frequentata con Franco Lucentini. Bellissimi i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nel Monferrato, in prossimità di un magico castello. Nella sua biblioteca Fruttero viene educato alla lettura, prima dei «gialli» Mondadori (quasi un presentimento) poi di libri più impegnativi, maturando «una passione feroce, esclusiva, come il gioco o il terrorismo, che fa sembrare insignificante qualsiasi altra cosa». Là apprende dall’impareggiabile signor conte, nelle varie «invasioni» del castello da parte di tedeschi, fascisti, partigiani un freddo, vigile distacco. Si affermano cioè certi tratti che saranno caratteristici di Fruttero, il suo disincanto dinanzi alle fedi perentorie, all’utopismo inscalfibile e, più in generale, all’autorità dei luoghi comuni. Oltre che della sua amicizia senza effusioni ma ferma, del suo magistero stilistico, sentiremo acutamente la mancanza anche di questo Fruttero, scrittore malgré lui civile.
«La Stampa» del 16 gennaio 2012

Addio Fruttero, mi ha insegnato la leggerezza

Lo scrittore morto ieri nella sua casa di Castiglione della Pescaia a 85 anni
di Massimo Gramellini
«Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Se n’è andato con il suo scrittore preferito sulle labbra, Carlo Fruttero. E con un sorriso, perché nelle ultime settimane sorrideva sempre. Sorrideva e viaggiava. Chiudeva gli occhi e andava in Inghilterra, in Cina, in Giappone, ma anche a Passerano e a Canelli. In posti dove non era mai stato e in altri che non visitava da tempo. Cosa ci andasse a fare, lo sapeva soltanto lui. Quando tornava indietro, non si perdeva nel racconto dei particolari. Diceva solo che aveva visto una certa strada, una certa faccia, un ricordo oppure un sogno ancora mai sognato. Aveva fretta di partire di nuovo. «La borraccia, riempitemi la borraccia. E la valigia. È pronta la mia valigia? Insomma, sbrigatevi. Quando mi portate via di qui? Devo fare un altro viaggio, devo andare a Torino!».
Da quando si era trasferito definitivamente in Maremma, nel comprensorio in cui tanti anni prima aveva comprato casa accanto all’amico Italo Calvino, Torino era di continuo nei suoi pensieri.
Come La Stampa. Ne aveva sempre qualche copia sul letto, ma se volevate davvero fargli un regalo, bisognava portargli l’edizione locale, quella con le pagine della cronaca cittadina. Ah, era uno spettacolo vederlo spuntare dalle lenzuola per avvolgersi in quei fogli di carta che parlavano di quartieri e personaggi nei quali aveva ambientato i suoi romanzi, ma soprattutto la sua vita. Non c’era storia minore che non attirasse la sua curiosità. Tanto a farla diventare maggiore ci pensava lui, chiosandola con un aneddoto o una riflessione che la elevavano a fatto universale.
Non aveva paura di morire, Carlo. Era solo preoccupato dalla difficoltà dell’impresa. «Non pensavo che andarsene sarebbe stato così lungo» ha continuato a ripetere fino a ieri. Proprio lui che amava gli articoli e le frasi brevi. Dal giorno in cui me lo ha insegnato, applico ai miei testi il famoso emendamento Fruttero: «Nel dubbio, togli. Togli sempre. Cominciando dagli aggettivi». Togliere ogni peso superfluo alle parole, alle relazioni umane e ai pensieri era il suo modo di essere leggero rimanendo profondo: la lezione di Calvino.
Non aveva paura di morire, ma ne sentiva la responsabilità verso i vivi. Le figlie, i nipoti, gli amici, i lettori. Persino verso di me. Mentre scrivevamo la storia d’Italia in 150 date, era lui a mettermi fretta. «Ho il timore di andarmene prima della fine e di lasciarti a metà strada. Che so, nel ’38 o nel ’72…». La sentiva anche verso il suo Paese: «Stanno arrivando tempi duri. Bisogna che io non muoia. Non posso prendere congedo proprio adesso. Sarebbe una fuga. Ma vedrai, ce ne tireremo fuori anche stavolta. Non dimenticarti chi siamo… L'Italia, no?».
La morte, avrebbe detto Marcello Marchesi, lo ha colto vivo. Ultimato da settimane il suo necrologio, stava dettando un altro libro alla figlia Maria Carla, talmente in sintonia con lo spirito del padre da saperne interpretare anche i sospiri. La biblioteca ideale di Carlo Fruttero: una sorta di giro del mondo in 80 titoli di cui ragionava da tempo con Fabio Fazio e che sarebbe stato, e mi auguro sarà, il suo testamento culturale.
Non era un provinciale, come non lo sono i torinesi che hanno i piedi per terra ma la testa alta e gli occhi capaci di guardare lontano. Eppure quest’uomo che ha letto e amato libri scritti in tutte le lingue del mondo, ultimamente aveva riscoperto i classici di quella che era la sua patria, bene o male. Si era preso una autentica cotta per Pinocchio - «un innamoramento senile», scherzava - mentre quella coi «Promessi Sposi» era una lunga e solida storia d’amore che di recente aveva conosciuto un ritorno di passione.
«Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Lo ha ripetuto fino all’ultimo, fino alla partenza del viaggio che non lo porterà più a Torino ma in un altrove che gli auguro sia lieve con lui e come lui. Avrei altri cento aggettivi per salutarlo, ma qui scatta inesorabile l’emendamento Fruttero. Così ne salvo uno solo, il suo preferito. Leggero.
«La Stampa» del 16 gennaio 2012

L'unico eroe

di Massimo Gramellini
Un capro espiatorio per sfogare la rabbia, un eroe senza macchia per placarla. E’ la formula un po’ stucchevole delle storie italiane al tempo della crisi. Anche nel dramma del Giglio la realtà è stata immediatamente diluita in un fumetto.
Servivano un’immagine evocativa (la nave sdraiata su un fianco, simbolo del Paese alla deriva) e uno Schettino che riempisse il vuoto lasciato da Berlusconi alla casella Figuracce & Bugie e assommasse su di sé l’orrore del mondo (ieri il Tg5 ha definito i suoi tratti fisici «lombrosiani» e il Tg3 lo mostrava in smoking come il comandante di «Love Boat» per suggerire maliziosamente la sua inconsistenza morale, quando TUTTI i comandanti di una crociera indossano lo smoking, nelle serate di gala). Mancava ancora il buono, che nella trama assolve al compito cruciale di riscattare l’onore ferito della collettività, fortificandola nell’illusione di essere migliore di quanto non sia. Adesso anche il buono c’è.
Ovviamente facciamo tutti il tifo per De Falco, il capo assertivo della Capitaneria di Livorno che nella ormai celebre telefonata ordina al comandante Schettino, già inscialuppatosi verso la riva, di tornare sulla nave e comportarsi da uomo. (Ordine vano, peraltro, come quasi tutti gli ordini dati in Italia, perché Schettino gli dice di sì e poi continua a scappare).
Eviterei però il gioco insistito dei paragoni: l’eroe contrapposto al vigliacco, l’italiano buono all’italiano cattivo, fino all’urlo autoassolutorio che ho letto su un blog: «Io sono De Falco». Anch’io. Anche Schettino, credetemi, se fosse stato sulla poltrona di De Falco sarebbe stato De Falco e avrebbe dato ordini perentori al se stesso vigliacco che tremava in mezzo al mare per la paura di morire.
Non voglio togliere meriti al valido ufficiale della Capitaneria, ma contesto l’abuso del termine «eroe», che in un’epoca che ha smarrito il significato delle parole viene appuntata sul petto di chiunque fa semplicemente il proprio dovere: rifiutando una mazzetta se è un funzionario pubblico, denunciando un giro di scommesse se è un calciatore, assumendosi le proprie responsabilità se esercita un ruolo di responsabilità. Dall’Iliade a Harry Potter, l’eroe è colui - soltanto colui - che mette a repentaglio la propria vita. E non perché la disprezza (quello è il fanatico), ma perché è disposto a sacrificarla in nome di un valore più elevato: l’amore (a-mor, oltre la morte).
Non escludo che l’ottimo De Falco sarebbe stato un eroe: il destino non gli ha consentito di mettersi alla prova. Dubito che lo sarei stato io e tanti altri che disputano sulla viltà di Schettino. Per me nella storiaccia del Giglio esistono persone inadeguate e altre adeguate, ma un unico vero eroe. Il commissario di bordo che con la gamba spezzata ha continuato a salvare le vite degli altri.
«La Stampa» del 18 gennaio 2012

Aldo, ora (a)Busi di te stesso

La triste parabola di un grande autore sempre più provinciale e "borghese"
di Massimiliano Parente
Io non so come abbia fatto Aldo Busi, che era riuscito a diventare Aldo Busi, mica pizza e fichi o Baricco e Scurati, a trasformarsi in quello che è, una pizza e basta. Sarà l’età, sarà colpa della tv dei reality e degli anni Ottanta e del Maurizio Costanzo Show, sarà quel che sarà, adesso poco importa. Anche perché in teoria c’era una bella notizia, inviata dallo stesso Busi a Dagospia: «Dopo dieci anni che non scrivevo più, alle ore 9.34 del 24 di dicembre del 2011 ho finito El especialista de Barcelona, un romanzo».
Lì per lì mi sono commosso, Busi avrà smesso di sottovalutarsi e la smetterà con le prediche civili, ho pensato. Avrà capito che, poiché è un grande scrittore, è triste sopravvivere a se stessi come un Pasolini fuori tempo massimo o un Beppe Grillo qualsiasi e senza neppure il martirio postumo di un Pasolini e il seguito di Grillo.
Invece il dramma, iniziato con la lieta notizia di Dagospia, si consuma quotidianamente su www.altriabusi.it, un blogghino gestito da Marco Cavalli, il biografo ufficiale e fido scudiero di Busi benché privo dello spirito critico di Sancho Panza: dove Busi vede un castello di incantatori, Cavalli vede orchi, stregoni, mostri e draghi pronti a attentare alla vita del suo cavaliere dalla triste figura.
In quel piccolo buco di blog si narrano disgrazie incredibili di cui si accorgono solo Busi e Cavalli. Per esempio a Lucca muore un avvocato di nome Ugo Frezza, Il Tirreno riporta che l’avvocato si riteneva amico di Busi e Busi via Cavalli invia un comunicato di lesa maestà per smentire e precisare: Busi non è amico di nessuno.
Così anche il romanzo, annunciato di giorno in giorno, si trasforma nella telenovela di un’autopromozione goffa e schizofrenica: ci sono ventiquattro personaggi, il titolo sembra castigliano ma riprende il dialetto lombardo-veneto, sono centottanta pagine, Busi lo pubblicherà ma non vorrebbe, anzi vorrebbe ma non lo pubblicherà, anzi non lo pubblicherà per dispetto, il Paese non se lo merita.
Ma poiché passano le settimane e tutto tace, l’Aldo abuso di se stesso acciuffa il povero Antonio Prudenzano del quotidiano online Affari Italiani e gli rilascia un’intervista dove spiega che non ha ancora un editore, e il povero Prudenzano ci casca e titola «Busi scrive un nuovo romanzo e non trova l’editore», subito insultato da Busi perché doveva scrivere «Busi scrive un nuovo romanzo e non sa ancora se pubblicarlo». Sfumatura importante per far capire che è Busi che non lo dà, non gli altri che non glielo chiedono. Come se non bastasse, il povero Prudenzano è insultato dallo scudiero Cavalli, che lo definisce addirittura un malavitoso, lo avrà confuso con Provenzano.
Infine, siccome una ne pensa e cento ne fa, Busi esala un nuovo comunicato: «Mi è diventata chiara e ineludibile la necessità di rendere pubblico il romanzo El especialista de Barcelona da poco terminato, è vano e da vanitosi pubblicarlo post mortem \\\\\\\\\\\\\\\\. Non so ancora chi lo pubblicherà e se qualche editore italiano lo pubblicherà, ora giace alla Mondadori che ha il diritto di prelazione sulle mie opere letterarie e, contrariamente a quanto si mormora, nessun altro editore ne ha copia, sia come sia, troverò comunque il modo di renderlo pubblico e se sarà pubblicato da un editore, lo sarà, ovviamente, nella sua semplice e assoluta integrità».
Ma mentre si attende che qualcuno batta un colpo, colpo di scena: il nostro genio civile riceve una querela della signora Miriam Bartolini, che non è un corriere espresso né una cassiera bresciana ma il nome anagrafico di Veronica Lario, e va da sé che lì tra i groupies di casa Busi è peggio della chiusura di Termini Imerese e del naufragio della Costa Concordia. Cioè, non si fa in tempo a simpatizzare con Busi che parte un mortifero appello organizzato dal solito Cavalli che finisce così: «A coloro che credono ancora nella condivisione di un minimo di senso della realtà e delle proporzioni in materia di giustizia, diamo appuntamento la mattina del 7 marzo in Piazza Garibaldi a Monza, davanti al Tribunale, per manifestare solidarietà allo Scrittore Aldo Busi».
Se non si sapesse che è il sito ufficiale di Busi sembrerebbe una satira spietata, con Busi chiamato continuamente «lo Scrittore» («Antonio Prudenzano ottiene l’esclusiva di un’intervista con risposte di pugno dello Scrittore») e dove ogni comunicato dello Scrittore è preceduto da un: «Riceviamo e, grati, pubblichiamo».
Intanto tra smentite, comunicati e appelli, a parte la Bartolini, nessuno si fa vivo né dalla Mondadori né da Barcellona, e lo Scrittore informa che il romanzo lo ha mandato a tre amici e neppure loro gli hanno risposto. Anziché chiedersi perché ha solo questi tre amici qui, parte il comunicato sul Paese che non lo merita e l’amara considerazione per cui «di un romanzo, nemmeno di Busi, nemmeno dopo dieci anni che Busi non scrive più, nessuno sa cosa farsene». Ecco, la vita standard di Busi è diventata questo circolo bocciofilo di moralismo civile autoreferenziale, un seminario sulla senescenza dell’artista al Bar Montichiari per il quale perfino Marcel Proust è sorpassato perché «non parla di soldi», e qui siamo davvero all’ultima spiaggia e neppure l’isola dei famosi può più salvarlo.
Insomma, ognuno ha la vecchiaia che si merita, ma Busi se ne meriterebbe una migliore, almeno per il valore delle sue opere, e allora forse bisogna fare qualcosa, mettere su un comitato per salvare Busi da se stesso. Oppure impacchettarlo vivo e spedirlo a Oliver Sacks, magari ne viene fuori un best-seller Adelphi nel caso in cui Mondadori, non sia mai, dovesse rifiutarlo: l’uomo che scambiò la sua opera per un appello.
«Il Giornale» del 19 gennaio 2012

Se la normalità diventa eroismo

Il caso De Falco-Schettino
di Beppe Severgnini
Molti stranieri ci osservano e non capiscono
Come moltissimi italiani, ho ascoltato con attenzione i quattro minuti di conversazione tra il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, e Gregorio Maria De Falco, comandante dalla Capitaneria di Porto a Livorno. Mi è sembrato il colloquio concitato tra un uomo di mare spaventato e inadeguato e un altro uomo di mare, competente e consapevole. Scopro perciò con stupore che De Falco è il nuovo eroe della rete (cercate su Twitter #defalco). Sono certo che l’interessato sarà altrettanto sorpreso. Come altri quella notte - sulla nave e a terra - ha fatto tutto ciò che poteva in circostanze drammatiche. Lo stesso, purtroppo, non si può dire del comandante Schettino e di altri ufficiali di bordo. Se la normalità è diventata eroica, in Italia siamo nei guai.
Ma non è così - non ancora. Milioni di connazionali - spesso per pochi soldi - fanno il proprio dovere: da nord a sud, di giorno e di notte, in terra nell’aria e per mare. Forse lo abbiamo dimenticato, se l’evidenza di questa serietà diventa fonte di stupore. O forse abbiamo bisogno di applaudire i competenti, come antidoto ai troppi superficiali. La rete, in questi giorni, pullula di antropologia spicciola e considerazioni sconsiderate. C’è chi scrive «ma quando la smetteremo di lasciare il comando ai napoletani?» (dimenticando la lunghissima e gloriosa tradizione marinara della regione); e chi, con troppa fretta e semplicismo, ha trasformato i due uomini in personaggi conradiani, rappresentazione del coraggio e dell’ignavia, della forza e della debolezza, del bene e del male. Molti stranieri ci osservano e non capiscono. Aspettatevi che dicano, nei prossimi giorni, quello che scrive Margherita Masotti (twitter/mstmgh) da Grosseto: «Chapeau a #defalco, ma è possibile che la tragica mancanza di professionalità di alcuni renda speciali le persone normali?» 122 caratteri, e c’è tutto il necessario.
«Corriere della Sera» del 17 gennaio 2012

17 gennaio 2012

L’800 aveva i suoi Moccia. Ma chi se li ricorda più?

Erano amatissimi e vendevano come i Fabio Volo e le Tamaro di oggi. Ecco i nomi, le storie, le trame (e le cifre) di questi bestselleristi d’altri tempi
di Luigi Mascheroni
Fabio Volo, Luciana Littizzetto, Faletti, la Mazzantini. Sono i più venduti di questa settimana (e di tante altre, passate e probabilmente future). Poi ci sono i Moccia, i Camilleri, i Carofiglio: insomma, i bestselleristi del 2011, del 2012 e anche del 2013... Scrittori di cui oggi non possiamo fare a meno, ma che è arduo immaginare possano essere letti anche dai nostri figli, e dai loro. I bestselleristi di oggi, tra cent’anni li leggeremo ancora? I loro titoli, oggi strapopolari, a portata di mano in ogni autogrill e in ogni supermercato, sopravviveranno nella memoria collettiva?
Se il futuro si può immaginare applicando gli stessi parametri del passato, allora i Volo, le Avallone, i Moccia, forse anche i Baricco e i De Luca, tra un secolo (anche meno) saranno dei signori nessuno. Come oggi sono dei signori nessuno i Michele Lessona, i Salvatore Farina, i Brocchi, gli Zuccoli, i Salvaneschi... tutti autori scomparsi da tempo dalle librerie e dai manuali e che pure un tempo erano amatissimi e molto ma molto più letti rispetto ai Fogazzaro, ai Pirandello o agli Svevo (oggi dei classici, all’epoca però mai entrati nelle top ten).
Mastriani, Barrili, D’Ambra, Gotta... chi erano costoro? Un tempo Ciceroni, oggi carneadi. Che la critica non sia mai andata nella stessa direzione dei dati di vendita, si sa. Ma per capire quanto sia effettivamente alto lo spread tra i valori letterari da una parte e il successo commerciale dall’altro, bisognerebbe spulciare una montagna di dati e documenti accumulati lungo la centocinquantenaria storia (editoriale) del nostro Paese. Impresa compiuta da Michele Giocondi, studioso esperto di storia dei consumi culturali, che nel saggio I best seller italiani (Mauro Pagliai editore) ricostruisce gli «indici di Borsa» del mercato librario dal 1861, nascita del Regno d’Italia, al 1946. Mentre un secondo volume, in preparazione, sarà dedicato al dopoguerra, fino - appunto - a Tamaro, Moccia, D’Avenia, Paolo Giordano.
In due tomi, da Carolina Invernizio a Melissa P., come cambia la narrativa, e com’è cambiata l’Italia. L’affermazione di autori come Salgari e Liala (fuori quota) o dei meno famosi Fraccaroli e Guido Milanesi, racconta molte cose sulla cultura di un Paese, sulle sue mode, gli umori, i sogni, le paure e le ossessioni in un determinato periodo storico.
Ma chi erano i bestelleristi dell’800, i Saviano dell’età giolittiana, le superstar letterarie tra le due guerre? E soprattutto, che cosa scrivevano? E quanto vendevano?
L’antesignana delle future Tamaro è Enrichetta Caracciolo, una suora di clausura, uno dei longseller nell’Italia appena fatta: I misteri del chiostro napoletano (1864), che l’editore Barbera acquisì dall’autrice in cessione perpetua per 1400 lire e poi ristampò per decenni. Come tiratura eguagliò I miei ricordi di D’Azeglio (per assicurasi il quale lo stesso Barbera, due anni dopo, sborsò 10mila lire). Morale: l’editore diventò ricco, suor Enrichetta morì ottantenne, nel 1901, dimenticata da tutti. Anton Giulio Barrili, invece, già ghostwriter di Garibaldi, fu autore seguitissimo e prolifico: settantadue (!?) opere fra romanzi, novelle, diari. Il suo personale bestseller fu Come un sogno, un bel feuilleton uscito nel 1875 che nel 1910 aveva già raggiunto le 28mila copie e nel 1940 le 75mila, e che insieme agli altri titoli sempre ristampati gli fruttava - come confessò a un amico - «molti biglietti da mille ogni anno». Un po’ come il nostro Camilleri, insomma.
Poi, certo, c’erano anche gli ancor oggi celebri De Amicis, Verga e naturalmente Collodi, in assoluto l’autore italiano più venduto di tutti i tempi. Ma chi si ricorda oggi del medico fisiologo Paolo Mantegazza che col romanzo epistolare Un giorno a Madera (1868) - storia di un amore infelice tra due tisici, destinata a concludersi in maniera funebre per entrambi... una cosa alla D’Avenia, dài - ottenne un successo straordinario per un totale di 100mila copie vendute? Oppure Salvatore Farina, già da giovanissimo un beniamino del pubblico, uno che a 28 anni aveva scritto dieci romani e c’era chi lo definiva il «Dickens italiano»?
Carolina Invernizio, qualcuno forse se la ricorda: scrisse 130 romanzi (tra i quali un vero cult fu Il bacio di una morta, del 1886), facendo la fortuna del suo editore Adriano Salani. Un caso letterario di proporzioni inaudite e mai più riscontrate nel nostro panorama letterario. Fino a Sveva Casati Modignani... anche lei osannata dalle casalinghe e snobbata dagli intellettuali, entrambi di Voghera.
Ancora. Umberto Notari con Quelle signore (1904), un romanzo che parlava del mondo delle prostitute attraverso le confessioni di una di loro di nome Marchetta, segnò un’epoca. Grazie allo scandalo, la censura e due processi per oscenità, vendette in quattro mesi 150mila copie: nel 1925 arrivò a 580mila e, tradotto in mezza Europa, in due anni superò il milione di copie. Sì, esatto: più o meno come Aldo Busi. A proposito di prurigini&marketing... Guido Da Verona, il più amato romanziere tra le due guerre, rimane insuperato quanto a diffusione, tirature e vendite (esattamente 15 volte quelle di D’Annunzio!). Però morì suicida... Mentre l’ebreo Pitigrilli, tra gli anni Venti e i Trenta, con i suoi otto romanzi-scandalo a base di sesso, cocaina e dissoluzione arrivò (record assoluto) ai due milioni e mezzo di copie. Poi si convertì al cattolicesimo.
E Mario Mariani? Vendette uno sfracello. Solo con La casa dell’uomo, uscito nel 1918 e ristampato fino al 1943, pieno zeppo di scene pornografiche (per l’epoca...), toccò le 70mila copie. E del suo Le adolescenti qualcuno dirà che anticipò la Lolita di Nabokov. Certo che però, la nostra Melissa P. è tutta un’altra cosa ...
«Il Giornale» del 15 gennaio 2012

13 gennaio 2012

Un'altra Autorità? No, grande politica

Libertà religiosa e diritti umani
di Francesco D'Agostino
L’intenzione di Giulio Terzi di Sant’Agata, neo-ministro degli Esteri del governo Monti, di muoversi nella scia del precedente governo e dell’azione svolta da Franco Frattini ponendo al centro delle priorità della politica estera italiana la difesa dei diritti umani e delle minoranze perseguitate, a cominciare da quelle cristiane, merita elogi senza riserve. E merita altresì un elogio la fine osservazione del ministro, secondo la quale la difesa dei diritti non è solo un impegno etico, ma un interesse geopolitico del nostro Paese. Qualcuno potrebbe storcere il naso, leggendo in una simile affermazione una vena di machiavellismo e protestare: ma così si corre il rischio di subordinare l’etica (che è un valore assoluto) agli interessi contingenti (e quindi relativi) di una potenza di medio livello qual è l’Italia di oggi! Chiaramente non è così.
Il ministro Terzi vuole solo ricordarci che quando in un contesto politico e/o nazionale l’etica va in crisi (nel nostro caso partiamo dell’etica dei diritti umani) va necessariamente in crisi non solo il rispetto assoluto che si deve alle persone, ma lo stesso equilibrio sociale. A causa della negazione dei diritti e delle violenze contro le persone nascono guerre e conflitti civili, si bloccano produzioni e commerci di beni, si creano flussi di emigrazione tra i più conturbanti, come quelli dei rifugiati. Quando poi la violazione ha per oggetto un diritto come quello alla libertà religiosa, che storicamente e teoreticamente ha un assoluto primato, le conseguenze sono ancora peggiori.
Ogni tentativo di soffocare questa libertà ha sempre una matrice fondamentalista, più o meno esplicita, e produce lacerazioni pressoché insanabili nel contesto sociale di riferimento. Soffre l’individuo minacciato di morte o indotto all’esilio a causa della sua fede e assieme a lui soffre la società che vede perdere quella coesione sociale tra i suoi membri, che non è impedita dal pluralismo delle fedi, ma che anzi a volte proprio da esso trae forza e vitalità espressiva.
Meno condivisibile l’idea del ministro Terzi di attivarsi per dar vita a una «Autorità nazionale indipendente sui diritti umani». Se conosciamo un po’ le preoccupazioni dei nostri connazionali, siamo certi che a più d’uno avrà evidentemente dato da pensare l’onerosità di una simile Autorità, cosa che in effetti non può non avere rilievo soprattutto nel momento di crisi finanziaria che stiamo attraversando. Ma il nodo centrale è un altro: il carattere stesso di questa possibile Autorità, che il ministro, correttamente, ipotizza debba essere, come nel caso di tutte le altre Autorità, esplicitamente «indipendente». Per essere «indipendente» un’Autorità deve risultare libera non solo da vincoli partitici, ma più in generale da premesse e da vincoli "politici". La difesa dei diritti umani, però, o è "politica" o non è. Se infatti i diritti, di per sé, hanno una radice etica (o meglio antropologica), la loro concreta individuazione storica e, soprattutto, la loro tutela e la loro promozione implicano un impegno di ampio respiro, quel tipo di impegno che nessuna Autorità, ma solo la politica, nel senso più alto del termine, può accollarsi. Difendere la libertà di credere e di pensare è dovere politico primario non solo del nostro Paese, ma dell’Europa e più in generale di quell’Occidente, che nel sistema dei diritti dell’uomo trova (e speriamo che continui sempre a trovarlo) il suo punto di massima convergenza. E noi abbiamo l’ambizione di pensare che l’azione politica dell’Italia sarà – in questo senso e in tutte le sedi, a livello bilaterale e multilaterale – non solo solidamente fondata e lucidamente continua, ma sempre più incisiva.
Affidare la tutela e la promozione dei diritti ad un’«Autorità indipendente», al di là delle buone e lodevoli intenzioni del ministro Terzi, può obiettivamente sminuirne la valenza e ridurre una questione che va qualificata né più né meno che "epocale" al rango di un problema amministrativo, importante, ma inevitabilmente circoscritto. Non possiamo e non dobbiamo correre questo rischio. Un’altra Autorità? No, grazie. Serve grande e buona politica. E l’Italia sa bene come svilupparla.
«Avvenire» del 13 gennaio 2012

09 gennaio 2012

Vizi, virtù e segreti dei veri legionari

Manipoli, armature, colpi di «pilum». Un saggio racconta grandezza e miserie del più temibile esercito dell’antichità
di di Matteo Sacchi
Se uno entra in libreria e si aggira un po’ tra gli scaffali può avere l’impressione che la Guerra gallica o la difesa del Vallo di Adriano siano cronaca recente. Non saranno dei volumen papiracei, ma i titoli sono roba da Basso impero: La legione degli invincibili. Mos Maiorum; La legione degli immortali; La legione dimenticata; La legione, Il centurione di Augusto; Il centurione. Se vuoi la pace prepara la guerra; L’aquila sul Nilo... Insomma, il legionario romano è diventato un eroe da romanzo a tutti gli effetti. E non è che la cosa si limiti ai libri: c’è Spartacus (gladiatore, ma ex membro delle truppe ausiliarie in Dacia) che impazza sul piccolo schermo, c’è il valente generale Massimo Decimo Meridio di Ridley Scott e tutti i suoi eredi che scorrazzano sul grande schermo ...
Ma ciò che ci raccontano o ci fanno vedere, ha davvero qualcosa a che fare con la realtà? Il modo migliore per farsi un’idea sulla questione è leggere il saggio di Chris McNab appena pubblicato dalla LEG: L’esercito di Roma (pagg. 342, euro 32). McNab è uno dei massimi esperti inglesi di storia militare e i suoi testi illustrati, molti dei quali disponibili solo in inglese, sono un vero classico della materia. In L’esercito di Roma racconta tutto quanto che c’è da sapere sulla lorica hamata (la cotta di maglia che proteggeva i milites), il pilum (giavellotto) e la disposizione in battaglia delle legioni.
Il suo saggio parte dai primordi (l’Urbe al tempo dei re) e arriva sino al tardo Impero e ha il merito, grazie anche alle moltissime illustrazioni, di scardinare l’immagine stereotipata che tutti abbiamo in mente e che finiamo per sovrapporre a tutte le epoche della romanità: un legionario col mantello rosso e lo scudo quadrato coperto di un’armatura metallica lamellare (lorica segmentata).
Beh, in epoca arcaica i romani erano attrezzati né più né meno (spesso meno) come gli altri popoli latini: scudi di foggia varia, spesso alla greca, e scodelloni di bronzo sulla testa. Anche dopo, per lunghissimo tempo quella romana è rimasta una fanteria che combatteva alla maniera degli opliti greci: cittadini addestrati alla bell’e meglio che fanno massa d’urto. Soltanto con le guerre sannitiche (343-295 a.C.) i romani iniziano a utilizzare la «legione manipolare», la loro prima grande innovazione vincente. Ovvero una differenziazione, relativamente standardizzata e coordinata, dell’attrezzatura dei vari combattenti e l’inquadramento in categorie diverse dei medesimi in base all’età e all’esperienza. E quasi un secolo dopo probabilmente arrivò l’altra grande novità: il pilum. Ovvero un giavellotto pensato per restare incastrato nello scudo dei nemici. Una volta colpito, l’avversario era obbligato ad abbandonare la sua protezione e veniva macellato dai romani che avanzavano colpendo di punta con i loro gladii. Ecco la chiave del successo: organizzazione e una tecnica efficace per scompaginare le fila nemiche.
L’uniformità delle divise, invece, spesso è stata aggiunta dai registi cinematografici. A esempio, durante le guerre puniche l’attrezzatura era ancora piuttosto varia e colorata e la maggior parte degli scudi era di foggia ovale. Le corazze? Ognuno se ne compra una e si arrangia, i cittadini più poveri vengono inseriti tra i velites (combattenti alla leggera): si piazzano sulle spalle una pelle di lupo per spaventare un po’ il nemico e poi via a fare azione di disturbo davanti alla fanteria pesante (sperando di non venir sminuzzati da un assalto ben fatto)...
Per avere i begli eserciti di professionisti che ci piace tanto vedere al cinema bisogna aspettare che la riforma militare di Gaio Mario (157-86 a.C.) faccia scuola. E ci vorrà più di un secolo. Ma anche su quei soldati imperiali che somigliano di più al nostro stereotipo mentale il libro di McNab potrebbe farvi scoprire cose nuove. Per dire, è vero che la cavalleria romana a lungo non ebbe le staffe, ma le selle avevano quattro protuberanze che stabilizzavano il combattente a cavallo. Meno male, altrimenti avrebbero avuto ragione Asterix e Obelix con quella loro famosa frase: «Sono pazzi questi romani».
«Il Giornale» dell'8 gennaio 2012

Perché non possiamo non dirci antirelativisti

Almeno cinque buoni motivi. Laici e cattolici
di Francesco D'Agostino

Sono un cattolico 'anti­relativista'. Uno di quelli che Dario Antiseri (cfr. il Corriere della Sera del 30 dicembre) invita perentoriamente a dare una replica all’affermazione di Karl Heim (da lui profondamente condivisa), che sostiene che i cattolici dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che «relativizzano il mondo e l’uomo». Di repliche non ne ho una soltanto, ne ho almeno cinque (in realtà sono molte di più, ma mi fermo a cinque per il rispetto che si deve ai lettori).
Il relativismo è incompatibile con il riconoscimento dei diritti umani, come diritti fondamentali e inviolabili di ogni uomo, quale che sia la sua cultura e la sua religione di appartenenza. Da quando le Nazioni Unite hanno approvato nel 1948 la grande Carta dei Diritti si sono moltiplicati i tentativi di criticarla, di minimizzarla, di ridicolizzarla, di interpretarla come una mera risposta a aspettative storiche contingenti. La Carta dell’Onu, però, ha resistito a tutte le intemperie e continua ad essere il modello per tutte le ulteriori Carte dei diritti umani. È un dato, questo, su cui i relativisti non si fermano mai a riflettere.
Il relativismo, o almeno quello patrocinato dai 'relativisti', non è mai veramente tale, perché a partire da esso, ma contro ogni buona ragione, i relativisti si fanno promotori della tolleranza, della democrazia e della libertà, di tre valori splendidi, assolutamente 'non relativizzabili'. La contraddizione è palese. Un vero relativista dovrebbe ragionare in altro modo: poiché non esistono valori assoluti e non ho alcun criterio razionale per stabilire che i valori altrui siano migliori o anche equivalenti ai miei, rispetterò i valori altrui solo quando questo rispetto non mi nuoce: in caso di conflitto, però, cercherò sempre di far prevalere i miei valori, per la semplice ragione che sono i miei e nella serena presunzione che nessuno potrà mai accusarmi di aver agito ingiustamente, dato che per definizione una giustizia assoluta non esiste (almeno per un relativista).
Non è vero che democrazia e relativismo siano indissolubili, come pensa Antiseri, citando Kelsen. Lo dimostra il fatto che le grandi democrazie occidentali, partendo dal Regno Unito e dagli Stati Uniti (e mettiamo nel novero anche l’Italia) si fondano su costituzioni liberali, ma non relativistiche.
Assimilare, per amore di polemica, gli antirelativisti ai fondamentalisti è assolutamente scorretto.
L’antirelativista crede alla verità del bene e assume le parole di Dio come quelle di un Padre, che ama tutti i suoi figli (anche se 'prodighi'!) e vuole il loro bene. Il fondamentalista, invece, non vede Dio come un Padre, ma come un Sovrano che emana ordini insindacabili e ineludibili da parte degli uomini, cioè dei suoi sudditi ed è pronto a punire con la morte la loro disubbidienza.
Infine, l’ultima obiezione, l’unica veramente 'cattolica'. Il relativismo è incompatibile con l’articolo fondamentale del Credo cristiano: «Credo in un solo Dio». C’è un solo Dio, che ha creato il cielo, la terra e gli esseri umani, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e che offre a tutti la sua grazia: per questo dobbiamo considerarci tutti fratelli e sperare tutti nella salvezza di tutti. I relativisti reputano insuperabili le differenze tra gli uomini e le loro culture e amano sottolinearne la reciproca irriducibilità; gli antirelativisti operano invece per reinterpretarle, per superarle, per unificarle, nella certezza che tutto nell’esperienza umana può essere volto al bene. Come può un cristiano non essere antirelativista?

«Avvenire» del 7 gennaio 2012

02 gennaio 2012

La poesia, cronaca della vita, scienza (esatta) del presente

Cronache dell'io
di Claudio Magris
I versi non sono evasione, ma un tuffo nella realtà
La poesia, scrive Flaubert, è una scienza esatta, come la geometria. Pubblicare una collana di poesia, per un grande giornale, non significa mettere una rosa su un tavolaccio dove si riversano i sanguinosi, fangosi, eccitati, angosciosi eventi del mondo, dalla cronaca nera alla recessione economica, dalle stragi che sempre avvengono in qualche parte del mondo alle turpitudini e alle virtù di casa nostra. Un giornale, specie un quotidiano, è un romanzo; spesso un romanzaccio della realtà - politica, economica, sociale, morale.
Ogni giorno ci dà una fotografia - una radiografia, una risonanza magnetica - della nostra esistenza; una lastra ora più ora meno fedele e veritiera, messa a fuoco o sfuocata, in certi casi pure un fotomontaggio abusivo del reale. La poesia non è un'evasione né tantomeno una sublimazione spiritualeggiante della realtà; è anzi spesso uno dei suoi ritratti più precisi, spietati, autentici. Non è meno realista delle cronache politiche, dei reportages su una guerra o su un'epidemia, delle relazioni sui bilanci e sui deficit. La letteratura - e, nel suo ambito, la poesia in modo particolare - non dà informazioni sui fatti, sulla crisi economica, sulle leggi che regolano i matrimoni, le pensioni o l'assistenza sociale, ma dice come gli uomini vivano tutto questo; dice come i grandi numeri della disoccupazione, del disagio sociale o delle ideologie in crescita o in declino si calino nell'esistenza degli individui, diventino la loro quotidianità, la loro carne e il loro sangue.
La poesia dice la verità della realtà più vera, più corposa e concreta: la vita di ogni singolo individuo. Dice come egli ama, soffre, desidera, protesta, spera, incontra o fugge gli altri individui. Se vogliamo capire cosa è stata veramente la storia d'Italia dell'ultimo secolo, non basta sapere cosa hanno fatto Mussolini, De Gasperi o Agnelli; d'Annunzio o Pasolini - per citare a caso due esempi rilevanti - ci fanno toccare con mano cos'è stata questa storia, con le sue trasformazioni e suoi subbugli, nella vita concretissima dei sensi, dei sogni, delle speranze, delle disillusioni degli uomini. «Il grande poeta - dice Eliot - nello scrivere se stesso scrive il suo tempo» - ossia il nostro tempo, se è un contemporaneo, o un'altra stagione della storia, se ha vissuto, scritto e patito in passato. Per conoscere il nostro tempo - per conoscerci, per sapere come abbiamo vissuto o non vissuto, come la Storia si sia intrecciata ai nostri amori, alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni intimi e fondamentali - occorre rivolgersi ai poeti.
Questi ultimi non sono necessariamente migliori degli altri; spesso sono egocentrici, invidiosi, meschini; le rivalità che si creano intorno a un premio letterario sono spesso più ignobili e miserevoli di quelle per la conquista di un potere economico o politico. I poeti - ha detto uno fra i più grandi di essi, Milosz - hanno spesso un cuore freddo; se scrivono una poesia per la morte di un bambino, rischiano di appassionarsi più per la bellezza dei loro versi che per la morte del bambino pianta in quei versi. Ma, anche grazie a questa selvaggia e irresponsabile soggettività, i poeti fanno i conti più di ogni altro con la nostra pelle, con il fuoco e la follia latenti nella realtà quotidiana apparentemente normale; rubano e diffondono la fiamma di tante verità umane insostenibili e perciò spesso soffocate dalle istituzioni della vita organizzata. La poesia dice il fondo della vita - come, secondo Saba, lo dicono gli animali - e assume su di sé, nella realtà concreta delle reazioni epidermiche e delle brucianti nostalgie, le contraddizioni della propria epoca.
Pubblicando una collana di poesia, un grande giornale non offre un delicato dessert o digestivo che compensi il cibo troppo robustoso e forte dell'informazione politica o economica, ma assolve al suo compito primo, che è appunto quello dell'informazione. Un'informazione che sarebbe carente se trascurasse quella realtà di sogni, pulsioni, sfide, smarrimenti che sono di tutti e che la poesia esprime per tutti. La vita di un poeta è quella di tutti, diceva Gérard de Nerval; è doveroso offrirla a quei tutti - almeno potenziali - che sono i lettori. Anche i giornali hanno bisogno, per svolgere con precisione e dunque con onestà il loro lavoro, della poesia: nessuno come il poeta, dice Rilke, odia l'approssimativo.
«Corriere della Sera» del 27 dicembre 2011