26 dicembre 2012

Humanitas & humanities

Motivazioni dello studio della cultura classica
di Elisabetta Degl'Innocenti
È un confronto pressoché quotidiano quello degli insegnanti con la richiesta degli studenti delle motivazioni del loro studio: richiesta che si fa più pressante nei riguardi delle discipline umanistiche, insidiate da alcuni decenni da un processo di marginalizzazione nella scuola e di perdita di ruolo nella società. La domanda "a che cosa serve il latino?" (per non parlare del greco), sollevata da studenti e genitori e accompagnata da dubbi sull"`utilità" anche di altri studi umanistici, si colloca nella drastica riduzione quantitativa e qualitativa delle discipline classiche nei sistemi scolastici europei, dagli anni sessanta del secolo scorso. L’Italia non ha confinato il latino in un solo indirizzo specialistico (come l’Austria o la Danimarca), né l’ha reso opzionale (come la maggioranza degli stati europei); tuttavia l’ha lentamente ridimensionato nel corso degli anni, fino alla notevole contrazione della recente riforma Gelmini. Lo scarso attaccamento che italiani ed europei sembrano dimostrare nei confronti delle lingue e della cultura dei loro progenitori contrasta con il rapporto che altri popoli instaurano con il loro "latino e greco". Tullio De Mauro - nell’introduzione al saggio della Nussbaum di cui parleremo - ha ricordato che in Cina, Giappone, India, nei paesi arabi e in Israele la conoscenza delle rispettive lingue classiche (il cinese e il giapponese classici, il sanscrito, l’arabo del Corano, l’ebraico biblico) è considerata centrale nei processi educativi e praticata come elemento di identità nazionale. Eppure sono proprio questi alcuni dei paesi protagonisti oggi di tumultuosi progressi economici, dai quali provengono scienziati, tecnici ed economisti di altissimo livello. Nel saggio Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2011) Martha C. Nussbaum analizza le logiche che ispirano i sistemi scolastici dei paesi avanzati. La filosofa americana lancia un grido d’allarme sulla "silenziosa crisi" che sta colpendo i sistemi formativi a livello mondiale, da lei identificata nella perdita di ruolo delle discipline umanistiche. Ciò deriva da un asservimento della missione educativa a logiche economicistiche, secondo una visione semplificata del rapporto tra scuola e sviluppo economico. La scelta del PIL come indicatore prevalente del successo economico di un paese (peraltro messa in discussione da economisti come Amartya Sen) ha infatti indotto i governi a privilegiare le discipline direttamente funzionali alle innovazioni tecnologiche e alla crescita economica, a netto discapito delle discipline umanistiche, percepite come "fronzoli superflui". Ora, sempre secondo la Nussbaum, la dissociazione o il disequilibrio tra le due culture deprime le potenzialità di innovazione, di creatività, di pensiero indipendente, necessarie a conseguire risultati in campo tecnico-scientifico ed economico, e, al tempo stesso, ostacola il formarsi di cittadini pienamente inseriti nella vita democratica, capaci di esercitare i propri diritti. Alla deprecata "istruzione per il profitto" la Nussbaum oppone un’"istruzione per la democrazia". Secondo la Nussbaum, infatti, le capacità intellettuali favorite dagli studi umanistici sono «fonda-mentali per mantenere vive e ben salde le democrazie [...] per consentire [loro] di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parti di un mondo interdipendente». Ella le identifica in tre aree: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell"`altro". L’educazione per la buona cittadinanza e la democrazia non è del tutto alternativa a quella per il profitto, perché - aggiunge la Nussbaum - l’interesse di «una democrazia moderna [per] un’economia forte e una cultura di mercato fiorente [...] richiede proprio l’apporto degli studi umanistici e artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa». Il taglio esplicitamente politico dell’analisi della filosofa americana rappresenta una novità nel dibattito sui destini della cultura classica, perlopiù condotto su un piano culturale. Not for profit è divenuto subito un successo planetario e il clima prevalente è di consenso alle posizioni della Nussbaum, ma non mancano le critiche. C’è chi le attribuisce una visione troppo ottimistica e forse illusoria della democrazia, salvata dalle discipline umanistiche grazie al metodo del confronto socratico e del critical thinking. Alessandro Pagnini ha scritto che quella della Nussbaum sembra una «teologia secondo la quale il bene finirà per trionfare in virtù della sola conversazione», ricordando che «Pol Pot leggeva Rousseau e Sartre, e che il neonazista della recente strage di Oslo leggeva Kafka!» (Humanities alla luce della ragione, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 4 settembre 2011). Un’altra obiezione rivolta alla Nussbaum è che il suo saggio sembra riproporre l’antinomia tra la cultura scientifica e quella umanistica. Il problema delle "due culture", posto per la prima volta nel 1959 dal celebre saggio di Charles P. Snow, risulta oggi complicato dal parcellizzarsi delle scienze e delle tecnologie, che sembrano generare non due o tre, ma una pluralità di culture. Da ciò le preoccupazioni di chi vede - citiamo ancora Pagnini - nella «pur sacrosanta rivendicazione del valore formativo delle humanities» il rischio che possa di nuovo assumere i tratti di una pretesa egemonica, soprattutto in paesi i cui sistemi formativi non forniscono un’adeguata «forma mentis scientifica, che faccia con naturalezza pensare le cose in modo oggettivo e le faccia prima di tutto confrontare con le evidenze». È questo, in particolare, il caso dell’Italia, viziata da un persistente deficit di cultura scientifica. Non mancano d’altra parte i richiami alla primigenia unità di cultura umanistica e cultura scientifica. La scissione tra le due culture non è "naturale", ma si colloca storicamente alla metà del XIX secolo, e il valore di quella unità – scrive Bruno Arpaia – appare se ci chiediamo per esempio come sia possibile oggi «parlare di sentimenti o di emozioni senza sapere nulla di sinapsi e neuroscienze» (Non due, ma mille culture, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 10 luglio 2011). Tra coloro ai quali va riconosciuto il merito di condurre con convinzione questa battaglia per l’unità del sapere stanno certamente i classicisti. Tra gli altri si distingue il Centro Studi La permanenza del Classico dell’Università di Bologna, diretto da Ivano Dionigi, cui si deve un convegno sui rapporti tra scienza e cultura classica tenutosi nel 2005, nel quale intervenne il fior fiore dell’intellettualità classicista, filosofica e scientifica italiana e internazionale. Nel contributo Classici perché, classici per chi (comparso nella miscellanea di saggi Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008) Dionigi ricorda la diversità degli statuti disciplinari scientifico e umanistico, uno basato su un paradigma sostitutivo in quanto incrementato da nuove scoperte, l’altro su un paradigma cumulativo in quanto incrementato dalla memoria storica, ma depreca l’autonomia "sciagurata" tra classici e scienza. C’è un terreno sul quale in particolare gli umanisti rivendicano da sempre una comunanza metodologica ed epistemologica con gli scienziati: la filologia. Nel saggio Filologia e libertà (2008) Luciano Canfora attribuisce a questa disciplina quei requisiti di indipendenza di pensiero e di lotta contro il dogmatismo che ne fanno «la più eversiva delle discipline». Canfora ricorda che il «metodo Lachmann», punto di svolta della storia della filologia, venne salutato al suo apparire a metà dell’Ottocento come metodo scientifico, in grado stabilire una "legge", identificata con lo stemma codicum, cioè con l’albero genealogico dei codici tramandati di un testo. Ma poi – prosegue lo studioso – quel metodo fu messo in discussione dagli studi successivi e la "norma" dello stemma divenne l"eccezione", mentre quella che prima era considerata l’eccezione, cioè la contaminazione dei codici, divenne la norma: un capovolgimento che sembra parallelo a quello che riguardò matematica, fisica, astronomia, le cui "norme" vennero messe in discussione dagli inizi del Novecento. Da un protagonista delle rivoluzioni culturali novecentesche, Albert Einstein, viene un’altra riflessione sul legame tra cultura scientifica e cultura umanistica. Nella sua autobiografia intellettuale Einstein ricorda il rapporto profondo che esiste tra concetti, cioè tutto quel che sappiamo e pensiamo, e parole, che apprendiamo dalla tradizione. E la tradizione da cui sono nate le nostre parole (lo sottolinea De Mauro nella già citata prefazione alla Nussbaum) è quella greco-latina, dalla quale proviene in maniera pressoché esclusiva il lessico intellettuale delle lingue europee. Conoscere quelle parole nella precisione e densità del loro significato è indispensabile per parlare con un linguaggio non stereotipato o banale, per accedere ai testi del proprio patrimonio culturale, per progredire nella conoscenza. Ma, se sono vere e da tanti condivise tutte queste qualità della cultura classica, perché assistiamo al suo declino? Basta a spiegarlo l’interpretazione economica della Nussbaum, che si lega alle conseguenze dell’attuale mondo globalizzato? Quali effetti provoca la globalizzazione sul piano culturale, sul senso comune delle persone, sul loro modo di interpretare la realtà e se stessi? E questi effetti confliggono con la cultura umanistica e classica in particolare? Salvatore Settis (nel saggio Futuro del "classico", 2004) individua nel postmoderno il sistema culturale che corrode dall’interno la cultura classica, soprattutto attraverso due elementi che lo caratterizzano: la perdita di senso storico, cioè l’appiattimento sul presente percepito come virtualmente simultaneo a qualunque momento del passato; il citazionismo, cioè la scomposizione della tradizione in frammenti decontestualizzati e sottoposti ai più arbitrari rimontaggi. I due elementi si combinano in quanto le "citazioni" – per esempio gli elementi architettonici classici inseriti in edifici di oggi, o le vignette che raffigurano George W. Bush vestito da imperatore romano – corrispondono a «un uso della storia per exempla, e non secondo una concatenazione di eventi, stabiliti mediante l’indagine storica e legati da nessi di causa ed effetto». Così, nell’orizzonte globalizzato l’antichità classica si guadagna il suo piccolo posto in mezzo a tante altre antichità (indiane, cinesi, maya), oppure viene «ridotta a un retroterra nebbioso e indistinto, conservando semmai solo una qualche funzione ornamentale» (i "fronzoli superflui" di cui parla anche la Nussbaum). Le amare constatazioni di Settis si accompagnano alle sue accuse contro certi sostenitori della classicità, involontari alleati dei suoi peggiori nemici. Attribuire al classico un carattere paradigmatico e di perenne attualità, investirlo della responsabilità di esprimere un valore identitario in risposta alle ansie della globalizzazione, farne la bandiera della civiltà occidentale come contenitore di radici comuni: tutto ciò da una parte esprime una concezione eurocentrica ed egemonica, destinata a fallire nel mondo globalizzato, dall’altra banalizza la stessa cultura classica perché ne semplifica la complessità, riducendo ad unum ciò che invece è plurale. Insomma, proiettare la classicità su un piano universale equivale a "estirparla dalla storia", esattamente come fa la cultura postmoderna. Un analogo rifiuto dell’"iconizzazione" del classico è espresso da Giuseppe Cambiano. Per rispondere alla domanda posta dal titolo del suo saggio Perché leggere i classici (2010), Cambiano contesta uno dopo l’altro i luoghi comuni sulla validità della cultura classica, lasciandoci in un disarmante disorientamento. Non è vero che i classici sono dotati di intramontabile verità e bellezza: anch’essi soffrono di finitudine e precarietà. Non è vero che sono per forza attuali, perché le risposte che, per esempio, i filosofi antichi danno alle esigenze del presente possono essere viziate da quella che egli chiama la "cosmetica" dei classici, cioè da un’operazione di occultamento di ciò che non è considerato ideologicamente valido al momento, oppure possono essere più proficuamente sostituite dalle risposte offerte dalla filosofia contemporanea. Non è corretto neppure affermare che nella cultura classica risiedono le radici della cultura occidentale: questa metafora esprime una concezione teleologica, secondo la quale il presente è il frutto inevitabile del passato e non avrebbe potuto essere diverso da quello che è, mentre sappiamo che la storia scritta dai vincitori tende a cercare nel passato solo ciò che li giustifica e li esalta. E dunque? La soluzione sta nell’accettare la realtà multiforme della classicità e nel rifiutarne l’immagine di modello armonico a senso unico, o compatibile con nostre scelte di valore. Sta, in altre parole, nel farla emergere nella sua irriducibile complessità, «come rete di alternative che di volta in volta sono state fatte valere e si fanno ancor oggi valere» (Cambiano), nella consapevolezza che non esiste un "classico" perché ogni epoca se n’è inventata un’idea diversa (Settis). Bisogna insomma accettare che gli antichi sono "altro" da noi e rapportarsi a loro con procedimenti simili a quelli che l’antropologia usa per studiare culture diverse dalla propria, considerandoli un "altrove" (nel tempo) analogo a quello di altre culture extraeuropee (l’altrove" nello spazio). Questi procedimenti di "straniamento" consentono di misurare la distanza che ci separa dai Greci e dai Romani per esempio in materia di amore e sessualità, o di giudicare con i nostri parametri la schiavitù e i giochi gladiatori, o di confrontare il nostro concetto dei diritti femminili con la condizione giuridica delle matrone (come fa Maurizio Bettini, Noi e i romani. Un problema di giusta distanza, nel volume collettaneo Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008). Un relativismo culturale, dunque, nel quale la cultura classica "vale" per noi quanto le grandi civiltà asiatiche o le culture cosiddette "primitive"? In realtà, il confronto che stabiliamo con i nostri maiores è profondamente diverso. Il fatto è – afferma ancora Cambiano – che essi si sono così profondamente sedimentati nella nostra cultura da fornire oggi un patrimonio di "credenze comuni" (concetti filosofici, principi giuridici, tòpoi letterari e artistici, pratiche di vita quotidiana ecc.) che costituiscono non un blocco omogeneo, anzi «una sorta di multiculturalismo nel cuore stesso di quella cultura che si crede unitaria, e che siamo abituati a chiamare occidentale», ma tuttavia esplicitamente o implicitamente condiviso. In questa polarità tra alterità e persistenza del classico risiede la motivazione più profonda del suo studio, e del nostro insegnamento. Come dice Settis, «sia perché lo sentiamo nostro, sia perché lo riconosciamo "diverso" da noi; sia in quanto esso è intrinseco alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, sia in quanto ci apre la porta a studiare e comprendere le culture "altre"; sia perché serbatoio di valori in cui possiamo ancora riconoscerci, sia per quello che esso ha di irriducibilmente estraneo». In conclusione, possiamo rispondere ai nostri studenti che la cultura classica "serve" per gli strumenti di critical thinking (su cui tanto insistono gli americani), per «l’apertura e la radicalità delle argomentazioni, il conflitto delle idee, la fiducia nella capacità della ragione di decidere di questo conflitto, l’instancabile curiosità nell’esplorare prospettive e orizzonti di conoscenza» (Mario Vegetti, Di fronte ai classici, 2003). Serve perché ci aiuta a pensare, parlare e leggere bene, comprendendo il significato del patrimonio letterario (il che, di questi tempi, rappresenta un’emergenza educativa nazionale). Serve perché, con la sua identità plurale, costituisce una sorta di pre-globalizzazione che aiuta a "trascendere i localismi", e, con il suo cosmopolitismo, offre strumenti per affrontare i problemi mondiali come "cittadini del mondo", come dice la Nussbaum. Serve perché, con la sua alterità, ci abitua a un sano relativismo nemico del pensiero unico e perché, come si augura ancora la filosofa americana, offre la raffigurazione simpatetica della categoria dell’altro. E, ancora, serve perché aiuta ad acquisire una profondità di senso storico e per l’eredità insieme linguistica e di fondamenti e strutture del pensiero europeo. Serve, infine, perché ci aiuta ad abitare le città e le campagne del nostro paese e di tanti paesi di quello che fu un tempo l’impero romano, il cui immenso patrimonio archeologico non può essere compreso se non se ne conosce la cultura; il che, come ricorda Ivano Dionigi, tra l’altro offre, o offrirebbe, straordinarie prospettive economiche.
Autori vari, «Cultura umanistica e scuola: riflessioni e analisi», Pearson Italia, 2011 (pp. 49-54)

14 dicembre 2012

De lege naturali

di Roberto Spadaro
In fabulis tragicis, quas veteres Graeci egerunt, persaepe dramatis personae, potestatum iniuriis despectis, leges naturales numquam violandas vindicant. Quae, ante homines eorumque civitates constitutas, praecipiunt ut omnibus tempestatibus sive secundis sive adversis serventur. Sed homines in civitatibus administrandis sunt haud raro consilia sua secuti, quae, cum illis essent legibus contraria, malorum causa fuerunt. Ideo Sophocles, maximus fabularum tragicarum auctor, Antigonam, animosissimam Oedipi filiam, Creontem, dirum Corinthiorum regem, arguisse atque increpuisse enarrat. Tyrannus enim prohibuit ne Polynicis cadaver, Antigonae fratris, cum esset in pulvere relictum, postremis mortis muneribus donaretur. Quae suis perfecit manibus Antigona ipsa. Memoranda illa videntur verba, quae nobilissima mulier, ullo sine metu, est coram tyranno vehementer proferre ausa. Quae quidem verba hoc modo in Latinum sermonem verti possunt: "Numquam crederem edicta mortalis hominis tantam habere vim, ut immortalium deorum leges revocent atque abrogent. Quae, cum sint in hominum animis insculptae, numquam deleri possunt. Leges vero, cum sint nec hodie nec hesterno sancitae die, aeternae vivunt nec quisquam quo die exortae sint cognoscit". Nostra quoque aetate Antigona, si viveret, coram Creonte asperrime pro illis dimicaret legibus tuendis, quae vel ad vitam colendam, vel ad vinculum matrimoniale servandum, vel ad pueros instituendos, vel ad egenos sublevandos pertinent. Verum tamen non desunt qui, perinde ac Creo, asseverant ius, a natura promulgatum, non esse cui magistratus, legibus faciendis deputati, obnoxii sint. Nihilo minus omnes fere homines, ratione usi, per saeculorum decursus, hoc duxerunt pro certo: ius naturale veluti limitem esse, ultra quem hominum dignitas amplius non exstet. Iure naturali contempto luceque humanae rationis fuscata, tantum saevientium libido, insolentia dominantium rem publicam occupabunt. Leges naturales igitur sunt sacra principia ducendae, quae nemini violare licet.
«Avvenire» dell'11 dicembre 2012

Se il bene comune è debitore a Dio

Al Pirellone la polis apre una finestra sull’Europa
di Cesare Alzati
Si tiene oggi a Milano, nella sala Pirelli dell’omonimo grattacielo sede della regione Lombardia il seminario «La religione e la Polis, a 1700 anni dall’editto di Costantino 313-2013», organizzato dall’Associazione Sant’Anselmo. Con inizio alle ore 11 parleranno, tra gli altri, Cesare Alzati, dell’Università Cattolica, Mihai Barbulescu e Iulian Damian dell’Accademia di Romania a Roma, Emre Oktem dell’università Galatasaray di Istanbul, Costante Portatadino, presidente della Fondazione Europa e Civiltà. Verrà presentato nell’occasione anche il programma promosso dall’Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis insieme alla Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana tra marzo e giugno 2013 che prevede incontri con Franco Loi, Roberto Mussapi, Armando Torno sui temi della Bibbia. Anticipiamo in questa pagina alcuni stralci della relazione di Alzati
Porsi il problema degli ordinamenti istituzionali del vivere civile, della loro legittimità, del loro fondamento è un aspetto della più generale questione – ineludibile per ogni società – di cosa sia la giustizia, di quale sia la sua fonte ultima, di come si rapporti a essa il diritto positivo. La riflessione ellenistica al riguardo nel I secolo a. C. (non senza influssi del patrimonio religioso ebraico, come ha mostrato recentemente Bruno Centrone) era venuta configurando la giustizia quale riflesso a livello umano dell’ordine armonico immesso dalla divinità nel cosmo. In conformità a tale armonia celeste deve – per il filosofo neopitagorico Ecfanto – configurarsi anche la città terrena, che trova il proprio principio armonizzante nella giustizia. In modo non molto diverso si sarebbe espresso poco dopo, ormai in contesto imperiale romano, anche l’ebreo Filone. In anni assai prossimi a quest’ultimo vediamo l’Epistola ai Romani insistere fortemente sul nesso costitutivo sussistente tra giustizia e autorità, presentando la seconda come voluta da Dio quale ministra della prima. È perfettamente coerente con tali premesse l’episodio verificatosi nel 272 ad Antiochia, quando i vescovi della regione rimisero al giudizio dell’imperatore (pagano) Aureliano la definizione del contenzioso che li opponeva al loro collega, il vescovo locale Paolo Samosateno. La percezione dell’istituzione imperiale romana quale ordinamento di giustizia agli occhi dell’antica Roma trovava il proprio fondamento nella sussistenza, preservata con scrupolosa cura, della pax Deorum, ossia nel corretto rapporto tra la Res publica e la realtà trascendente del divino, che della giustizia è la fonte. Proprio la preoccupazione per la pax Deorum sta all’origine della concessione della libertà di culto ai cristiani elargita da Galerio (imperatore pagano) nel 311. Le ragioni che ispirarono la decisione sono esplicitamente enunciate nel testo del relativo editto, promulgato a Nicomedia il 30 Aprile di quell’anno: "Prima di questo momento, in verità, noi avevamo voluto ristabilire ogni cosa in conformità alle antiche leggi e alla norma pubblica dei Romani, e provvedere affinché pure i cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro avi, ritornassero al retto sentire ... Ma poiché in moltissimi perseveravano nel proprio proposito, e noi abbiamo constatato ch’essi né mostravano la doverosa devozione verso gli Dei celebrandone il culto, né rendevano ossequio al Dio dei cristiani ... abbiamo ritenuto opportuno accordare loro prontamente la nostra indulgenza, affinché di nuovo possano essere cristiani e ricompongano le loro comunità, in modo tale che il loro comportamento in nulla sia contrario a ciò che è doveroso ... Essi saranno tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della Res publica e loro, affinché per ogni dove la Res publica prosperi intatta ed essi possano vivere sicuri nelle loro sedi"... Di tale modo di sentire una testimonianza ancor più significativa ci offre un documento successivo alla vittoria su Licinio, che nel 324 fece di Costantino l’unico signore dell’Impero. La consistenza delle comunità cristiane nelle regioni orientali acquisite aveva spinto alcuni a ipotizzare iniziative di coartazione delle tradizioni religiose pagane. Costantino lo segnala esplicitamente: "Sento alcuni dire che i riti dei templi e la potenza delle tenebre sono stati cancellati". Ma - afferma l’imperatore - "nessun uomo dotato d’intelletto dovrebbe lasciarsi turbare dalla vista di molti che sono portati verso scelte contrarie ... è il Dio eccelso che detiene l’autorità assoluta nel giudizio ... Ciascuno abbia ciò che la sua anima desidera e ne sia appagato ... Che il popolo viva in pace e non sia turbato da lotte intestine, per il bene comune dell’intera ecumene e di tutti gli uomini. E anche coloro che persistono nell’errore traggano pari giovamento dalla pace e dalla tranquillità ... noi preghiamo anche per loro, affinché, grazie alla comune concordia, essi pure ottengano la gioia". Questa ricerca di armonia religiosa nella società non è il riflesso di un’aspirazione ideale: agli occhi di Costantino trova fondamento nella struttura stessa della realtà: "Il sole e la luna compiono il loro percorso secondo leggi stabilite e gli astri non attuano il loro movimento nella volta celeste in modo casuale, l’alternanza delle stagioni è regolata da leggi cicliche ... il mare è circoscritto entro rigidi confini e tutto ciò che trova spazio sulla terra e nell’oceano è costruito con meravigliosa e utile generosità". Il rilievo della dimensione religiosa per il vivere civile non è, dunque, una pretesa cristiana: è stato costantemente avvertito fino alla ideologizzazione secolaristica della vita istituzionale. Al di là dei problemi storici connessi a quanto stipulato a Milano nel 313, se il Centenario che stiamo celebrando servirà a farci riflettere sui grandi temi della nostra storia istituzionale, credo che possa considerarsi un evento di vita culturale e sociale estremamente prezioso.
«Avvenire» del 14 dicembre 2012

09 dicembre 2012

A lezione di calligrafia: la bella scrittura come brand

Crescono i corsi mentre le agenzie pubblicitarie cercano amanuensi E nell’era del web il lettering diventa ancora di più espressione dell’anima
di Michele Boroni
Scrivere con i segni, disegnare attraverso le lettere. Questa è, in estrema sintesi, l’essenza della calligrafia. In realtà, dietro una disciplina che a molti potrà sembrare desueta e ricordare l’opera paziente di antichi amanuensi o gli esercizi di bella scrittura d’altri tempi, si nasconde un universo multiforme e una pratica contemporanea che tutti noi possiamo frequentare. Dopo l’ubriacatura tecnologica e l’omologazione dei software, era inevitabile un ritorno alla manualità. In Italia e in tutta Europa nascono corsi sia per migliorare la scrittura manuale, sia per scoprire il proprio potenziale creativo. «Con l’avvento della stampa si pensava che la scrittura amano sarebbe scomparsa — raccontaMonica Dengo, calligrafa e ideatrice di corsi di scrittura —. Invece è diventata uno strumento propulsore che ha dato vita a una moltitudine di scritture individuali desiderose di pubblicazione. Allo stesso modo, ora che stiamo gradualmente perdendo la scrittura manuale in favore di quella digitale, ci si rende conto che la calligrafia non serve solo a trasmettere un messaggio, ma anche un bisogno profondo di esprimere la propria specifica, inimitabile personalità». Cambiano le finalità: scrivere a mano porta alla riscoperta della funzione espressiva, al piacere del puro gesto. «Nei corsi si lavora persino sulla scrittura illeggibile: dunque non solo “bella calligrafia”, ma una perlustrazione completa del mondo della scrittura manuale, vista anche come arte visiva personale», continua Dengo, che è anche presidente del Centro internazionale di Arti calligrafiche con sedi a Roma e Arezzo. Stiamo assistendo alla rinascita di una disciplina che, specialmente in Inghilterra, è stata viva fin dagli inizi del secolo scorso, ma che negli ultimi vent’anni ha avuto un grande impulso anche nel resto dell’Europa grazie amolti gruppi di studi di calligrafia occidentale in Giappone, dove la scrittura a mano (shodo, letteralmente «la via della scrittura») è considerata al pari dell’arte figurativa. Solitamente si tende, piuttosto, ad apparentare il tratto intimo emeditativo dell’arte calligrafica alla danza: entrambe implicano il senso dello spazio, del ritmo, dell’azione e persino delle pause. Pratiche del corpo con uno spessore meditativo e corporale che si trova anche nello yoga. La scrittura corsiva consente al nostro pensiero di arrivare fluido sul foglio, senza particolari cesure, fratture o intermediazioni; in un certo senso è la nostra lingua privata che permette di raccontarci meglio. Oggi però oltre il 40% dei giovani tra i 14 e i 19 anni non sa più utilizzare il corsivo, con il risultato che la fatica raddoppia a prendere appunti durante la lezioni. Quindi per molti è necessario iniziare il percorso da bambini, magari cambiando il metodo di insegnamento. Lo scorso anno la stessa Dengo, insieme con altri calligrafi, ha reintrodotto il corso di calligrafia (cessato nelle scuole negli anni Settanta) all’Istituto paritetico di Terranuova Bracciolini (Arezzo) con un metodo innovativo, in cui viene ripreso il corsivo italico — tipo di carattere a mano le cui semplici forme risalgono al Rinascimento e vengono eseguite con un unico tratto di penna — in una modalità facilitata e più divertente per i bambini rispetto ai quattro tipi di scrittura (stampatello e corsivo minuscolo e maiuscolo) imposti dai programmi ministeriali. Dunque la voglia di scrivere a mano è un ritorno ai tempi antichi? Un fenomeno vintage? Non proprio. Semplicemente, come scrive anche il sociologo Richard Sennett nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli), un ritorno coscienzioso a saper fare bene le cose, all’apprendimento di una disciplina e all’utilizzo dell’intelligenza della mano. Per affermare la contemporaneità della calligrafia è uscito recentemente il libro Take Your Pleasure Seriously (Lazy Dog Press), dedicato alla figura di Luca Barcellona, classe 1978, nato come writer e graffitista e oggi tra i più stimati calligrafi di lettering artistico e commerciale. Brand e agenzie pubblicitarie sono, infatti, particolarmente attratti dalla grande forza comunicativa del lettering scritto a mano. Ma la rinnovata passione per la calligrafia non deve esser vista come una ribellione al mondo digitale. «In Italia — racconta Roberta Buzzacchino, che usa la calligrafia per realizzaremappe mentali, rappresentazioni grafiche del pensiero attraverso la scrittura radiale — i corsi di calligrafia sono stati promossi attraverso Twitter ideando l’hashtag #scriviamoamano, per dimostrare che anche un momento intimo e personale come la scrittura a mano può essere condiviso e social». La biografia di Steve Jobs, che iniziò la propria avventura proprio con l’iscrizione a un corso di calligrafia presso il Reed College di Portland, diventa un esempio paradigmatico. Come ricorda Jay Elliot in Steve Jobs. L’uomo che ha inventato il futuro (Hoepli) nei suoi appunti da studente, colui che ha ideato l’iPhone e l’iPad scriveva: «È la mano la parte del corpo che più di ogni altra risponde ai comandi del cervello. Se potessimo replicare la mano, avremmo realizzato un prodotto da urlo».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 9 dicembre 2012

La nuova vita della carta

Animazioni 3D, architettura, software: la fruizione è digitale, il processo artistico analogico
di Cristiana Raffa
La creatività passa ancora da matita e foglio. Lo conferma Armani: il disegno nasce solo lì
Nei Walt Disney and Pixar Animation Studios, in California, dove si va a lavorare in scarpe da ginnastica e si gioca a minigolf in sala riunioni, sono impiegati fino a quindici disegnatori per ogni produzione. Più avanza la tecnologia che rende verosimili le animazioni in pixel, più c’è bisogno di precisi schizzi a matita. I 27.555 disegni per A Bug’s Life sono raddoppiati per Alla ricerca di Nemo, triplicati per Ratatouille, quintuplicati per Ribelle. Quel che fanno dietro le quinte gli animatori lo vediamo ogni volta che viene allestita una mostra che ne celebra la magica attività; è stato così proprio per la retrospettiva sulla Pixar che ha girato il mondo passando anche per l’Italia, o per quella dedicata dal Moma a Tim Burton nel 2009. Ancora oggi, con gli storyboard, lavorano quasi tutti i registi, come ha ben documentato lo scorso anno il Museo del Film e della Televisione di Berlino. È la carta il trait d’union tra ieri e domani: ieri c’era un mondo che «sulla pasta di carta ha fondato le sue rivoluzioni», come ha scritto il critico americano Clement Greenberg nella sua lettura dell’arte del XX secolo. E domani, forse, anche. La carta è ancora il materiale che consumiamo maggiormente, persino più del cibo. Non è pronta per entrare in un museo, come proponeva provocatoriamente qualche giorno fa Ian Sansom sul quotidiano inglese «The Guardian» (che continua a smentire le voci che ne danno per spacciata la versione cartacea a causa di perdite per 100 mila sterline al giorno), semplicemente perché non è ancora un pezzo da museo. Il processo creativo di chi produce per l’industria culturale e dello spettacolo — anche se il fine è un’interfaccia multimediale — passa ancora da lì. Si pensano su carta le applicazioni per smartphone, che siano giochi o servizi, partendo da strutture che sono trasferite più volte dalla mente al block notes. Spiega Pietro Saccomani, cofondatore di Fifty Pixel, start-up italiana a Londra fornitrice per Groupon e Apple: «Vivendo immersi nella tecnologia abbiamo provato soluzioni completamente digitali — un’ottima app per iPad si chiama proprio Paper — che offrono il vantaggio di rimediare facilmente a un errore o di ripercorrere a ritroso velocemente i progetti, ma nulla ha la flessibilità, la leggerezza e l’immediatezza della carta. Quando programmiamo per mobile o per un sito Internet disegniamo l’interfaccia con un pennarello, così non ci facciamo distrarre dalla tecnologia e ne discutiamo più agevolmente col gruppo di lavoro». È nato così anche Arduino, l’hardware open source italiano per lo sviluppo di oggetti interattivi che ha cambiato la vita ai «makers» (gli artigiani del digitale) di tutto il mondo. Racconta il suo inventore Massimo Banzi: «Continuo a disegnare architetture e appunti su grandi fogli, anche se i giornali e i libri li leggo ormai solo sul tablet». Che la via stia dunque nella convivenza, magari nella cooperazione, tra i mezzi, senza che l’uno debba necessariamente uccidere l’altro? Per mostrare ai fan come prendono forma i suoi spropositati look, Lady Gaga pubblica su Instagram i bozzetti fatti amano per lei dai grandi stilisti (basta digitare «Gagapedia sketches» su Google). Giorgio Armani, che ha disegnato gli abiti più d’avanguardia per l’ultimo tour della popstar italoamericana, dichiara: «La tecnologia è un acceleratore utilissimo, ma un modellista lavora manualmente: la mano è molto diversa da un tasto, con matita e foglio io tengo fede alla mia origine di designer puro». Generati da un fumetto analogico sono anche gli uccellini che hanno rivoluzionato la storia dei giochi digitali, gli Angry Birds della finlandese Rovio (lo scorso 8 novembre la versione Star Wars ha segnato un record di downloads sull’AppStore a sole 2 ore dal lancio): «È cominciato tutto quando uno dei designer ci mostrò lo schizzo su carta di un uccellino infuriato perché un maiale verde, probabilmente ammalato di influenza aviaria di cui si parlava in quel periodo, gli aveva rubato le uova», spiega Ville Heijari, vicedirettore della divisione Media Franchise. E cosa ha portato gli sviluppatori Nintendo a continuare la saga di Paper Mario (versione «di carta» dell’idraulico più amato del pianeta) con il nuovo gioco Sticker Star per la consolle 3DS? La «paperisation» dell’icona Super Mario e del suo mondo, col merchandising, ovviamente di carta, che continua ad appassionare i ragazzi. Alla carta ha reso omaggio la scorsa estate il genio dell’architettura Frank O. Gehry con il grandioso allestimento di un Don Giovanni di Mozart a Los Angeles, fatto completamente di scartoffie. Lui, padre della «paper architecture», dice: «Non posso pensare a un processo creativo senza carta», e continua a insegnarlo ai giovani del suo studio. E se «The Daily», il primo quotidiano solo per iPad pubblicato da Rupert Murdoch, chiude dopo neanche due anni di attività, lontano dagli Usa e dall’Europa i giornali «di carta» stanno vivendo oggi la loro stagione d’oro: in India, Cina, Brasile, Sudafrica avanza una classe media desiderosa di notizie da sfogliare, magari mentre si sorseggia un caffè al bar. Il nostro rapporto col materiale che più apre le porte alla mente è un bisogno pratico. Non c’è da stupirsi se il foglietto più pop della storia, il Post-it, regga sulmercato nonostante l’aspra concorrenza: oltre 4 miliardi di dollari di fatturato nel 2011, con un segno sempre positivo rispetto agli anni precedenti. Un caso emblematico per capire quanto sia cieco ipotizzare un’apocalisse del mezzo cartaceo è stato raccontato dal «Wall Street Journal» che ha preso in esame l’iter produttivo di Paperless Post, una delle start-up di maggior successo a New York negli ultimi tre anni, fondata da due ventenni di Harvard. L’azienda, oggi 50 impiegati e 10 milioni di dollari di fatturato, produce dal 2009 biglietti di auguri digitali. Dalmese scorso la svolta: «Abbiamo iniziato a produrre cartoline di carta perché il 50% dei nostri clienti ce le chiedeva, disposti a pagarle 10 volte di più: 2 dollari per cartoline reali, 20 centesimi per quelle virtuali», spiega il fondatore James Hirschfeld, 26 anni, che prevede un futuro ancora ibrido. «Benché avessimo un’impresa che puntava tutto sul digitale — continua —, ci troviamo a invertire parzialmente la rotta. I consumatori ci hanno messo 15 anni per abituarsi all’e-commerce, ora vogliono soluzioni buone sia online che offline. Su questo stanno ora puntando anche grandi portali comeWarby Parker, Bonobos, Piperlime». Se dunque la fruizione prende l’inevitabile (seppure altalenante) strada della smaterializzazione, il processo creativo segue sempre le stesse puntuali logiche (analogiche): una palletta di carta che fa canestro nel cestino, fino al lampo di genio che ci avvicina al futuro.
«Corriere della sera - supll. Lettura» del 9 dicembre 2012

08 dicembre 2012

La «dittatura» dell’oroscopo: i creduloni e i veri credenti

Dati preoccupanti delle ricerche su Google
di Mauro Cozzoli
Induce a pensare la notizia – divulgata in questi giorni – che una delle tre parole più cliccate quest’anno sul motore di ricerca Google sia 'oroscopo' (insieme con 'facebook' e 'meteo'). Indice dell’esteso e crescente interesse della gente per gli oracoli delle stelle. L’oroscopo è un vaticinio basato sull’astrologia, la quale – leggiamo nel Vocabolario Treccani – «presume di determinare i vari influssi degli astri sul mondo terreno e in base a essi prevedere avvenimenti futuri o dare spiegazione di fatti passati». Previsioni e spiegazioni aleatorie, per la ascientificità e arbitrarietà di quegli influssi, che fanno capo a una lettura mitica e chimerica dell’universo astrale, al limite della superstizione e del feticismo. È vero che l’oroscopia e l’astrologia – demitizzate da sempre dalla Bibbia e dalla Chiesa – vengono da lontano. Se esse potevano ostentare una parvenza di plausibilità in epoche prescientifiche, sotto influssi e retaggi di paganesimo, non hanno ragion d’essere in una socio-cultura che si avvale dei contributi della scienza, che ne certifica l’infondatezza. Il National Science Board negli Usa dichiara l’astrologia «una credenza pseudoscientifica». Ciononostante il fenomeno è ampiamente diffuso e provocato, in una spirale di domanda e offerta che si alimentano a vicenda, trovando nei media di largo consumo – giornali, riviste, tv, radio, internet – terreno di coltivazione e propagazione. Non importa – anche per media che menano vanto di ascendenza e osservanza 'illuministica' – l’irragionevolezza e inconsistenza scientifica del fenomeno. Ma così non si educano, si fuorviano piuttosto le coscienze verso quel neopaganesimo strisciante che rode sempre più terreno all’intelligenza, prima ancora che alla fede. Laddove la fede intercetta l’anelito di trascendenza e di essere (l’invocazione salvifica) dell’uomo, in dialogo fecondo con l’intelligenza, l’astrologia lo tira fuori da sé, lo estranea, proiettandolo in un universo illusorio e mistificante. Il Dio Persona è nebulizzato nel dio senza volto del numinoso astrale e magico. Non ne va solo dell’intelligenza, bypassata dall’inverosimile. Ne va anche della libertà. Perché interlocutore dei vaticini degli astri non è il volere intelligente e responsoriale della fede, ma la sottomissione ingenua e gregaria della credulità. Se non dichiari il segno zodiacale e non credi nell’oroscopo sei un alieno. Fino a manifestazioni di vera e propria dipendenza. Vi sono maniaci dell’oroscopo, tali da non poter fare a meno del presagio delle stelle. Nell’approssimarsi di un nuovo anno il fenomeno conosce picchi record di espansione, nel tentativo di catturare miraggi e presagi. Tutto questo non viene da Dio. Anzi prolifica in un vuoto di Dio, surrogato da idoli, forze occulte, energie cosmiche, neopanteismi. Come diceva Gilbert K. Chesterton, «chi non crede in Dio comincia a credere a tutto». Da questo credere avventato e insipiente ci libera la fede, rapportandoci a Dio come a nostro Padre. Rapporto di libertà filiale, annodata da Cristo, il Figlio: «Cristo ci ha liberati, perché fossimo liberi» (san Paolo). Perché tornare allora al determinismo opprimente di potenze occulte, sottratte alla signoria liberante e provvidente di Dio? «Perché – ci dice l’Apostolo – lasciarvi imporre precetti e cose destinate a scomparire? Sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini con la loro falsa religiosità». Passa da questa demarcazione tra la relazione liberante a Dio e quella asservente a feticci antichi e nuovi la differenza tra il sapiente e l’insipiente. Il primo è un credente, il secondo un credulone.
«Avvenire» del 7 dicembre 2012

A quelli che non intendono: laicità non è secolarizzazione di Stato

Alcune strane polemiche sull'attualissima riflessione del cardinale Scola
di Carlo Cardia
In un passaggio centrale del discorso di Sant’Ambrogio quest’anno dedicato anche alla celebrazione del XVII centenario dell’Editto di Milano del 313, l’Arcivescovo della Diocesi Ambrosiana ha ricordato che «imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti». Il cardinale Angelo Scola ha quindi segnalato il rischio di una laicità negativa che si afferma quando lo Stato pretende di agire sulla società civile, comprimendone le identità più profonde, strutturando istituti essenziali della vita collettiva in una visione secolarizzata che diviene egemonica, dimentica il contributo che la religione e le comunità religiose recano alla coesione, alla solidarietà, alla promozione della persona umana.
Si tratta di una riflessione di ampio respiro sui problemi della modernità interculturale, sulle tensioni che in alcuni Paesi affiorano, si radicalizzano, per una chiusura delle leggi e delle istituzioni alla dimensione antropologica e sociale della persona. Il tentativo di fare leggi e agire nel pubblico come se la religione non esistesse è propria della tradizione illuminista e francese, ma oggi diviene più gravido di conseguenze perché si rivolge contro la concezione umanistica della nascita, del matrimonio, dell’educazione, della tutela della vita, sfiora il destino stesso dell’uomo.
Gli esempi sono davanti a noi tutti i giorni. Con grande imbarazzo, in alcuni ordinamenti si vuole stravolgere il concetto di matrimonio radicato da sempre nella storia umana, negandone la base dell’eterosessualità, con il conseguente affidamento dei minori a coppie non eterosessuali, e la definitiva aberrante conclusione di cancellare i concetti di padre e di madre, per sostituirli con quelli di genitore 1 e di genitore 2, genitore A e genitore B. In Francia, addirittura, gli interventi a difesa della naturalità della famiglia e del matrimonio dei cattolici, dei protestanti e del gran rabbino di Francia sono stati criticati come 'invasivi' del campo della politica, quasi che le Chiese e chi ha una visione antropologica umanista delle relazioni elementari debbano tacere perché lo Stato li giudica 'incompetenti' a pronunciarsi su queste materie. In altri Paesi, le comunità confessionali si vedono imporre obblighi che violano la liberta religiosa in modo clamoroso, dovendo assicurare ai propri dipendenti i mezzi per interventi contraccettivi, abortivi, o dovendo dare in affidamento i bambini che accudiscono a coppie di persone dello stesso sesso.
In Italia e in Europa si profila una strategia punitiva verso le attività senza fini di lucro che la Chiese e altri soggetti svolgono nell’educazione, nell’assistenza, nella sanità, che rafforzano l’ossatura dello Stato sociale ad esclusivo vantaggio di chi ha di meno o, come gli immigrati, non ha niente di proprio su cui sperare o investire.
Basterebbero questi riferimenti per cogliere l’attualità e il valore strategico del discorso del cardinale Scola nell’affrontare un tema che interessa tutti. Si rimane perciò stupefatti di fronte ad alcuni interventi sulla stampa che ne hanno stravolto il significato quasi che contenesse un attacco alla laicità dello Stato, alla sua neutralità in ambito religioso. La riflessione sull’Editto di Costantino dice esattamente il contrario. La libertà religiosa è conquista preziosa per la società e per l’umanità, come lo è la laicità dello Stato, ma né l’una né l’altra possono essere deformate, rovesciate per farne strumenti di emarginazione. La libertà religiosa non può diventare la libertà di praticare il culto in privato e di tacere in pubblico, come la laicità dello Stato non può essere il grimaldello per abbattere la visione solidarista dei rapporti umani e interpretarli e disciplinarli in ottica egoistica e secolarizzata. Se la laicità dello Stato comporta la cancellazione dei credenti e la riduzione dei loro diritti, se implica l’emarginazione delle Chiese a mere associazioni prive di dimensione pubblica, che devono nascondere i propri simboli e alle quali si impongono obblighi di ogni genere, anche contrari alle rispettive identità, non siamo di fronte ad una Stato laico, ma ad un ordinamento che fa della secolarizzazione una ideologia di Stato, uno strumento per dare voce solo a quanti vogliono oscurare e spegnere la voce della fede, la pratica dell’altruismo, la solidarietà per i più piccoli.
Benedetto XVI ha ripetutamente insistito su questo punto: laicità non vuol dire chiusura e ostilità alla religione, ma deve significare libertà piena, accoglienza, condivisione di valori, crescita culturale e spirituale per tutti.

Avvenire» dell'8 dicembre 2012

Quali valori sono «non negoziabili»

di Francesco D'Agostino
​La categoria della "non negoziabilità" è emersa per la prima volta nel Magistero della Chiesa nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica emanata il 24 novembre del 2002 dalla Congregazione per la dottrina della fede. La Nota era firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, nella qualità di Prefetto della Congregazione e venne approvata da Papa Giovanni Paolo II. Nel paragrafo 3 della Nota si ribadisce che «non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete – e meno ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno». Se però, aggiunge la Nota, il cristiano è tenuto ad «ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali», egli è ugualmente chiamato «a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili». Nel prosieguo della Nota, e in particolare nel paragrafo 4, si procede a una esemplificazione di questi principi, dopo aver ribadito che «la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona». Le esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, nelle quali è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona, sono quelle che emergono nelle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia, quelle che concernono la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso, protetta nella sua unità e stabilità e alla quale non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza; quelle che garantiscono la libertà di educazione ai genitori per i propri figli. L’esemplificazione ovviamente non è esaustiva. La Nota infatti continua richiamando la tutela sociale dei minori e la liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù (come la droga e lo sfruttamento della prostituzione), includendo in questo elenco il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo per un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà. E infine si richiama come essenziale in questa esemplificazione il grande tema della pace. Non deve destare meraviglia il fatto che l’espressione principi non negoziabili, elaborata da Joseph Ratzinger Cardinale, sia stata da allora ripresa molte volte da Joseph Ratzinger come Papa Benedetto XVI e, naturalmente, in altri documenti del Magistero, fino al punto che tale espressione è ormai divenuta frequente ogni qual volta si discuta sulle posizioni in merito alle quali la Chiesa e i cattolici non possono e non devono transigere. È chiaro, in base ai testi che abbiamo citato, che l’ammonimento del Papa a difendere fino i fondo questi principi è rivolto in primo luogo ai cattolici che partecipano alla vita politica. Ma è lecito interrogarsi se i giuristi non debbano sentirsi anche loro destinatari di un invito così autorevole. La risposta, ovviamente, è positiva. I giuristi non solo possono, ma devono assumere i principi indicati da Benedetto XVI (la promozione del bene comune, l’impegno per la pace, la difesa della vita e della famiglia, il pieno riconoscimento della libertà di educazione) come giuridicamente non negoziabili e assimilarli a quei principi che, nel loro lessico tradizionale, costituiscono l’ossatura del diritto naturale. Ai giuristi è infatti sufficiente rilevare che, se non si assumono questi principi come non negoziabili, la costruzione di un qualsivoglia sistema giuridico diviene impossibile. Facciamo alcuni esempi. Un potere rescisso dal bene comune può pure imporsi sulla faccia della terra (e storicamente si è imposto innumerevoli volte), ma non come ordinante e pacificante (secondo quella che è la vocazione del diritto), bensì nella sua dimensione di forza bruta e cieca. Se la vita non è tutelata giuridicamente dal suo inizio fino alla sua fine naturale, l’esistenza dell’individuo cade inevitabilmente nelle mani di poteri biopolitici, governati dalla logica glaciale della funzionalità riproduttiva. Se la famiglia non viene riconosciuta come l’ordine antropologico primario, antecedente a qualsivoglia ordine politico, perché, a differenza di questo, è dotato di una naturalità non convenzionale, l’identità personale di ogni essere umano diviene evanescente e cade nella disponibilità delle forze occasionalmente prevalenti. Se si nega ai genitori la libertà di educare ai propri valori i figli per affidarla unicamente allo Stato, la formazione delle nuove generazioni verrà inevitabilmente modellata sui paradigmi impersonali della politica e non su quelli personali dell’unico luogo, cioè il contesto familiare, nel quale l’individuo può farsi riconoscere e riconoscere l’altro in una logica di comunicazione totale. Negoziare su tali principi implica mettere in discussione non opzioni individuali per il bene (cosa che è sempre, in linea di principio, lecita), ma l’esistenza stessa di un bene umano universale, al quale tutte le persone hanno il diritto di attingere. Se è diverso l’orientamento al bene umano proprio dei politici, rispetto a quello proprio dei giuristi, non può essere diverso l’impegno di testimonianza che nei confronti del bene devono assumere gli uni e gli altri. La coerenza eucaristica, che il Papa cita come ammonimento ai credenti, va tradotta e professata dai giuristi cattolici come una vera e propria coerenza antropologica o, se si vuole, di servizio limpido e infaticabile al bene dell’uomo.
«Avvenire» del 7 dicembre 2012

15 novembre 2012

Scuola, la pace è salva: si taglia l’innovazione

Conti pubblici, l’istruzione
di Raffaello Masci
L’orario non si tocca, risparmi concentrati sui fondi per la ricerca
E’ possibile che il rimedio sia peggiore del male, ma certamente salva la pace sociale. Almeno ora. Almeno prima delle elezioni. Stiamo parlando della scuola e di come la vertenza sull’aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti è stata risolta, con un arretramento del ministero che aveva proposto un innalzamento dell’orario da 18 a 24 ore, e un corrispettivo taglio - per far fronte alle economie richieste - a danno di ricerca, innovazione, nuove tecnologie. E’ del tutto evidente che il ministro Francesco Profumo non aveva in mente questo, lui che è stato rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr, ma la maggioranza ha diversamente deciso. Il ministero dell’Economia aveva chiesto a quello dell’Istruzione un piano di risparmi di almeno 600 milioni in tre anni. Il ministro aveva avanzato al proposta sull’orario degli insegnanti che, a regime, avrebbe fruttato quasi un miliardo, generando risorse da reimpiegare nella scuola. La cosa è andata come è andata ma poiché l’imperativo era quello di modifiche a saldi invariati, il ministero ha presentato un nuovo e accettato il piano di «economie». Intanto si è voluto intervenire sul fenomeno dei distacchi «non sindacali», cioè su quella massa di docenti dislocata in altri comparti della pubblica amministrazione. Il risparmio da questa voce di spesa sarà di 1.8 milioni di euro per l’anno venturo e 5,4 sia per il ‘14 che il ‘15. Per tutti e tre gli anni verranno tagliati anche 20 milioni l’anno per i piani Prin e First: si tratta di due azioni di grande rilievo per l’innovazione dell’Italia. I Prin sono i Progetti di rilevante interesse nazionale, cioè quei campi di ricerca - definiti al tempo della ministra Moratti - su cui l’Italia deve puntare per la competitività del suo sistema produttivo. I First sono i fondi di intervento per la ricerca scientifica e tecnologica: entrambi perdono in totale 60 milioni nel triennio. Poi c’è un altro acronimo caro al mondo della scuola: Mof, cioè miglioramento dell’offerta formativa. E’ un generoso capitolo di spesa ricco di quasi un miliardo l’anno, che viene però tosato di quasi 50 milioni l’anno (47,5) nel triennio. I corsi Mof sono tutti quelli attraverso cui vengono immessi nuovi insegnamenti nella scuola: educazione ambientale, stradale, alla legalità e simili. Si taglia! Per il solo 2013 è previsto il taglio di 30 milioni per il programma Smart City, che dovrebbe rendere più vivibili e tecnologiche le città e che coinvolge anche le tecnologie scolastiche. Una generosa economia riguarda anche il fondo valorizzazione della scuola e dell’università, che era stato istituito ai tempi della ministra Gelmini e consentiva di reinvestire nella scuola il 30% di tutti i risparmi imposti dalle varie manovre correttive degli ultimi anni. Nel triennio questo fondo sarà prosciugato di oltre 328 milioni. Per il solo 2015, infine la rimodulazione della spesa ordinaria consentirà delle economie di ulteriori 58 milioni (57,9). «L’Italia dovrebbe capire che si possono fare tagli su tutto, ma non sulla ricerca che è elemento essenziale su cui si basa la crescita economica, culturale e sociale di ogni Paese - è stato il commento inascoltato del presidente del Cnr, Luigi Nicolais, in relazione ai tagli sui fondi First e Prin - il problema del nostro Paese è aver perso di vista l’obiettivo primario, la crescita che non si ottiene senza investire in ricerca e formazione». Quanto ai sindacati, lamentano i tagli in quanto tali, ma la sorte dei docenti è salva e loro gongolano. «Non esiste che si possa toccare l’orario degli insegnanti che è materia contrattuale - commenta il leader della Cgil scuola Mimmo Pantaleo - ma il ripristino della legalità contrattuale non ci fa perdere di vista i tagli che comunque si sono abbattuti sulla scuola». Quanto alla coperta corta, Pantaleo ricorda che «la scuola negli ultimi anni è passata dall’11 al 9 per cento della spesa pubblica, ha subito solo tagli e se la coperta è corta va tagliata ad altre voci di bilancio».
«La Stampa» del 13 novembre 2012

07 novembre 2012

Testo dell'ultimo interrogatorio del film La Rosa Bianca (2005)

A parlare sono Robert Mohr, l'investigatore, e la protagonista, Sophie Scholl
Testo del film da 1h 02’ a 1h 07’
Robert Mohr (investigatore): «Voi tenete all'incolumità del popolo tedesco?»
Sophie Scholl (protagonista):«Sì».
- Non avete mai piazzato una bomba come Eiser nella distilleria. Avete usato gli slogan sbagliati, ma i vostri mezzi sono pacifici.
Sophie Scholl: - Allora perchè volete punirci?
- Così prevede la legge. Senza legge non c'è ordine.
Sophie Scholl: - La legge tutelava la libertà di parola prima dell'arrivo dei nazisti. Oggi Hitler punisce quella libertà con la prigione e la morte. Questo lo chiamate ordine?
- A cosa dovrei attenermi se non alla legge?
Sophie Scholl: - Alla coscienza.
- Sciocchezze! Questa è la legge e queste sono le persone. Come investigatore devo verificare se coincidono ... oppure trovare il punto marcio.
Sophie Scholl: - Le leggi cambiano, la coscienza no.
- Dove finiremmo se ognuno decidesse cos'è giusto o sbagliato? Se permettessimo ai criminali di destituire il Führer, resterebbe solo il caos. Libertà di pensiero, federalismo, democrazia... li abbiamo già visti. Sappiamo dove conducono.
Sophie Scholl: - Senza Hitler avremmo giustizia e ordine. Tutti saremmo difesi dal dispotismo, non solo gli opportunisti.
- Dispotismo, opportunisti? Usate termini offensivi.
Sophie Scholl: - Voi definite me e mio fratello "criminali" per dei volantini. Abbiamo cercato di convincere la gente con le parole.
- Voi e tutti quelli come voi abusate senza vergogna di ogni privilegio. Studiate a nostre spese in tempo di guerra. Io ero solo un sarto durante la vostra democrazia e sono diventato poliziotto grazie ai francesi dei territori occupati, non ai tedeschi democratici. Senza il nazionalsocialismo sarei solo un poliziotto di campagna. Quel vergognoso patto di Versailles, l'inflazione, la povertà ... Hitler ci ha salvato da tutto.
Sophie Scholl: - Ci ha trascinato in una guerra sanguinaria dove ogni vittima muore invano.
- La guerra è una lotta eroica. Voi ricevete gli stessi viveri degli uomini contro cui vi schierate, state anche meglio di me. Come osate criticare il nostro operato? Il Führer e il popolo tedesco vi proteggono.
Sophie Scholl: - E dove? In questo palazzo, forse? O arrestando tutta la mia famiglia?
- I nostri soldati stanno liberando l'Europa dalla plutocrazia e dal bolscevismo. Nessuno occuperà più il suolo tedesco.
Sophie Scholl: - Dopo la guerra, arriveranno le truppe straniere e gli altri Paesi diranno che non ci siamo opposti a Hitler.
- Cosa direte quando giungerà la vittoria finale? Quando arriveranno la libertà e il benessere che voi sognavate con la lega ?
Sophie Scholl: - Ormai nessuno crede più alla Germania di Hitler. Se finisse come dico io?
- Vi dichiarate protestante?
Sophie Scholl: - Sì.
- La Chiesa chiede assoluta devozione ai suoi fedeli.
Sophie Scholl: La Chiesa dà libertà di scelta, Hitler non ci lascia decidere.
- Perché, così giovane, correte simili rischi per idee che non hanno fondamento?
Sophie Scholl: - Io seguo la mia coscienza.
- Siete intelligente, perchè non condividete il nazionalsocialismo? Libertà, benessere, onore, un governo moralmente responsabile, in questo crediamo.
Sophie Scholl: - Dopo il bagno di sangue in cui avete trascinato l'Europa in nome di libertà e onore, non avete ancora aperto gli occhi. La Germania è disonorata per sempre, a meno che i giovani non fondino una nuova Europa.
- La nuova Europa è nazionalsocialista.
Sophie Scholl: - Se il Führer fosse pazzo? Pensate solo all'odio razzista. A Ulm avevo un insegnante ebreo, ma un giorno le SA Io fermarono... e lasciarono che tutti gli sputassero in faccia a turno. Scomparve quella stessa notte, come le migliaia di ebrei del '41, deportati nei campi di lavoro.
- Credete a queste sciocchezze? Gli ebrei emigrano.
Sophie Scholl: - I soldati che tornano da Est hanno visto i campi di sterminio. Hitler vuole eliminare tutti gli ebrei d'Europa, lo dice da 20 anni. Come potete credere che gli ebrei non sono diversi da noi?
- Portano soltanto problemi. Voi siete una generazione confusa e non capite. Forse la colpa è nostra, io vi avrei educato in un altro modo.
Sophie Scholl: - I nazionalsocialisti uccidevano i bambini ritardati con il gas o il veleno. Me lo hanno detto le amiche di mia madre. Le camionette prendevano i bambini negli ospedali psichiatrici. Gli altri bambini chiedevano dove andassero e le infermiere rispondevano che andavano in Paradiso. I bambini salivano sulle camionette cantando. Sono stata educata male perchè provo pena per questa gente?
- Si tratta di esseri inferiori. Voi avete studiato da infermiera e avrete visto dei bambini ritardati.
Sophie Scholl: - Si e sono convinta che nessuno possa arrogarsi il diritto di un giudizio che spetta solo a Dio. Nessuno sa cosa accade nell'anima di un ritardato, e la saggezza che può derivare dalla sofferenza. Ogni singola vita è preziosa.
- Dovete abituarvi all'idea che una nuova era è cominciata. Quanto voi sostenete è avulso da qualsiasi realtà.
Sophie Scholl: - Invece riguarda la realtà, la decenza, la morale e Dio.
- Dio! Dio non esiste. Dite la verità. Vostro fratello vi ha convinto dicendovi che era giusto ciò che stava facendo e voi lo avete solo aiutato. Dobbiamo scrivere così nel protocollo?
Sophie Scholl: - No, perchè non è vero.
- Io ho un figlio, ha un anno meno di voi. Anche lui aveva strane idee, ma ora è al fronte perchè ha capito che deve compiere il suo dovere.
Sophie Scholl: - Voi credete ancora nella vittoria finale?
- Se aveste riflettuto bene non vi sareste fatta coinvolgere in questa brutta storia. Rischiate la vita. Secondo il protocollo, vi leggo la seguente domanda. "Ammettete che le attività svolte insieme a vostro fratello possano essere considerate un crimine contro la comunità e contro i nostri soldati che combattono duramente e che meritino il massimo della pena?".
Sophie Scholl: - Dal mio punto di vista non è così.
- Ammettere il vostro errore non significa tradire vostro fratello.
Sophie Scholl: - Ma tradirei le mie idee e io non rinnego nulla. Siete voi ad avere una visione sbagliata del mondo. Sono convinta di avere agito nell'interesse del mio popolo. Non mi pento di questo e ne accetterò tutte le conseguenze.
Postato il 7 novembre 2012

La Rosa Bianca - Sophie Scholl (2005)

La Rosa Bianca - Sophie Scholl (Sophie Scholl - Die letzten Tage) è un film del 2005 diretto da Marc Rothemund.
Narra, in maniera aderente alla realtà dei fatti accaduti, la cattura, la breve prigionia, il processo e la condanna alla pena capitale subìti da Sophie Scholl e da suo fratello, oltre che da un loro amico, accusati di cospirazione contro il regime di Adolf Hitler perché facenti parte del gruppo clandestino di opposizione denominato Rosa Bianca.

Trama
Sophie Scholl è una studentessa universitaria che vive con il fratello Hans in un appartamento di Monaco di Baviera durante la seconda guerra mondiale. La disfatta di Stalingrado ha dato un brusco scossone al consenso nazista, e sono in molti ora tra la popolazione tedesca a desiderare la resa.
Sophie aderisce all'associazione studentesca La Rosa Bianca, per la quale, nottetempo, scrive sui muri frasi contro il nazismo e la guerra, insieme al fratello e altri membri dell'organizzazione. Nel tentativo di distribuire volantini all'università per diffondere le idee del gruppo, viene notata e condotta in una caserma della Gestapo assieme al fratello, dal quale viene peraltro subito separata.
In caserma Sophie viene interrogata dall'investigatore Robert Mohr che, malgrado le resistenze della ragazza, riesce a farle confessare - anche grazie ad una perquisizione nel suo appartamento - la sua appartenenza alla "Rosa Bianca", ma non i nomi degli altri membri dell'organizzazione clandestina.
Poco dopo la firma della confessione, la giovane viene condotta in tribunale, presieduto da Roland Freisler, noto giurista del Reich. Il processo si rivela una farsa. Condannati a morte, i tre vengono giustiziati con la ghigliottina lo stesso giorno, dopo un ultimo saluto ai genitori, sconvolti ma fieri dell'operato dei figli.
Wikipedia (7 novembre 2012)

Sofocle, Antigone, Le leggi umane e le leggi divine (vv. 441-525)

Brani tratti dall'Antigone
di Sofocle
Leggi umane e divine (vv. 441 - 496)

Creonte - A te mi rivolgo, a te che rivolgi la testa a terra, affermi o neghi di aver fatto queste azioni?
Antigone - Affermo di averle fatte e non lo nego.
Creonte - Tu dunque vai dove vuoi, libero da una pesante accusa; tu invece, dimmi non per le lunghe ma in breve, sapevi che era stato ordinato di non fare queste cose.
Antigone - Lo sapevo: come potevo (non saperlo)? Infatti era noto a tutti.
Creonte - Eppure hai osato oltrepassare queste leggi?
Antigone - Sì, infatti non è stato Zeus ad ordinarmele, né Dike che vive con gli dei dei morti ha sancito leggi di tal genere tra i mortali, né pensavo che i tuoi ordini avessero tanta forza che tu riuscissi, pur mortale, a superare le leggi non scritte eppure sicure degli dei. Infatti esse non vivono da oggi o da ieri, ma da sempre, e nessuno sa da quando apparvero. Io non potevo, non temendo il pensiero di nessun uomo, scontare una pena davanti agli dei per queste: sapevo infatti che sarei morta (cosa credi?), anche se tu non l’avessi decretato. Se dunque morirò prima del tempo, io dico che questo è un guadagno. Chi, infatti, vive fra molti mali come me, come fa a non ritenerlo un guadagno se muore? Così, per me avere in sorte questa fine non è per nulla un dolore: ma se avessi permesso che il mio fratello morto rimanesse cadavere insepolto, di quello mi sarei afflitta. Di questo, invece, non mi affliggo. Se poi ti sembra che io forse commetta azioni da folle, è probabile che io sia accusata di follia da un folle.
Coro - L’indole della ragazza rivela di essere l’indocile prodotto di un indocile padre: e non sa cedere ai mali.
Creonte - Ma sappi che gli animi eccessivamente duri molto spesso cadono, e potresti vedere il ferro più robusto, cotto nel fuoco per diventare saldissimo, molto facilmente fatto a pezzi e frantumato. So che i cavalli impetuosi vengono domati con un piccolo freno. Non è infatti possibile che chi è schiavo dei vicini sia arrogante. Ella sapeva di commettere un atto di tracotanza, violando le leggi in vigore. Ma se ha commesso quello, questo è il secondo atto di tracotanza, vantarsi di queste cose e ridere dopo averle commesse. Certo non sono io un uomo, è lei un uomo, se questi atti di violenza rimarranno senza punizione per lei. Ma sia pure figlia di mia sorella, sia pure più parente di tutti coloro che nella nostra casa (venerano) Zeus protettore della casa, tuttavia lei e sua sorella non sfuggiranno alla morte più tremenda. Ed infatti la accuso allo stesso modo, dunque, per aver deciso questa sepoltura. E chiamatela: io infatti l’ho vista che smaniava all’interno un momento fa, non più padrona di sé. Il pensiero di coloro che tramano qualcosa di male nell’oscurità di solito viene colto in fallo prima (di compiere il fatto). Sono preso dall’odio anche quando appunto uno, sorpreso a fare il male, vuole poi magnificare il suo gesto


Il rispetto dei morti (vv. 497 - 525 )
Antigone - Desideri forse farmi qualcosa di peggio che uccidermi, ora che mi hai presa?
Creonte - Proprio no. Se ho questo, sono soddisfatto.
Antigone - Allora cosa aspetti? Nulla mi è gradito, infatti, del tuo discorso, né mai mi potrebbe piacere. Così dunque anche le mie parole sono lontane dal piacerti. Eppure come avrei potuto acquistare fama più gloriosa che dando sepoltura a mio fratello? Tutti costoro direbbero che questa azione piace loro, se la paura non chiudesse loro la bocca. Ma la tirannide ha molti altri vantaggi, e le è possibile compiere e dire ciò che vuole.
Creonte - Solo tu fra tutti i Cadmei la pensi così. Antigone - Lo pensano anche costoro, ma per te tengono la bocca chiusa.
Creonte - Tu invece non hai rispetto, se la pensi diversamente da costoro?
Antigone - Non è una vergogna venerare i consanguinei.
Creonte - Forse non era un consanguineo anche colui che è morto davanti a lui?
Antigone - Consanguineo nato dalla stessa madre e dallo stesso padre.
Creonte - Come fai allora a rendergli un empio onore?
Antigone - Il morto non ti darà ragione su queste cose.
Creonte - E certo tu gli rendi onori alla stessa stregua dell’empio.
Antigone - Non è morto uno schiavo, ma suo fratello.
Creonte - Ma distruggendo questa terra: l’altro gli si era opposto per questa terra.
Antigone - Ugualmente Ade pretende queste leggi giuste.
Creonte - Ma il buono non deve essere pari al malvagio nel ricevere (onori).
Antigone - Chi sa se sotto terra queste disposizioni sono pure?
Creonte - Mai il nemico, neppure quando è morto, è un amico.
Antigone - Sono nata non per odiare, ma per amare.
Creonte - Allora amali, se devi amarli, dopo essere scesa nel regno dei morti: nessuna donna mi comanderà mentre sono in vita.
Postato il 7 novembre 2012

Sinossi dell'Antigone di Sofocle

Edipo si è accecato ed è stato esiliato dalla città di Tebe allorché ha appreso di aver commesso incesto e parricidio. Suo figlio più giovane, Eteocle, briga per avere il potere ed esilia il fratello maggiore Polinice. Questi attacca Tebe con un potente esercito, ma né l'uno né l'altro l'hanno vinta perché entrambi cadono in battaglia. Il nuovo re di Tebe, Creonte, dichiara che Eteocle sarà sepolto e onorato come eroe, mentre il corpo di Polinice resterà insepolto a decomporsi e preda dei cani, nel disonore. La pena per chiunque proverà a seppellirne il corpo è la morte. Apprendendo questa notizia, un' infuriata Antigone - sorella di Polinice -, nonostante il consiglio prudente dell'altra sorella, più giovane, Ismene, si ostina a pretendere che il corpo del fratello venga sepolto al fine che il suo spirito possa riposare in pace.
Antigone contravvenendo al divieto va dunque al campo di battaglia davanti a Tebe, copre di sabbia il corpo di Polinice ed effettua i riti di sepoltura. Si lascia quindi docilmente arrestare da una guardia uscita da Tebe ed insospettita dal sollevarsi della polvere. Una fiera Antigone è portata davanti a Creonte. Al cospetto del rappresentate dello Stato Antigone attesta la propria condotta. Non alle leggi scritte lei ha inteso obbedire, ma alle leggi degli dèi, alle norme non scritte e indistruttibili dettate dalla natura e dalla propria coscienza. Incredulo che una donna abbia osato disobbedire ai suoi ordini, Creonte decide l'imprigionamento sia di Antigone che di Ismene come complice, e decreta l'esecuzione d'entrambe. Subito Emone, il figlio di Creonte, supplica il padre in favore di Antigone della quale è promesso sposo. Ma Creonte, arrogante, lo deride e ignora le sue suppliche. Furente Emone si ritira stravolto, non dandosi pace che il padre abbia trattato così i suoi sentimenti.
Allora Creonte cambia idea bruscamente, decidendo l'esecuzione della sola Antigone poiché riconosce l'innocenza di Ismene. E pertanto la sorella maggiore è condotta fuori da Tebe in una caverna ad attendervi la morte. Mentre Antigone sta soffrendo questo destino atroce, l'indovino cieco Tiresia avverte Creonte che gli dèi sono molto adirati per aver egli rifiutato la sepoltura a Polinice, poiché gli stessi uccelli che mangiano la sua carne saranno successivamente usati per i sacrifici. Di conseguenza - vaticina Tiresia - il figlio di Creonte morirà per castigo. Ma, Tiresia deridendo, Creonte non ascolta questa profezia, credendo che l'indovino desideri solo spaventarlo. Tuttavia, acconsente infine a seppellire Polinice e solo dopo che il coro dei cittadini di Tebe gli ricorda che Tiresia non ha mai errato nelle profezie.
Adesso preoccupato per il figlio, Creonte lava il corpo di Polinice, effettua i riti di sepoltura e crema i resti del corpo. Va dunque a liberare Antigone dalla caverna in cui è imprigionata, ma è troppo tardi per evitare la tragedia: Antigone si è appesa ad una corda ed Emone sta ai suoi piedi in lacrime. Dopo avere provato ad assalire Creonte, Emone si trafigge e muore abbracciando il corpo di Antigone. Uomo distrutto, Creonte, ritorna al palazzo per apprendere che anche la moglie Euridice s'è tolta la vita dopo esser stata colpita dalla notizia della morte del figlio. Creonte è condotto via dai suoi cittadini, che in coro, deplorano le sue azioni, auspicando che solo la morte possa liberarlo da tanta sofferenza.
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Il nucleo del dramma sofocleo risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (phùsis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos).
«Neppure pensavo - dice Antigone a Creonte - i tuoi decreti avere tanta forza che tu uomo potessi calpestare le leggi degli dèi, quelle leggi non scritte e indistruttibili. Non soltanto da oggi né da ieri, ma da sempre esse vivono, da sempre: nessuno sa da quando sono apparse». Per parte sua Cleonte adduce la ragione del diritto positivo, della disposizione di legge, e verso il figlio venuto a perorare la causa di Antigone ha queste parole: « Ubbidire, ubbidire, e nel molto e nel poco, nel giusto e nell'ingiusto, sempre e comunque, all'uomo che sia posto al timone dello Stato. È l'anarchia il pessimo dei mali: distrugge le città e sconvolge le case, mette in fuga e fa a pezzi gli eserciti in battaglia. Ma è l'ubbidienza, l'ubbidienza ai capi la fonte di salvezza e di vittoria. Noi dobbiamo ubbidire alle leggi, alle leggi scritte». Così posta, non è men vera la preoccupazione di Creonte.
Creonte ed Antigone cercano di portare, nel loro braccio di ferro, le divinità dalla loro parte. Ciascuno dà ai suoi principî (diritto del ghenos per Antigone che esige di compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni con gli dei, contro il diritto della polis attestato da Creonte che esige che le decisioni dell'autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica) un valore assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti. Come sempre - o meglio da quando abbiamo appreso ciò dagli antichi tragici greci - le tragedie deflagrano non quando la ragione sta da una parte o dall'altra - chiara, ben definita, che possa metterci al riparo di una difficile scelta - ma quando tutti hanno ragione, la propria ragione, soggettivamente ed oggettivamente, e, come in questo caso, il diritto non riesce a cogliere due ordini morali entrambi legittimi.
Dal punto di vista strutturale Antigone è un tragedia compatta, stringata, condotta in spazi drammaturgici coesi e ristrettissimi. Il dramma si svolge in brevi e concisi dialoghi di alto contenuto drammatico (agon) Ismene-Antigone, Antigone-Creonte, Creonte-Emone, Tiresia-Creonte inframezzati da interventi del coro (stasimon). Nessuna parola è superflua nel dramma di questo principe dei drammaturghi che è Sofocle. Scienza del comportamento sociale sia pubblico che privato; virtuosità retorica; sensibilità estetica e pensosa sapienza (racchiusa in frasi dotate di una disperata poesia piena di senso ancora sotto il nostro cielo dopo il fluire di tanti evi) fanno tutt'uno. Non c'è una sola parola uscita dalla bocca degli eroi di Sofocle che non faccia vibrare qualche corda segreta della nostra anima.
Questa tragedia ha avuto vasta eco nella cultura occidentale. Molte le opere che ad essa si sono ispirate, tra le altre:
- La Tebaide di Jean Racine
- Antigone di Jean Anouilh
- Antigone di Vittorio Alfieri
Postato il 7 novembre 2012

L'italiano rischia la scomparsa su Internet

Il problema riguarda la maggior parte degli idiomi europei
di Carolina Saporiti
La percentuale di chi parla l'italiano è destinata a calare. Necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche
Investire o scomparire. È questo il futuro della lingua italiana su intenet. A dirlo è il rapporto La lingua italiana nell’era digitale, condotto dall’Istituto di linguistica computazionale del Cnr di Pisa (Ilc-Cnr). La percentuale delle pagine web in italiano a livello mondiale è raddoppiata passando dall’1,5% nel 1998 al 3,05% nel 2005 ed è stato stimato che nel 2004, in tutto il mondo, fossero 30,4 milioni le persone che parlavano italiano online.
I NUMERI - Oggi, secondo i ricercatori, la penetrazione del web in Italia si attesta al 51,7%, pari a 30 milioni di internauti su 58 milioni di cittadini (circa il 6,3% di quelli dell’Ue), registrando una crescita del 127,5% tra il 2000 e il 2010. Inoltre al di fuori dei confini dell’Unione Europea, parlano la nostra lingua 520 mila americani, 200 mila svizzeri e 100 mila australiani. Il numero di «navigatori» italiani però è rimasto stabile negli ultimi cinque anni mentre è aumentato il numero di quelli dei Paesi in via di sviluppo. In qualche anno la proporzione di coloro che parlano la nostra lingua subirà dunque una forte diminuzione.
RISCHI - Il rischio? Subire una sotto-rappresentazione, specialmente in confronto all’inglese. Il problema non riguarda solo l’Italia ma la maggior parte degli idiomi europei, specialmente quelli dei Paesi con pochi abitanti. Spiega Claudia Soria dell’Ilc-Cnr: «Il nostro Paese non è tra i peggiori e d’altra parte nessuna nazione dell’Ue ha supporti eccellenti. La situazione è però preoccupante perché le tecnologie linguistiche usate in Internet si basano su approcci statistici e quindi se i dati messi a disposizione in un idioma sono pochi, si innesta un circolo vizioso: pochi dati, tecnologie di bassa qualità, ulteriore limitazione dell’uso di quella lingua».
TECNOLOGIE - L’Italia ha a disposizione buone tecnologie, ma affinché un dispositivo possa riconoscere un idioma sono necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche. Al momento, invece, in Europa la maggior parte dei Paesi sta investendo poco o niente. L’ultimo programma di questo tipo promosso dall’Italia risale al 2000-2002. L’italiano come lingua non corre nessun rischio, ma in un futuro prossimo gli italiani potrebbero trovarsi nella situazione di dover usare due linguaggi differenti a seconda che si tratti di comunicazione quotidiana o digitale. «Se l’italiano non viene sostenuto, il suo utilizzo online rischia di atrofizzarsi, dal momento che la nostra vita si svolge sempre di più attraverso la rete», spiega Soria.
STUDIO - Lo studio, condotto dall’Istituto Cnr e dalla Fondazione Bruno Kessler, fa parte della ricerca Meta-Net a cui hanno lavorato più di 200 esperti. Il rapporto valuta il supporto delle tecnologie linguistiche per ogni lingua in quattro aree diverse: la traduzione automatica, l’interazione vocale, l’analisi del testo e la disponibilità di risorse linguistiche. Il 70% si colloca al livello più basso, con «supporto debole o assente» per almeno una delle aree considerate. L’islandese, il lituano, il lettone e il maltese ottengono questo voto per tutte le aree. All’estremo opposto si trova l’inglese, seguito da olandese, francese, tedesco, italiano e spagnolo. Lingue come basco, bulgaro, catalano, greco, ungherese e polacco si collocano nell’insieme «ad alto rischio». «Sono risultati allarmanti», conclude Hans Uszkoreit, coordinatore di Meta-Net. «La maggior parte delle lingue europee non dispone di risorse sufficienti e alcune sono quasi completamente ignorate. Molte di esse non hanno futuro».
«Corriere della sera» del 28 ottobre 2012

23 ottobre 2012

La ricca pesca di Google nel baratto digitale

Le critiche della Ue all’uso dei dati personali
di Francesco Ognibene
 
Dicono che la crisi abbia incoraggiato a rispolverare il baratto: quando mancano i soldi per la compravendita si può sempre fare appello allo scambio tra beni di valore equivalente, qualcosa di mio per qualcosa che ti appartiene. Un gesto che, peraltro, riattiva la fiducia reciproca oscurata dal ricorso esclusivo al denaro nelle relazioni personali, chiamando le parti a mettersi in gioco assai più di quanto accada con una banconota o la carta di credito.
L’importante è che la transazione avvenga all’insegna del gratuito e su un piano di sostanziale parità, soppesando i benefici attesi da entrambi.
Dove il sistema del baratto funziona a pieno regime – pressoché non visto, ma in regime di effettivo monopolio – è dentro il "sesto continente" di Internet, nel quale vige un codice elementare quanto efficacissimo: vuoi fruire gratis di uno qualunque dei servizi oramai irrinunciabili per chiunque si muova sul Web? L’affare si può concludere, ma cosa mi offri in cambio? Ormai è chiaro che i fornitori di posta elettronica, messaggistica, mappe stradali, musica e spazi video su Internet puntano dritto sul solo bene che nel Web oggi vale come moneta sonante, ed è considerato di valore sufficiente a ripagare i considerevoli servizi offerti senza chiedere alcun corrispettivo economico: l’identità degli utenti.
Niente di più facile che cliccare nelle caselle indicate in calce alla corposissima modulistica sulla privacy – provate solo a non farlo: sarete messi alla porta, ovviamente a mani vuote – per vedersi spalancare la porta già aperta da milioni di altri utenti che hanno accettato il baratto digitale tra parti rilevanti di sé e la libertà di comunicare senza limiti.
Quello che si cede infatti non sono solo le generalità ma la propria "mappabilità", la radiografia completa di gusti, interessi, opinioni, consumi, acquisti, persino degli spostamenti. Della raccolta sistematica dei dati personali, autorizzata dai diretti interessati in cambio del piatto di lenticchie di una casella postale o di qualche video amatoriale caricato su Internet, Google ha fatto una scienza per effetto della sua tumultuosa espansione da motore di ricerca a oligopolio del Web con marchi come Gmail, YouTube, Google Maps e Google News associati a servizi trasformati in standard.
L’impero fondato da Sergey Brin e Larry Page prospera grazie alla pubblicità mirata sul profilo individuale di chi usa uno qualunque dei servizi gratuiti targati Google. La fotografia di ciascun utilizzatore dev’essere precisa al punto da permettere, a fronte di ricerche uguali, risultati differenti (e differente pubblicità) a seconda di chi interroga Google: un effetto paradossale della pesca a strascico nei dati personali, che finisce per cucire attorno a ogni utente un vestito informativo su misura, come se il sapere, le notizie, le idee o i dati che emergono dagli spazi sconfinati della rete potessero assumere infiniti volti e non possedessero più una natura propria. L’effetto-Google è che ognuno trova quel che si aspetta piuttosto che la realtà, una conoscenza parziale e non uno sguardo completo. Siamo sulla soglia di un ridisegno della conoscenza ma nessuno ci ha avvertiti: sembrava tutto facile, quando ci fu chiesto di "accettare" le condizioni per il baratto identità-servizi, ma il gioco oggi si svela assai più complesso del "tutto gratis".
È probabile che i Garanti della privacy dei Paesi Ue avessero presenti anche questi aspetti di scenario quando, ieri, hanno sottoscritto una lettera per chiedere conto a Google della sua gestione sempre più opaca della mole ingentissima di informazioni personali stivata giorno dopo giorno nei forzieri informatici del quartier generale a Mountain View. La loro offensiva diplomatica ha preso di petto la questione centrale nell’era della piena maturità di Internet: la gestione delle orme che lasciamo a ogni segnale di attività lanciato tramite computer, tablet o smartphone. Non c’è sospiro che passi inosservato.
La «privacy policy» di Google – il documento che si sottoscrive prima di accedere al servizio desiderato – costituisce ormai una cambiale in bianco della quale abbiamo perso il controllo. Ma è realistico pensare che basti aggiungere qualche pagina a questo cavilloso contratto preliminare, congegnato da uno stuolo di avvocati al solo scopo di prevenire qualunque grana legale, per rendere più trasparente il rapporto in questo scambio sempre più diseguale? La verità è che quanto maggiori sono le prestazioni che esigiamo da Google tanto più acuta dev’essere la consapevolezza nell’uso di uno strumento così potente e pervasivo. Una questione di coscienza e responsabiltà. Come sempre.


«Avvenire» del 17 ottobre 2012

Cucina, a tavola con antica Roma

di Roberto I. Zanini
 
​Dell’antichità romana pensiamo di conoscere molte cose. Ne conosciamo i grandi personaggi, la lingua, la storia, l’immenso patrimonio artistico, la poesia, la letteratura. Le ricerche archeologiche e gli scritti dell’epoca ci hanno fatto conoscere le abitudini quotidiane. Delle metropoli romane possiamo immaginare i colori e i suoni. Molto poco, però, conosciamo degli odori. In particolare di quelli alimentari, che in una città come Roma aleggiavano per fori, templi, terme e vicoli dalle prime ore dell’alba fino a notte avanzata, provenienti dalle cucine della tabernae e dai banchi degli ambulanti che, racconta Marziale negli Epigrammi, «avevano sottratto la città intera», così che «le strade sembravano sentieri». Qualche decennio prima Seneca parla di bancarelle, lixae, in cui si vendono biscotti, bibite, frutta secca (i romani erano ghiotti di pistacchi, introdotti dal 37 a.C.), frutta fresca, e cibi caldi arrostiti o bolliti (come luganeghe, interiora e pollame), conditi con salse dai sapori assai difficili per i palati contemporanei. Una pittura di Pompei presenta un giovane che acquista una porzione calda di cappone da un ambulante. In un’altra celebre pittura della città vesuviana è rappresentata una rissa al di fuori dell’anfiteatro, fra le tende e i carretti dei venditori take away dell’epoca. Odori e sapori che rivivono, corredati da esaustivi riferimenti storici, oltre che da ricette autentiche, nel volume Ars culinaria (Donzelli, pagine 444, euro 24,00) della filologa Antonietta Dosi e dell’archeologa Giuseppina Pisani Sartorio. Un po’ testo di storia, un po’ libro di cucina, riesce a rendere evidente non solo come mangiavano i romani, ma soprattutto come le ricette di duemila anni fa sopravvivano tutt’oggi, con alcune modifiche, nelle nostre cucine regionali e in molte dell’Oriente, Vicino ed Estremo. Ricette antiche poste a fronte delle loro derivate moderne. Con la possibilità, che è quel che ancor più incuriosisce, di poterle sperimentare nelle due maniere, scoprendo che la fricassea ha almeno due millenni e che il foie gras, con relativo paté, non lo hanno inventato i francesi, ma i romani, che nella versione più sofisticata lo chiamavano ficatum, perché tratto da oche ingrassate con fichi. Naturalmente necessari alcuni adattamenti. Sia per l’introvabilità di certi ingredienti, soprattutto erbe selvatiche, spezie e aromi, che i romani utilizzavano in gran numero, facendoli venire da ogni angolo del mondo; sia per l’onnipresente prescrizione del garum, nella cottura o nel condimento finale. Una salsa a base di interiora di pesce crudo, salato e speziato, che spesso doveva risultare mefitica, anche se ne esisteva una versione per commensali ricchi e raffinati, che veniva realizzata in maniera non troppo dissimile dall’attuale salagione delle acciughe. Qualcosa che somiglia al garum si trova in alcune conserve di piccoli pesci, tipiche delle popolazioni dei delta dell’Estremo Oriente, come quello del Mekong, ma anche nella più raffinata e appetitosa "sardella" calabrese, sebbene ricca di peperoncino, pianta che i romani non potevano certamente conoscere.
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno spaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto.
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo "immolare", relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine "alimentare" di cospargere la "vittima" di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato "troia", (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse. Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.

I pesci, il garum di Marziale e le sei salse di Apicio
I pesci e i crostacei piacevano talmente che i ricchi realizzavano nelle loro villae delle piscine per allevarli. Ateneo racconta che Apicio ne era così ghiotto da attrezzare una nave per andare a pescare gamberi e scampi sulle coste libiche, salvo poi scoprire che erano del tutto uguali a quelli tirrenici. Già nel primo secolo a.C. i romani allevavano sia ostriche che mitili. Le murene erano considerate una prelibatezza (Apicio indica ben sei salse diverse per condirle) e, stando a Plinio, il loro allevamento fece la fortuna di molti commercianti. Tale Gaio Irrio ne aveva un allevamento immenso tanto da poterne vendere semilia in una sola volta per i festeggiamenti dei trionfi di Cesare. Alla morte di Lucullo, i pesci dei suoi allevamenti vennero venduti per l’enorme cifra di quarantamila assi. Moltissime le ricette per cucinarli. Alcune in tutto simili alle attuali, come questo ius in pisce elixo (pesce alla creta con salsa) di Apicio, che sembra una variante del nostro pesce al sale: «Metti in un mortaio sale e semi di coriandolo, pestali bene e avvolgi il pesce ben pulito, poi disponilo in un tegame, sotto un coperchio bene ingessato e cuocilo al forno. Levalo, spruzzalo con aceto fortissimo e servilo». Esistevano anche numerose industrie di conservazione, soprattutto in Sicilia, per tonno, sgombri, sardine. Il garum migliore, invece, veniva da una manifattura di Cartagena. Per capire cosa fosse questo condimento che è alla base dell’intera cucina romana ecco la ricetta proposta da Gargilio Marziale nelle Geoponiche: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine. Si prendano erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, serpillo. Di queste erbe si disponga un primo strato nel fondo di un grande vaso. Si faccia quindi uno strato di pesci interi o a pezzi, se sono grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda e si lasci macerare per sette giorni. Poi per venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola».

Le carni e per i grandi ricevimenti struzzi, bagnet e fricassea
Si mangiava carne di ogni tipo. Ovine, caprine, di volatili come i tacchini (a smentire la credenza che vengano dalle Americhe), i polli e persino struzzi. Il cane era una prelibatezza: Festo (Breviarium rerum gestarum populi romani) racconta che nel II d.C. i "cuccioli alla mammella" figuravano nei pranzi più importanti e in quelli in onore agli dei. Il maiale era il cibo di tutti. I bovini, usati quasi esclusivamente per i tiri agricoli, vennero introdotti nell’alimentazione comune avanti nei secoli, per una sorta di sacro rispetto per il lavoro dei campi. Venivano cotte con salse ricchissime di aromi, con aggiunte di formaggio e spesso rifinite con le uova, alla maniera della fricassea. Ed è frequente imbattersi in ricette assai simili a quelle contemporanee. Catone, per esempio, riporta un intingolo dicendo serva per «liberare il ventre», ma che depurato dalle erbe lassative e dall’onnipresente pesce sembra l’antesignano di pietanze come la cassoeula lombarda: «Prendi una marmitta, versaci sei sestarii di acqua, uno zampetto di maiale, un pezzo di prosciutto, due cime di cavolo, due gambi di bieta con la radice, un germoglio di felce, un po’ di erba mercuriale, due libbre di mitili, un cefalo, un pesce scorpione, sei lumache di mare, un pugno di lenticchie. Fa cuocere finché il brodo si riduce a un terzo». E il bollito misto alla maniera piemontese sembra provenire dalla descrizione fatta da Ateneo di quel che si preparava ad Alessandria d’Egitto nei lephtopolia (botteghe del bollito), con «piedini, testa, orecchie, mascella, trippe e lingua». Espertissimo di condimenti il solito Apicio accompagnava i suoi bolliti (di singole carni) con salse fatte di pepe, levistico, menta, aceto, garum, laser, cumino, olio e miele, che ricordano il classico bagnet verde piemontese fatto con prezzemolo, aceto, olio, acciuga salata (in luogo del garum), aglio (al posto dell’introvabile laser), pepe. Nella stessa bagna cauda trionfano i sapori delle acciughe salate e dell’aglio.


 
«Avvenire» del 22 ottobre 2012