24 dicembre 2011

Niente ci è estraneo

Tramite quel Bambino
di Alessandro D'Avenia
La bellezza è sempre stato affare da Greci. Un canone perfetto in cui la proporzione e l’armonia delle parti, il peso e il contrappe­so sono perfettamente bilanciati, l’occhio ri­posa perché trova l’ordine per cui è stato fat­to. Ecco, questa bellezza non c’entra con un bambino. Lui è come tutti gli altri bambini: ar­monia e proporzione chissà, forse verranno. Per ora è solo piccolo, ha pochi capelli, fa la cacca, rigurgita e piange.
La bellezza non è af­fare da gente nata nei paesini della Palestina. La bellezza è affare di scultori capaci di tra­sformare persino il vento in pietra, di pittori che sanno i colori di ciò che non si vede. La bel­lezza è artificio e perfezione. Non ha odore. Non è certo affare da falegnami e casalinghe, la bellezza. Non ha niente a che vedere con la vita quotidiana, la bellezza. Con i pannolini, le pappe, i pianti, le veglie e qualche sorriso non si sa ancora bene lanciato a chi.
La bellezza è affare degli dei: loro sì che man­giano nettare e ambrosia, non si feriscono mai, fanno quello che vogliono. Sono bellissimi e fortissimi. Hanno braccia bianche, le dee, e riccioli belli. Scuotono i cieli, gli dei, e li attra­versano in un soffio. Altro che carne pesante. Non è certo affare di bambini la bellezza. Gli dei non sono mai stati bambini deboli e tan­to normali da sembrare bambini qualsiasi di una coppia di poveracci, con lei incinta non si sa bene di chi. La bellezza è affare da eroi, da kaloikaiagathoi, tanto belli quanto perfet­ti: gente invincibile, non fosse per il tallone, ca­pace di ogni fatica, dal piè veloce e dalle men­te poliedrica. Sono nati maturi questi, non so­no mai stati bambini, quasi se ne vergogna­no. E se sono stati bambini erano dei prodigi che appena nati già stritolavano serpenti.
La bellezza non riguarda i bambini ignoti di una periferia riottosa e cavillosa dell’Impero. Non riguarda bambini che devono imparare a gattonare, camminare, leggere e usare le buone maniere. Forse li sfiora la bellezza, per­ché ogni bambino è a suo modo bello, so­prattutto quando sorride o stringe la mano at­torno a un dito, ma quella non è una bellezza imperitura. Quella è la vita quotidiana e non c’entra molto con la bellezza. La bellezza è affare straordinario, non c’entra niente con la noia quotidiana di una famiglia qualsiasi, dopo una settimana dalla nascita del pupo. Finiti i festeggiamenti cominciano le occhiaie. No, non c’è bellezza nella vita quo­tidiana, lì tutto è uguale, monotono. Ogni tan­to, sì, balugina uno squarcio di bellezza ma, come sempre è stato e sarà, è strappata al ca­so, passeggera e per questo impregnata della malinconia di ciò che non è stabile, che non è mai tutto qui, adesso, per me. Nella vita quotidiana tutto invece finisce col rovinarsi, col rompersi, col non durare in­somma. Per questo ci vuole quella bellezza da Greci, sinonimo di un per sempre perfetto e luminoso.
Solo l’amore è un po’ così. Se non ci fosse quel­lo non mi alzerei la mattina. L’amore per un libro, un paesaggio, un amico, una donna, u­na madre. È l’unica cosa quotidiana che non finisca con l’annoiarmi. Ma anche quello spes­so si rompe e 'che fatica rimetterlo a posto!'. Quando la trovo, quella bellezza, mi ci ag­grappo come la cozza allo scoglio e la piovra alla sua preda, perché non scappi troppo pre­sto, per lasciare solo un ricordo dolce-amaro. Ma quel Bambino? È l’amore in persona? L’a­more fatto persona? L’amore fatto limite e quo­tidianità? Non può essere. Se fosse vero, un’al­tra bellezza sarebbe entrata nel mondo, nel silenzio, quasi senz’arte. Tutto diverrebbe im­provvisamente bello: i pannolini, le pappe, le veglie, i sorrisi e le lacrime. Tutto diverrebbe improvvisamente divino, perché non c’è nien­te di umano che quel bambino non debba fa­re: è un uomo e non c’è niente di umano che gli sia estraneo.
Questa è la notizia. Se è così, c’è per me una bellezza che non si rovina, che non si rompe, che non c’entra con il nettare e l’ambrosia, con la proporzione e l’armonia, ma c’entra con la vita quotidiana, con il sudore, i capelli, la pelle, le mani screpolate, la fatica, lo sco­raggiamento, la tristezza, la paura, il fallimento, il sangue, il freddo e il sonno. Una bel­lezza senza perfezione. Una bellezza che c’en­tra con tutto, perché tutto ha attraversato. U­na bellezza fecondata da limiti e sproporzio­ni, per partorire ciò che non passa. Io questa bellezza cerco. Questa bellezza nasce per me. In una stalla.
«Avvenire» del 23 dicembre 2011

Nel «sottosuolo» con Italo Svevo

di Alessandro Zaccuri
​«Mi senti, Ettore Schmitz? Hai idea del fardello che ci hai lasciato? Potevamo restare beati nell’ordine piccolo borghese di realtà strutturate, ordinate, salutari. E invece». E invece l’industriale Ettore Schmitz ha scelto di diventare lo scrittore Italo Svevo ed è per questo che Pietro Spirito, al termine del recentissimo Trieste è un’altra (Mauro Pagliai Editore) si spinge fino al cimitero di Sant’Anna, nel tentativo di regolare i conti con l’autore di Senilità e La coscienza di Zeno.
Impresa difficile, ma con la quale è bene cimentarsi in questi giorni, che precedono il 150mo anniversario della nascita del grande narratore triestino (19 dicembre 1861: morì a Motta di Livenza il 13 settembre 1928). «Un anniversario che coincide con quello dell’Unità d’Italia», sottolinea il critico Elio Gioanola, autore tra l’altro di un’appassionata Svevo’s Story apparsa un paio di anni fa da Jaca Book. «È una circostanza suggestiva – prosegue lo studioso –, perché ci ricorda come il fatto di scrivere in italiano sia il risultato di una scelta deliberata da parte di un autore che avrebbe potuto benissimo esprimersi in tedesco. Nonostante, questo, la sua rimane una figura profondamente radicata nella cultura mitteleuropea, come dimostra la presenza della psicoanalisi all’interno del suo capolavoro.
Nella Coscienza di Zeno, infatti, l’iniziale scetticismo del protagonista nei confronti del “dottore”, trattato spesso con ironia e distacco, va di pari passo con l’impossibilità di fare a meno della strumentazione psicoanalitica, che permette a Svevo di dare ulteriore profondità al suo antieroe. Non è più il personaggio caro alla tradizione classica, obbediente ai princìpi che si è imposto e ai quali rimane fedele, ma un tipo d’uomo simile alle creature del “sottosuolo” indagate da Dostoevskij: a guidarlo è una forza misteriosa ed estranea, che gli impedisce sempre di mandare a segno il colpo.
Gli errori che ne derivano possono risultare fruttuosi, ma questo non scalfisce in nulla il sostanziale pessimismo di Svevo, che trova espressione nella celebre conflagrazione planetaria con cui si chiude La coscienza di Zeno. La stessa intelligenza si ritorce contro l’uomo, gli impedisce di essere felice, lo porta a desiderare la distruzione. Si tratta della rappresentazione più drastica del “male di vivere” cantato da Montale, che non a caso fu uno dei primi e più attenti lettori di Svevo». Un malessere che esclude la spiritualità? «Svevo – risponde Gioanola – appartiene a quel genere di autore novecentesco per cui la letteratura ha sostituito la fede perduta come occasione di apertura verso un “oltre” che però non si connota mai in senso pienamente religioso».
Le origini ebraiche di Svevo/Schmitz sono sottolineate con vigore dallo scrittore Giorgio Pressburger, ungherese di nascita e triestino d’elezione: «Grazie a lui – spiega – fa il suo ingresso nella letteratura italiana questa specifica sfumatura spirituale che ritroveremo, per esempio, in Primo Levi.
E non dimentichiamo che proprio attraverso il legame con Svevo, di cui fu docente di inglese a Trieste, Joyce fornì un’interiorità ebraica al protagonista del suo Ulisse, Leopold Bloom. Anche in questo Svevo si conferma un maestro nell’arte dell’intreccio, sempre desideroso di trovare un punto di equilibrio fra mondi altrimenti inconciliabili, come il Mediterraneo e l’Europa centrale, che proprio a Trieste vengono a incontrarsi in senso culturale e perfino architettonico. «Sarà un caso, ma Svevo è stato uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto quando, nel 1956, ho lasciato l’Ungheria.
Avevo già studiato italiano e conoscevo qualche scrittore, ma il suo nome mi era del tutto sconosciuto. È stato un incontro folgorante, che continua a segnarmi anche oggi. Mi colpisce la sua lingua, così spoglia e a tratti addirittura scorretta. E trovo affascinante la sua visione del mondo che, anche senza attingere al pessimismo di Kafka, è testimonianza di un “non-ottimismo” molto problematico sul piano religioso. In Svevo, infatti, la grande assente non è la fede, ma la Provvidenza».
Si spinge più in là il direttore di «Civiltà cattolica», padre Antonio Spadaro: «Svevo rimane un grandissimo scrittore, sia chiaro – premette –, ma questa grandezza costituisce il suo limite. Ogni volta che lo rileggo, non trovo nelle sue pagine la gloria della realtà, che apre alla conoscenza del mondo e rende possibile la condivisione fra autore e lettore.
Al contrario, Svevo tende a portare in primo piano la propria dimensione psicologica, trasformandola in un filtro che diventa a sua volta ossessione. In questo, mi pare che la sua opera inauguri e porti precocemente a compimento la tendenza novecentesca a sostituire la tensione spirituale con l’indagine psicologica.
Non si tratta di un’operazione innocente, perché in questo modo il mistero si riduce a qualcosa di freddamente analizzabile e la stessa dimensione spirituale finisce sul tavolo dell’anatomopatologo: la coscienza diventa nevrosi, l’interiorità viene assimilata a una malattia. Con i suoi romanzi Svevo mette in atto un rovesciamento radicale dell’introspezione avviata da Agostino nelle Confessioni, un libro in cui, al contrario, penetrare nel segreto di sé rappresenta la condizione necessaria per esplorare il mistero del mondo. Nella Coscienza di Zeno questo non avviene, perché vienen meno l’alleanza fra letteratura e realtà. E questo, almeno per me, è un problema serio».
«Avvenire» del 17 dicembre 2011

12 dicembre 2011

Bagnasco: l'Ici? Legge giusta basta confusione

Imposte e regole
di Umberto Folena
Il vento della polemica pretestuosa sulla Chiesa e l’Ici, che già paga ma secondo alcuni non pagherebbe, soffia fino a Bruxelles: «Posso dire – dichiarava Mario Monti durante la conferenza stampa al termine del Consiglio Ue – che in questi 17 giorni non abbiamo preso nessuna decisione e mi fermo qui. Sono anche a conoscenza di una procedura Ue sugli aiuti di Stato». Il vento gira, fa dietrofront e cala su Genova, dove il cardinale Angelo Bagnasco partecipava a un convegno dell’Ucid. Il presidente della Cei giudica ragionevole la normativa vigente, «riproposta in pagine documentate e dettagliate da Avvenire, cosa importante perché c’è un po’ di disinformazione», normativa che «riconosce il valore sociale delle attività svolte da una pluralità di enti non profit». Garantisce, ancora una volta, trasparenza: «Se vi sono casi concreti, nei quali un tributo dovuto non è stato pagato, l’abuso sia accertato e abbia fine». In quest’ottica, conclude Bagnasco, «non vi sono da parte nostra preclusioni pregiudiziali circa eventuali approfondimenti volti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti non profit, oggetto dell’attuale esenzione».
Citava anche «il giornale cattolico» e i dati normativi e di fatto che su queste pagine abbiamo via via citato, il cardinale. Eppure anche ieri il mondo della politica era un coro stonato di voci reclamanti una legge che c’è già, affinché la Chiesa pagasse... quanto già paga. In ordine sparso: Ignazio Marino, senatore Pd: «Penso che la Chiesa proporrà autonomamente di pagare una tassa sulle attività commerciali, mentre tutti i patrimoni immobiliari destinati all’assistenza e a scopi umanitari dovrebbero essere protetti dalla tassazione». Proporre qualcosa che già esiste? Possibile che Marino ignori la legge 504 del 30 dicembre 1992? Possibilissimo. La ignora, sull’altro versante politico, pure Gabriella Giammanco, deputata Pdl: «Propongo che solo e soltanto gli edifici che hanno finalità commerciali siano sottoposti a tassazione», in altri termini lasciamo tutto come sta. Il collega Domenico Gramazio, anch’egli del Pdl, si dimostra altrettanto disinformato: «Ci sono edifici che non svolgono assistenza, cura o sostegno ai socialmente svantaggiati e ai diversamente abili, ma sono dati in locazione per altre attività. Questi ultimi devono pagare».
Riccardo Nencini, segretario nazionale del Psi, ha addirittura impugnato carta e penna e scritto al segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone: «Gli ho chiesto che la Chiesa stessa sia disponibile a rinunciare a una condizione di privilegio che non ci possiamo più permettere». E pensare che, a Roma, Propaganda Fide e Apsa, con le loro proprietà, sono al secondo e al terzo posto tra i contribuenti, stando ai documenti dell’Agenzia delle entrate inviati dall’Italia alla Corte europea. Ma a che cosa potrebbe servire? Ieri, per il Psi, scendeva in campo pure Bobo Craxi: «Lo Stato pontificio faccia un gesto volontario che rechi una chiara predisposizione a contribuire, in misura significativa, alla riduzione del debito italiano».
Non mancano, per fortuna, i commenti informati e ragionevoli. Mario Lupi, vicepresidente Pdl alla Camera, avverte: nessun privilegio, «è giusto che determinate attività siano esenti. E che le violazioni, se ci sono, siano punite». Francesco Giro, deputato Pdl, dimostra di essere al corrente dei fatti: «La Chiesa le sue tasse le paga tutte, secondo le norme vigenti. Questa polemica le sta producendo un danno incalcolabile all’immagine». Analogo l’intervento di Antonio De Poli, portavoce dell’Udc: «Sarebbe da irresponsabili introdurre l’imposta sui luoghi di culto. Le diocesi pagano già per gli immobili in cui si svolgono attività commerciali». Ieri si facevano autorevolmente sentire anche il Sir («Sul piano tecnico le cose sono chiare: la Chiesa cattolica paga quello che c’è da pagare, paga quello che è previsto, come tutti, e non gode di nessun privilegio»), auspicando un «segnale» significativo in occasione dei 50 anni dal Concilio; e l’Aiart, tramite il suo presidente Luca Borgomeo («Nella vicenda dei presunti privilegi fiscali della Chiesa c’è uno squilibrio informativo»). Cliccatissimo, sul web, il blog di Sandro Magister, che denuncia la disinformazione (conclusione: «Le esenzioni Ici previste dalla legge non sono denari in perdita. Sono risorse che ritornano moltiplicate allo Stato e alla società»). Paradosso vuole che lo abbia fatto sul sito del gruppo più impegnato nella disinformazione stessa.
«Avvenire» del 10 dicembre 2011

Ici, ma quale «zona grigia»... Ecco cosa dice davvero la legge

Imposte e regole
di Patrizia Clementi
Ancora una volta il tema dell’esenzione Ici prevista per gli immobili di tutti gli enti non commerciali, compresi quelli appartenenti alla Chiesa cattolica quando utilizzati per lo svolgimento di attività di rilevante valore sociale, torna ad essere al centro dell’attenzione provocando un dibattito che spesso pretestuosamente trascura il dato normativo. Cerchiamo perciò di riproporre gli elementi oggettivi dai quali non si può prescindere per una serena e corretta valutazione della questione oggetto di tanto interesse (e purtroppo di almeno altrettante polemiche). La norma contestata (che è solo una tra le nove differenti ipotesi di esenzione dall’Ici contemplate dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 e sostanzialmente confermate ai fini Imu, l’imposta destinata a sostituire l’Ici dal 2014, ma la cui entrata in vigore è stata anticipata al 2012 dal Decreto Monti) è quella che esenta gli immobili nei quali gli enti non commerciali svolgono alcune specifiche e definite attività di rilevante valore sociale, cioè quelli «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a) della legge 20 maggio 1985. n. 222 [le attività di religione o di culto]» (art. 7, c. 1, lett. i, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504). Perché un’unità immobiliare sia esente, quindi, occorre che si verifichino contestualmente due condizioni: l’unità immobiliare deve essere utilizzate da enti non commerciali e deve essere destinata totalmente all’esercizio esclusivo di una o più tra le attività individuate; inoltre, come stabilito dopo le modifiche apportate al testo originario, l’esenzione «si intende applicabile alle attività [...] che non abbiano esclusivamente natura commerciale». (cfr. c. 2-bis dell’art. 7 del D.L.. n. 203/2005, come riformulato dall’art. 39 del D.L. 223/2006). Quest’ultima condizione è da valutare sulla base della Circolare n. 2 del 2009 con la quale il Ministero delle finanze stabilisce come devono essere svolte le attività perché possa affermarsi che esse «non abbiano esclusivamente natura commerciale».
Questo l’insieme delle disposizioni che regolano l’esenzione. Il loro esame consente di collocare correttamente l’agevolazione e di illuminare le presunte "zone grigie".
Facciamo qualche esempio, scegliendoli tra quelli più "gettonati" negli ultimi interventi mediatici.
Non è vero che le unità immobiliari che gli enti non utilizzano e che affittano ad altri soggetti (abitazioni, uffici, negozi…) sono esenti. Pagano l’Ici (e pagheranno l’Imu) semplicemente perché questa previsione di esenzione non esiste.
Per lo stesso motivo non vi è dubbio che non sono esenti le unità immobiliari nelle quali gli enti svolgono alcune attività non comprese tra quelle stabilite dalla legge (i casi sempre citati sono le librerie, i negozi di oggetti sacri, i ristoranti, i bar): l’esenzione non esiste, l’imposta si paga.
Non è vero che basta inserire un’attività non commerciale in un immobile in cui si svolgono attività che non godono del regime di favore per sottrarre all’imposizione tutto l’immobile (il caso di solito citato è quello di un luogo di culto, che sarebbe esente, all’interno di un albergo, che invece non è esente); la legge infatti richiede che ciascuna unità immobiliare sia utilizzata per intero per l’attività agevolata, altrimenti tutto l’immobile perde l’esenzione, compreso il luogo di culto. Non è vero, inoltre, che non è possibile discriminare se un’attività che rientra tra quelle previste dalla norma di esenzione sia effettivamente svolta in maniera non esclusivamente commerciale e quindi usufruisca legittimamente dell’esenzione. Ad esempio, utilizzando la Circolare per quanto riguarda le attività assistenziali si può precisare che fra queste rientrano solo quelle riconducibili ai servizi sociali e che vi sono comprese sia quelle prestazioni rese gratuitamente o con compenso simbolico, sia quelle svolte in convenzione con l’ente pubblico, a condizione che le rette previste siano quelle fissate dalla convenzione; ciò, afferma la Circolare, serve a garantire che le attività siano svolte «con modalità non esclusivamente commerciali (…) assicurando che tali prestazioni non sono orientate alla realizzazione di profitti». Oppure, con riferimento alle attività culturali, la Circolare stabilisce che vi rientrano i teatri, ma limitatamente a quelli «che si avvalgono solo di compagnie non professionali».
Gli esempi potrebbero continuare e la lettura della Circolare, che consigliamo a chiunque voglia comprendere di cosa si discute, è quanto mai utile per capire che la modalità richiesta, non esclusivamente commerciale, garantisce che le unità immobiliari favorite dall’esenzione vengano effettivamente utilizzate per rendere servizi di rilevante valore sociale da parte di enti che non hanno fine di lucro e che pertanto il vantaggio ricade sui loro "utenti".
«Avvenire» dell'11 dicembre 2011

Chi è esentato dal pagamento dell'ICI?

La circolare del 26 gennaio 2009, n.2 /DF del Ministero delle Finanze (Direzione Federalismo fiscale)
Imposta comunale sugli immobili (ICI). Art. 7, comma 1, lettera i), del D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Esenzioni. Quesiti.

Pervengono alla scrivente numerosi quesiti in ordine all'applicazione dell'esenzione in materia di imposta comunale sugli immobili (ICI), prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.L.gs. 30 dicembre 1992, n. 504, sulla quale si forniscono le seguenti precisazioni.


1. IL QUADRO NORMATIVO.
L'art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504 del 1992, riconosce l'esenzione dall'ICI a "gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'art. 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'art. 16, lettera a), della l. 20 maggio 1985, n. 222".
Occorre, inoltre, precisare che, a norma del comma 2 dell'art. 7 in questione l'esenzione "spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte".
Il quadro normativo di riferimento deve essere completato con il comma 2-bis dell'art. 7 del d.l. n. 203 del 2005 - come riformulato dall'art. 39 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 - in base al quale "l'esenzione disposta dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale".
Si rende, pertanto, necessario precisare in modo puntuale quando le attività indicate dalla norma di esenzione siano svolte in maniera non esclusivamente commerciale e, conseguentemente, le ipotesi nelle quali gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali possano considerarsi esenti da ICI.


2. I REQUISITI RICHIESTI PER IL RICONOSCIMENTO DELL'ESENZIONE.

La suddetta esenzione deve essere riconosciuta quando ricorrono contemporaneamente:

- un requisito di carattere soggettivo, rappresentato dal fatto che l'immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale di cui all'art. 73 (ex art. 87), comma 1, lettera c) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante il Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR);
- un requisito di carattere oggettivo, in base al quale gli immobili utilizzati devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente elencate dalla norma e dette attività non devono avere esclusivamente natura commerciale.


3. IL REQUISITO SOGGETTIVO.
Per quanto riguarda il requisito soggettivo, occorre precisare che l'art. 73, comma 1, lettera c), del TUIR, fornisce la nozione di enti non commerciali, individuandoli negli "enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali".
La norma in esame prevede, dunque, che nell'ambito degli enti non commerciali possono essere compresi:

gli enti pubblici, vale a dire gli organi e le amministrazioni dello Stato; gli enti territoriali (comuni, consorzi tra enti locali, comunità montane, province, regioni, associazioni e enti gestori del demanio collettivo, camere di commercio); le aziende sanitarie e gli enti pubblici istituiti esclusivamente per lo svolgimento di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie; gli enti pubblici non economici; gli istituti previdenziali e assistenziali; le Università ed enti di ricerca; le aziende pubbliche di servizi alla persona (ex IPAB);

gli enti privati, cioè gli enti disciplinati dal codice civile (associazioni, fondazioni e comitati) e gli enti disciplinati da specifiche leggi di settore, come, ad esempio: le organizzazioni di volontariato (legge 11 agosto 1991, n. 266); le organizzazioni non governative (legge 26 febbraio 1987, n. 49, art. 5); le associazioni di promozione sociale (legge 7 dicembre 2000, n. 383); le associazioni sportive dilettantistiche (art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289); le fondazioni risultanti dalla trasformazione degli enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate (D.Lgs. 23 aprile 1998, n. 134); le ex IPAB privatizzate (a seguito, da ultimo, dal D.Lgs. 4 maggio 2001, n. 207); gli enti che acquisiscono la qualifica fiscale di Onlus (D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460). Occorre precisare che nell'ambito degli enti privati non commerciali vanno ricompresi anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti secondo le previsioni dell'Accordo modificativo del Concordato Lateranense (legge 25 marzo 1985, n. 121 per la Chiesa cattolica) e delle intese tra lo Stato italiano e le altre confessioni religiose (ad esempio: legge 11 agosto 1984, n. 449, per la Tavola valdese; legge 22 novembre 1988, n. 516, per l'Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del 7° giorno; legge 22 novembre 1988, n. 517, per le Assemblee di Dio in Italia - ADI; legge 8 marzo 1989, n. 101, per le Comunità ebraiche italiane; legge 12 aprile 1995, n. 116, per l'Unione cristiana evangelica battista d'Italia - UCEBI; legge 29 novembre 1995, n. 52 per la Chiesa evangelica luterana d'Italia-CELI).


4. L'UTILIZZAZIONE DELL'IMMOBILE.

L'art. 7, comma 1, lettera i), del D. Lgs. n. 504 del 1992, come già illustrato, riconosce l'esenzione agli immobili "utilizzati" dagli enti non commerciali.
E' necessario rammentare che l'art. 59, comma 1, lett. c), del D. Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, riconosce ai comuni la possibilità di stabilire con regolamento che l'esenzione in questione "si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall'ente non commerciale utilizzatore".
Al riguardo la Corte Costituzionale con le ordinanze n. 429 del 19 dicembre 2006 e n. 19 del 26 gennaio 2007, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 59, comma 1, lettera c), del D. Lgs. n. 446 del 1997 per violazione degli artt. 3, 23, 53, 76 e 77 della Costituzione, ha affermato che detta norma non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dall'art. 7, comma 1, lettera i), del D. Lgs. n. 504 del 1992, in quanto l'esenzione deve essere riconosciuta solo all'ente non commerciale che, oltre a possedere l'immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate.
L'art. 59, comma 1, lettera c), pertanto, ha il solo scopo di attribuire ai comuni, in deroga a quanto previsto all'art. 7, comma 1, lettera i), del D. Lgs. n. 504 del 1992, la facoltà di stabilire unicamente che l'esenzione in questione si applichi soltanto ai fabbricati, escludendo dall'agevolazione le aree fabbricabili ed i terreni agricoli.



5. IL REQUISITO OGGETTIVO.
Affinché venga rispettato il requisito oggettivo richiesto dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D. Lgs. n. 504 del 1992, occorre che gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali devono essere in concreto destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività:

•assistenziali;
•previdenziali;
•sanitarie;
•didattiche;
•ricettive;
•culturali;
•ricreative;
•sportive;
•indicate dall'art. 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222, vale a dire le attività di religione e di culto, che sono "quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi a scopi missionari alla catechesi, all'educazione cristiana".
Bisogna innanzitutto sottolineare che ai fini del riconoscimento dell'esenzione la Corte di Cassazione in varie sentenze (Cfr.: sentenze n. 10092 del 13 maggio 2005, n. 10646 del 20 maggio 2005) ha affermato che non rileva l'attività indicata nello statuto dell'ente, anche se rientrante tra quelle agevolate, ma l'attività effettivamente svolta negli immobili. Infatti, la lettera della norma implica che l'esenzione può essere riconosciuta solo se correlata all'esercizio, effettivo e concreto, nell'immobile di una delle attività indicate nella norma agevolativa.
Peraltro, è opportuno aggiungere che la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5485 del 29 febbraio 2008, ribadendo quanto già affermato nelle sentenze n. 20776 del 26 ottobre 2005 e n. 23703 del 15 novembre 2007, ha sostenuto che "la sussistenza del requisito oggettivo - che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare - non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l'immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un'attività commerciale".
Occorre, inoltre, verificare che ogni immobile sia utilizzato totalmente per lo svolgimento delle particolari attività richiamate dalla norma di esenzione. Ciò comporta che l'esenzione non può essere riconosciuta nei casi in cui l'immobile sia destinato, oltre che ad una delle attività agevolate, anche ad altri usi (Cfr. fra tutte: Corte di Cassazione sentenze n. 5747 del 16 marzo 2005 e n. 10092 del 13 maggio 2005).
La norma di esenzione, infatti, è di stretta interpretazione, per cui, secondo la Suprema Corte, non può essere applicata al di fuori delle ipotesi tipiche e tassative in essa indicate. Pertanto, laddove "sia risultato accertato in fatto che, benché la destinazione sociale dell'ente soggettivamente esente, rientri nel paradigma della norma agevolativa, ma in concreto si associ ad essa attività diversa, non contemplata, l'esenzione non può essere riconosciuta, stante il divieto non solo di applicazione analogica, ma anche d'interpretazione estensiva, posto in riferimento alla legge speciale dall'art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile" (Corte di Cassazione sentenza n. 10646 del 2005).
In tal senso si era già espresso il Consiglio di Stato il quale, nel parere n. 266 del 18 giugno 1996, aveva sostenuto che "ove si tratti ... di un intero immobile destinato solo in parte, seppure prevalente, alle finalità favorite dalla legge, il carattere restrittivo della ripetuta norma che richiede l'"esclusività" della destinazione, impedisce comunque l'attribuzione della agevolazione fiscale".
Occorre a questo punto soffermarsi sulla disposizione del comma 2-bis dell'art. 7 del d.l. n. 203 del 2005, in base alla quale l'esenzione "si intende applicabile alle attività... che non abbiano esclusivamente natura commerciale".
E' necessario innanzitutto sottolineare che un'attività o è commerciale, o non lo è, non essendo possibile individuare una terza categoria di attività.
Pertanto, se non è possibile individuare attività qualificabili come "non esclusivamente di natura commerciale", si può sostenere che quest'ultimo inciso debba essere riferito solamente alle specifiche modalità di esercizio delle attività in argomento, che consentano di escludere la commercialità allorquando siano assenti gli elementi tipici dell'economia di mercato (quali il lucro soggettivo e la libera concorrenza), ma siano presenti le finalità di solidarietà sociale sottese alla norma di esenzione.
Infatti, la combinazione del requisito soggettivo e di quello oggettivo comporta che le attività svolte negli immobili ai quali deve essere riconosciuta l'esenzione dall'ICI non siano di fatto disponibili sul mercato o che siano svolte per rispondere a bisogni socialmente rilevanti che non sempre sono soddisfatti dalle strutture pubbliche e che sono estranee alla sfera di azione degli operatori privati commerciali.
Ciò è particolarmente evidente per le attività svolte in regime concessorio o in convenzionamento e/o accreditamento con l'ente pubblico, in quanto si tratta di attività inserite in maniera completa ed esclusiva nel servizio pubblico gestito direttamente da un'istituzione pubblica.
L'esenzione in esame, infatti, trae la sua giustificazione, da un lato nella "meritevolezza" dei soggetti e delle finalità perseguite, e, dall'altro, nella rilevanza sociale delle attività svolte.


6. LE ATTIVITÀ PREVISTE DALLA NORMA DI ESENZIONE.
Sulla base di questo inquadramento giuridico, appare opportuno, anche al fine di orientare l'attività dei comuni e dei contribuenti, effettuare una mera ricognizione dell'ambito di riferimento normativo vigente che consenta di individuare le attività meritevoli di usufruire del regime di favore in materia di ICI.

A) LE ATTIVITÀ ASSISTENZIALI
Le attività assistenziali sono quelle riconducibili alle attività previste dall'art. 128 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, secondo il quale per "servizi sociali si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia".
Bisogna, inoltre, tener conto della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e cioè la legge 8 novembre 2000, n. 328, che all'art. 1, comma 4, dispone che gli enti locali, le regioni e lo Stato "riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali". Il successivo comma 5 prevede che alla gestione ed all'offerta dei servizi provvedono:

•soggetti pubblici;
•organismi non lucrativi di utilità sociale;
•organismi della cooperazione;
•organizzazioni di volontariato;
•associazioni ed enti di promozione sociale;
•fondazioni;
•enti di patronato;
•altri soggetti privati.

Si intendono svolte con modalità non esclusivamente commerciali le attività convenzionate o contrattualizzate per le quali sono previste "rette" nella misura fissata in convenzione. Siffatta circostanza, infatti, garantisce uno standard di qualità e pone un limite alla remunerazione delle prestazioni rese, assicurando che tali prestazioni non siano orientate alla realizzazione di profitti.
Relativamente alle attività per le quali l'ente pubblico ad oggi non ha sviluppato un organico sistema di convenzionamento, la modalità di esercizio deve prevedere:
a) prestazioni gratuite o con compenso simbolico (es.: mensa per poveri);
b) prestazioni con rette, ma a condizione che l'attività non chiuda con un risultato
superiore al pareggio economico.

B) LE ATTIVITÀ PREVIDENZIALI
Le attività previdenziali sono quelle dirette all'esercizio di previdenza obbligatoria. Al riguardo la risoluzione del 25 giugno 1994, prot. n. 1242, ha precisato che "non possono farsi rientrare nell'ambito di applicazione della norma esonerativa in discorso gli uffici, siano essi amministrativi che tecnici, atteso che per essi non sussiste il delineato rapporto di stretta immanenza con lo svolgimento delle ... attività" tassativamente indicate nell'art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504 del 1992.

C) LE ATTIVITÀ SANITARIE
Le attività sanitarie sono quelle riconducibili nell'ambito disciplinato dal D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, dirette ad assicurare i livelli essenziali di assistenza definiti dal DPCM 29 novembre 2001.
Devono considerarsi svolte con modalità non esclusivamente commerciali le attività accreditate o contrattualizzate o convenzionate dalla regione e che, pertanto, si svolgono, in ciascun ambito territoriale e secondo la normativa ivi vigente, in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico; tale circostanza garantisce uno standard di qualità e pone un limite alla remunerazione delle prestazioni rese, assicurando che tali prestazioni non siano orientate alla realizzazione di profitti.
Ciò comporta che l'esenzione dall'ICI, non può essere riconosciuta alle strutture sanitarie non accreditate.

D) LE ATTIVITÀ DIDATTICHE
Le attività didattiche sono quelle disciplinate dalla legge 28 marzo 2003, n. 53, tra le quali rientrano, in generale, le attività che conferiscono titoli riconosciuti.
Ai fini dell'applicazione della norma di esenzione è necessario che:

•l'attività sia paritaria rispetto a quella statale; detta circostanza implica una serie di obblighi (ad esempio, l'accoglienza di alunni portatori di handicap, l'applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, l'obbligo di pubblicità del bilancio, le caratteristiche delle strutture e l'adeguamento a standards previsti) ed offre la garanzia del rispetto delle caratteristiche che la legge ritiene imprescindibili nell'insegnamento;
•la scuola adotti un regolamento che garantisca la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni. Il regolamento potrà prevedere criteri di selezione nel caso in cui le domande di iscrizione siano superiori alle disponibilità di posti, ma non potrà stabilire limiti all'accesso (ad esempio: l'esclusione degli alunni che non hanno conseguito una certa media);
•l'attività non debba chiudere con un risultato superiore al pareggio economico o che eventuali avanzi di gestione siano reinvestiti totalmente nell'attività didattica.
Da quanto esposto consegue che sono escluse dall'esenzione le scuole non paritarie, in quanto non offrono un servizio assimilabile a quello pubblico sotto il profilo dei programmi di studio e della significatività sociale, quelle non aperte a tutti alle medesime condizioni e quelle che non reinvestono totalmente gli eventuali avanzi di gestione nell'attività didattica.

E) LE ATTIVITÀ RICETTIVE
Nelle attività ricettive devono essere comprese la ricettività turistica non alberghiera e la ricettività sociale.
Dall'esame delle disposizioni che disciplinano la materia - in particolare la legge 21 marzo 1958, n. 326, che regola i complessi ricettivi complementari a carattere turistico-sociale, attuata con il D.P.R. 20 giugno 1961, n. 869; le disposizioni regionali sulla ricettività complementare o secondaria, che fissano le caratteristiche delle strutture, la tipologia dei gestori e la tipologia degli utenti – risulta che, per ottenere l'esenzione dall'ICI, devono sussistere le seguenti modalità di esercizio delle attività ricettive.

Per la RICETTIVITÀ TURISTICA sono richieste:
•l'accessibilità limitata, come regolata dalle prescrizioni delle leggi regionali; ciò avviene, in particolare, quando l'accessibilità non è rivolta ad un pubblico indifferenziato ma ai soli destinatari propri delle attività istituzionali (ad esempio: alunni e famiglie di istituti scolastici, iscritti a catechismo, appartenenti alla parrocchia, membri di associazioni);
•la discontinuità nell'apertura; proprio per la sua natura, l'attività ricettiva non deve, infatti, essere svolta per l'intero anno solare.

Per la RICETTIVITÀ SOCIALE (il cosiddetto housing sociale), è necessario che:

•le iniziative mirino a garantire soluzioni abitative per bisogni speciali (ad esempio: centri di accoglienza, pensionati per parenti di malati ricoverati in ospedali distanti dalle proprie residenze, comunità alloggio); si tratta di attività attraverso le quali gli enti rispondono al bisogno di sistemazioni abitative temporanee;
•le attività ricettive siano dirette a sostenere i bisogni abitativi di categorie sociali meritevoli (ad esempio: pensionati per studenti, per lavoratori precari, per stranieri e strutture simili) anche per periodi protratti nel tempo; si tratta, in sostanza, di attività caratterizzate dall'attenzione a situazioni critiche.
E' indispensabile sottolineare che per entrambe le fattispecie è determinante anche l'entità delle cosiddette "rette", che devono essere di importo significativamente ridotto rispetto ai "prezzi di mercato".

In definitiva sono escluse dall'esenzione dall'ICI:

•le strutture alberghiere da chiunque gestite;
•le strutture, in possesso di autorizzazioni per "ricettività complementare", che si comportano da albergo.

F) LE ATTIVITÀ CULTURALI
Nelle attività culturali a cui fa riferimento la norma di esenzione sono comprese quelle che rientrano nelle competenze del Ministero per i beni e le attività culturali, e cioè musei, pinacoteche e simili e, con riguardo all'ambito dello spettacolo, i cinema ed i teatri.
Per quanto attiene alle modalità di esercizio di dette attività occorre precisare che, al fine del riconoscimento dell'esenzione dall'ICI, negli immobili destinati ad attività museali, anche se a pagamento, non devono essere, però, svolte attività non museali di natura commerciale (come ad esempio: vendita di libri o di oggettistica nei book-shop, somministrazione di cibo e bevande nelle caffetterie).
Per l'attività dei cinema, l'esenzione deve essere riconosciuta ai locali con qualifica di "sala della comunità ecclesiale o religiosa" che l'art. 2, comma 10, del D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 28, definisce come "la sala cinematografica di cui sia proprietario o titolare di un diritto reale di godimento sull'immobile il legale rappresentante di istituzioni o enti ecclesiali o religiosi dipendenti dall'autorità ecclesiale o religiosa competente in campo nazionale e riconosciuti dallo Stato. La relativa programmazione cinematografica e multimediale svolta deve rispondere a finalità precipue di formazione sociale, culturale e religiosa, secondo le indicazioni dell'autorità ecclesiale o religiosa competente in campo nazionale".
L'esenzione dall'ICI deve essere, inoltre, riconosciuta alle sale cinematografiche in cui si proiettano esclusivamente film di interesse culturale; film d'essai; film riconosciuti di interesse culturale; film d'archivio; film ai quali sia stato rilasciato l'attestato di qualità; film inseriti nelle selezioni ufficiali di festival e rassegne cinematografiche di rilievo nazionale e internazionale; film per ragazzi, come definiti dall'art. 2, commi 5, 6 e 7 del citato D. Lgs. n. 28 del 2004.
Agli stessi fini esonerativi occorre valutare la circostanza che si tratti di attività cinematografiche favorite dal legislatore anche in altri ambiti, ad esempio con la concessione di contributi.
Per quanto riguarda i teatri, l'esenzione è limitata a quelli che si avvalgono solo di compagnie non professionali.

G) LE ATTIVITÀ RICREATIVE
Le attività ricreative si collocano in un'area residuale rispetto alle attività assistenziali e culturali (un esempio sono le realtà aggregative come i "circoli ricreativi").
Deve, naturalmente, trattarsi di attività svolte con modalità non commerciali e l'immobile non deve ospitare attività ricreative (commerciali o meno) effettuate da terzi.

H) LE ATTIVITÀ SPORTIVE
L'esenzione deve essere riconosciuta agli immobili dove vengono esercitate le attività sportive rientranti nelle discipline riconosciute dal CONI, a condizione che siano svolte dalle associazioni sportive e dalle relative sezioni non aventi scopo di lucro, affiliate alle federazioni sportive nazionali o agli enti nazionali di promozione sportiva riconosciuti ai sensi dell'art. 90 della legge n. 289 del 2002.
Per quanto attiene alle modalità di esercizio, è necessario che l'ente svolga nell'immobile esclusivamente attività sportiva agonistica "organizzata" direttamente (ad esempio: partite di campionato, organizzazione di corsi, tornei) e non si limiti a mettere a disposizione l'immobile per l'esercizio individuale dello sport (ad esempio: affitto di campi da tennis, gestione di piscine con ingressi a pagamento, affitto di campi da calcio a singoli o gruppi).
Da quanto esposto consegue che l'esenzione non deve essere riconosciuta ai palazzetti dello sport, ai campi ed agli impianti sportivi nei quali l'attività svolta dall'ente non è direttamente quella "sportiva", ma di affitto degli spazi.

I) LE ATTIVITÀ DI RELIGIONE E CULTO
La noma di esenzione richiama tra le attività di religione e di culto solamente quelle di cui all'art. 16, lett. a), della legge 20 maggio 1985, n. 222, che, come innanzi precisato, sono "quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi a scopi missionari alla catechesi, all'educazione cristiana".
Pertanto, l'esenzione dall'ICI può essere riconosciuta solo agli immobili adibiti alle attività appena indicate.


7. L'ONERE DELLA PROVA.
La prova delle condizioni che giustificano il riconoscimento dell'esenzione, come sostiene ormai la consolidata giurisprudenza (Cfr. fra tutte: Corte di Cassazione sentenze n. 555 del 1994; n. 14992 del 2000; n. 12749 del 2 settembre 2002; n. 21728 del 17 novembre 2004; n. 7905 del 15 aprile 2005, n. 20776 del 26 ottobre 2005), spetta a chi sostiene di averne diritto.
Detto assunto trova fondamento sui principi che regolano l'incidenza dell'onere probatorio stabiliti dall'art. 2697 del codice civile, per cui "spetta al soggetto che fa valere il diritto ad un'agevolazione tributaria, che costituisce deroga al normale regime di imposizione... di fornire la prova che ricorrono in concreto le condizioni previste dalla legge per poter godere della ...esenzione" (Corte di Cassazione sentenza n. 14146 del 24 settembre 2003).


Il Direttore Generale delle Finanze
Fabrizia Lapecorella
Postato il 12 dicembre 2011

11 dicembre 2011

Chiesa e ICI. Quell’esenzione che vale miliardi

di Sandro Magister
Infuria l’attacco contro la Chiesa cattolica che non paga l’ICI. Ed è vero: per molti suoi immobili la Chiesa non la paga né la deve pagare. Non per un privilegio esclusivo, ma per una legge, la 504 del 30 dicembre 1992 (primo ministro Giuliano Amato), che, se oggi fosse fatta cadere, penalizzerebbe assieme alla Chiesa una schiera nutritissima di altre confessioni religiose, di organizzazioni di volontariato, di fondazioni, di Onlus, di Ong, di Pro loco, di patronati, di enti pubblici territoriali, di aziende sanitarie, di istituti previdenziali, di associazioni sportive dilettantistiche, insomma di enti non commerciali.
La legge esenta tutti questi enti, compresi quelli che compongono la galassia della Chiesa cattolica, dal pagare l’ICI sugli immobili di loro proprietà “destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a) della legge 20 maggio 1985 n. 222″, ovvero le attività di religione o di culto.
Questo vuol dire, ad esempio:
– che una parrocchia di Milano non paga l’ICI per le aule di catechismo e l’oratorio, ma la paga per l’albergo che ha sulle Dolomiti, abbia o no questo al suo interno una cappella.
– che la Caritas di Roma non paga l’ICI per le sue mense per i poveri, né per l’ambulatorio alla Stazione Termini, né per l’ostello nel quale ospita i senza tetto. E ci vuole un bel coraggio a dire che così fa concorrenza sleale a ristoranti, hotel e ospedali.
– che la Chiesa valdese giustamente non paga l’ICI per il suo tempio di Piazza Cavour a Roma, né per le sale di riunione, né per l’adiacente facoltà di teologia. La paga, però, per la libreria che è a fianco del tempio.
– che la comunità ebraica di Roma non paga l’ICI per la Sinagoga, per il Museo, per le scuole. Ma la paga per gli edifici di sua proprietà adibiti ad abitazioni o negozi.
– che l’ANFFAS, associazione che assiste 30 mila disabili, non paga l’ICI per ciascuno dei suoi oltre mille centri. Ma la paga per gli immobili di sua proprietà dati in affitto.
– che non va pagata l’ICI per l’ex convento che fa da quartier generale della comunità di Sant’Egidio, né per le sue case per anziani. Va pagata invece per il ristorante che la comunità gestisce a Trastevere.
Insomma, questo vuol dire che su case date in affitto, negozi, librerie, ristoranti, hotel, eccetera, di proprietà di un qualsiasi ente non commerciale, l’ICI già la si paga da un pezzo. Per legge. E da quest’obbligo la Chiesa cattolica non ha alcuna esenzione.
Tant’è vero che a Roma, dove Propaganda Fide e l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica possiedono un buon numero di palazzi, questi due enti vaticani “sono tra i primi se non i primi contribuenti ICI della capitale”, testimonia Giuseppe Dalla Torre, presidente del tribunale dello Stato della Città del Vaticano e membro del consiglio direttivo dell’autorità di informazione finanziaria della Santa Sede.
Questo stabilisce la legge. Eppure i giornali e i giornalisti che danno prova di esserne a conoscenza si contano sulle dita di una mano sola.
E gli altri? Saranno anche grandi testate e grandi firme, ma se in una materia così elementare non si mostrano capaci di una minima verifica dei fatti, non fanno onore alla professione.
Come obnubilati dalla febbre della polemica, tutti costoro nemmeno sembrano capire che pretendere che la Chiesa cattolica paghi l’ICI anche per gli immobili su cui è esentata – cioè le chiese, i musei, le biblioteche, le scuole, gli oratori, le mense, i centri d’accoglienza, e simili – vuol dire punire l’immenso contributo dato alla vita dell’intera nazione non solo dalla Chiesa stessa ma anche da ebrei e da valdesi, da Caritas e da Emergency, da Telethon e da Amnesty International, insomma da tutti quegli enti non profit per i quali vige l’identica normativa.
Se l’esigenza numero uno dell’Italia è la crescita, tale multiforme, generosa, formidabile offerta di apporti non va penalizzata, ma sostenuta.
Le esenzioni dall’ICI previste dalla legge non sono denari in perdita. Sono risorse che ritornano moltiplicate allo Stato e alla società.

*

POST SCRIPTUM – Nel pomeriggio del 9 dicembre il cardinale Angelo Bagnasco ha detto a proposito della normativa sull’ICI:
“In linea di principio, la normativa vigente è giusta, in quanto riconosce il valore sociale delle attività svolte da una pluralità di enti non profit e, fra questi, degli enti ecclesiastici. Questo è il motivo che giustifica e al tempo stesso delimita la previsione di una norma di esenzione.
“È altrettanto giusto, se vi sono dei casi concreti nei quali un tributo dovuto non è stato pagato, che l’abuso sia accertato e abbia fine.
“In quest’ottica non vi sono da parte nostra preclusioni pregiudiziali circa eventuali approfondimenti volti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti non profit, oggetto dell’attuale esenzione”.
«L'Espresso - Blog» del 9 dicembre 2011

ICI. Tra rigoristi e lassisti, la Chiesa sta con i primi

di Sandro Magister
Nella controversia sull’ICI l’argomento più sfavillante calato ogni volta, immancabilmente, da chi attacca la Chiesa è quello della cappella. Alla Chiesa – si dice – basta sistemare a cappella la camera di un albergo di sua proprietà per essere esonerata dall’obbligo di pagare l’ICI sull’intero edificio. Questo – sempre stando ai si dice – grazie ai decreti legislativi 203 del 2005 (primo ministro Silvio Berlusconi) e 223 del 2006 (primo ministro Romano Prodi), intervenuti a modifica della legge base del 1992 (primo ministro Giuliano Amato) che stabilisce i casi nei quali gli enti non profit devono o no pagare l’imposta. Sono anni che questa storia della cappella viene tirata fuori come un coniglio dal cilindro, per stupire il pubblico. Senza però che qualcuno dei suoi innumerevoli recitanti l’abbia mai corredata di una prova di fatto.

Ebbene, da oggi, 10 dicembre 2011, la prova c’è.
Solo che è tutta al contrario. La riferisce su “Avvenire” Umberto Folena. Riguarda l’Hotel Giusti, a Roma, nel quartiere Esquilino. Un albergo a una stella di proprietà delle suore di Sant’Anna, su tre piani, col quarto e il quinto piano dello stesso edificio occupati dal convento delle suore con la sua brava cappella.
Incolpate di non pagare l’ICI, le suore non l’hanno mandata a dire. Hanno tirato fuori le bollette dei versamenti fatti. Attenzione: ICI calcolata e pagata non per il solo albergo, ma per tutti i cinque piani dell’edificio, cappella compresa.
Ma la cappella non doveva essere il grimaldello per far saltare l’intero banco? Cioè per non pagare più niente?
Certo, a dare ascolto ai cantastorie. Ma le suore, da cittadine avvedute, hanno preferito attenersi rigorosamente alla legge. La quale non consente affatto l’interpretazione truffaldina data per buona da chi crede, raccontandola, di mettere alla berlina la Chiesa.
Anzi, la legge vigente è su questo punto talmente rigida da far pagare l’ICI sull’intero edificio, compresi il convento e la cappella, che se fossero a sé stanti beneficerebbero invece dell’esenzione.
A tenere i conti delle suore di Sant’Anna è lo studio legale dell’avvocato Massimo Merlini, che segue un centinaio di istituti religiosi.
Ma non è solo questo studio legale a interpretare le norme vigenti nel senso che, se in uno stesso edificio si svolgono sia un’attività tenuta a pagare l’ICI sia un’altra esente, l’intero edificio perde l’esenzione.
Questa interpretazione della legge è la medesima che la stessa Chiesa ha sempre dato, sui suoi organi ufficiali.
Una prova? L’articolo che “L’Osservatore Romano” ha pubblicato l’11 novembre del 2007 a firma di Patrizia Clementi, uno dei giuristi di riferimento della conferenza episcopale italiana:

> Dalle opinioni ai fatti. Sui presunti privilegi alla Chiesa cattolica in Italia
Leggere per credere. Interpretazione inequivoca, cipiglio severo. L’articolo così chiude, riferendosi alle eventuali violazioni di tali leggi: “Per questi casi i comuni dispongono dello strumento dell’accertamento, che consente loro di recuperare l’imposta evasa”.
«L'Espresso - Blog» del 10 dicembre 2011

La Chiesa, le sue opere e i paladini di una legalità senz'anima

di Davide Rondoni
Hanno lo stesso germe. La stessa chimica composizione. Gli stessi elementi fondamentali di veleno. La crisi europea e la «rabbia» montata come panna dai soliti noti contro la Chiesa sulla questione Ici hanno lo stesso Dna. Il tipo di pensiero che ha generato questa Europa in crisi è quello che si agita nelle minacce, nelle ire, e nei cavilli, di coloro che vorrebbero metter la Chiesa sul banco degli evasori. Il medesimo Dna bacato. La crisi e questa campagna violenta contro la Chiesa sono figlie della stessa matrice. La crisi che vede l’Europa in pericolo per la fragilità della sua politica rispetto alla violenza che si abbatte sulla economia e la grossolana, piatta polemica anti-cattolica vengono dallo stesso pensiero: devono esistere solo lo Stato e il Privato. Tutto ciò che non è Potere dello Stato o Interesse Privato non deve esistere. Altre cose – gli organismi ecclesiali, i corpi intermedi, le realtà associate, il multiforme volontariato – sono soggetti di serie B.
Il destino dell’uomo è solo nelle mani dei due Poteri. Lo Stato e il Privato, la Legge e il Denaro. Il resto non ha valore. Se qualcosa d’altro vuole esistere, sarà per concessione di uno dei Due Poteri. Lo si tollererà, forse. Ma questo pensiero e le istituzioni che ne sono nate stanno mostrando il loro clamoroso fallimento. Stanno cadendo addosso a tutti. Specie addosso ai più poveri. Hanno teorizzato l’Europa fatta solo di Privato e di Stati – di banche, di monete e di leggi – e l’hanno messa in pratica. Come se l’anima dell’Europa non contasse. Come se ciò che non appartiene al Denaro o alle Leggi degli Stati non avesse peso. Come se gli organismi, le realtà nate da esperienze personali e di bene pubblico fossero nemiche. Come se la grande cultura religiosa, cristiana e non solo, fosse ingombro fastidioso per il funzionamento cristallino e impersonale dei Grandi Palazzi Europei. Che stanno crollando, velocemente, miseramente.
Non è un caso che siano sempre gli stessi, i cultori della legalità a senso unico, dello statalismo più asfittico (e perciò stesso del mercatismo più violento) a fomentare piccole folle con argomenti falsi, antistorici e di facile presa in un momento di crisi. Questi signorini della Legalità (ma solo a riguardo di alcune leggi, di altre chissà come mai no…) si fanno paladini dello Stato non ammettendo nient’altro che il suo Potere, e dunque che esista per il resto solo il Mercato. Sono i devoti del mondo sotto Due Poteri. Un pensiero radicale che per diversi rami accomuna banchieri a post-marxisti, ex-rivoluzionari un poco salottieri a finanzieri un poco ex­rivoluzionari. Un pensiero colloso, magmatico, tenuto insieme da una logica errata e da una buona dose di risentimenti. E forse conscio di essere un pensiero fallimentare. Un pensiero che ha generato guai. Comodo ai ricchi e ai nemici dei ricchi. Ma sbagliato. Forse per questo, come sempre accade, cerca un capro espiatorio. Preferibilmente mansueto. E si sferra contro la Chiesa. Un pensiero che non ha costruito se non templi al denaro e al potere, oggi pericolanti, si sfoga contro chi ha costruito altro genere di templi. Di preghiera, di dedizione ai poveri, di interesse pubblico fatto non da funzionari dello Stato, di libera e gratuita iniziativa.
Basta uno sguardo alla storia e alla geografia sociale del nostro Paese. Basta una minima onestà di sguardo. Basta il piccolo sforzo di uscire per un attimo dal pensiero fallimentare per vedere che la risorsa migliore che ci resta è smettere di adorare il Potere dello Stato e del Mercato. È non sacrificare ad essi le energie che hanno creato altri spazi, altri servizi, altri soccorsi. Quelli di cui poi si invoca l’esistenza quando la vita mette alla prova. E non solo si cura del corpo, ma anche si cura dell’anima delle persone.
Basterebbe solo un poco di onestà, in questi tempi di crisi, per riconoscere il valore – incalcolabile, altro che Ici! – di una presenza sociale generosa e contagiosa che non dipende dai poteri degli Stati e del Mercato. Ma si sa, in tempi di rovina spuntano sempre i cercatori di capri espiatori, e anche le peggiori razze di sciacalli. Cioè quelli che non pensano, se mai hanno pensato, e badano solo a meschini interessi.
«Avvenire» dell'11 dicembre 2011

Le reducciones gesuitiche del Paraguay

144.000 indios coinvolti. Una trentina di villaggi-modello, su un’area vasta più dell’Italia, retti da un sistema democratico. Grazie all’opera grandiosa dei gesuiti. Questo il fenomeno delle reducciones, durato circa due secoli. Che ebbe fine per colpa della propaganda protestante e illuminista
di Rino Cammilleri
La storia comincia nel 1576 e finisce nel 1768. Il film Mission ne dà solo una pallida idea: certe reducciones superavano i cinquemila abitanti. (Buenos Aires ne aveva meno di quattromila) e l'industria tipografica vi fioriva già nel 1695 (la prima stamperia della capitale è invece del 1780). Ludovico Antonio Muratori ne descrisse il «cristianesimo felice» e Voltaire nel Candide le definì «un trionfo dell'umanità» (però investì i suoi soldi nella Compagnia del Maranhao che contribuì a distruggerle). Le missioni stavano proprio al confine tra gli imperi coloniali spagnolo e portoghese, nella provincia gesuitica del Paraguay (il bacino dei tre grandi fiumi Parana, Uruguay e Paraguay). Gli indios erano i guarani, l'etnia più numerosa. Le reducciones nacquero per proteggere i battezzati dalle razzie dei creoli portoghesi (cosiddetti paulistas o bandeirantes) aiutati dai tupi, nemici tradizionali dei guarani. Ne facevano schiavi per le piantagioni e le miniere, a dispetto delle leggi protettive della corona spagnola (è stato osservato che il minore sviluppo economico del Sudamerica rispetto al Nord e la nascita della tratta degli schiavi africani furono conseguenza dell'impossibilità legale di sfruttamento degli indios). Prima dell'arrivo dei missionari i guarani non erano che selvaggi preistorici. Tutti i membri di un clan, in promiscuità totale, vivevano in un'unica grande capanna. L'agricoltura era elementare e a esclusiva base di maniaca. Il capo, cacique, li guidava in continue guerre che culminavano nello sterminio totale degli abitanti di un villaggio nemico (i superstiti venivano mangiati ritualmente). Lo stregone, payé, sottostava al caravié, il grande sciamano che incitava a un incessante nomadismo alla ricerca della Ywy mara ey, mitica «terra senza il male». Il risultato erano il fatalismo e una mancanza di iniziativa individuale che rendeva i guarani facile preda dei razziatori schiavisti (come si è detto, creoli portoghesi, perché l'accesso alla regione era più facile a loro che agli spagnoli).
Nel 1750, col trattato ispano-portoghese detto «dei confini», la «repubblica dei guarani» gesuitica passò sotto il dominio portoghese. Quest'ultimo, la cui economia era divenuta dipendente da quella inglese, cancellò i privilegi che la Spagna aveva accordato ai gesuiti: il primo ministro, l'illuminista marchese di Pombal, li espulse da tutto l'impero portoghese. Ma i gesuiti avevano addestrato militarmente gli indios (molti padri erano ex militari di carriera), e per la distruzione totale delle reducciones ci vollero vent'anni, durante i quali la propaganda antipapista - illuminista e protestante britannica – le dipinse come lager teocratici. Alla fine, l'unica vincitrice fu l'economia «moderna», basata sul commercio inglese e lo schiavismo nelle piantagioni.
Tutto ebbe inizio per via della difficoltà per gli spagnoli di accedere ai territori dei guarani, che il precedente trattato di Tordesillas aveva loro assegnato: per legare gli indios a sé contro i portoghesi, diedero mano libera ai missionari. In pochi anni i gesuiti riuscirono a «ridurre» a vita sedentaria circa 144.000 persone in una trentina di villaggi-modello retti da un sistema democratico. Fondati solo nel 1540, quasi tutti i gesuiti erano di vocazione adulta e molti erano stati architetti, militari, professionisti nelle più disparate competenze. Poiché Domenico Zipoli, per esempio, era stato uno dei massimi musicisti del suo tempo, le reducciones si riempirono di cori e mastri liutai. Ma ci si doveva continuamente difendere. Le reducciones del Guayra finirono distrutte dagli schiavisti: gli indios furono messi in salvo con una marcia di centinaia di chilometri verso l'interno, attraverso foreste impenetrabili e immani cascate come quella dell'lguazu; solo quattromila su dodicimila sopravvissero. Altro esempio: una rivolta fomentata dal payé Nezu uccise due missionari prima di venir repressa dai guarani fedeli. Nel 1638, poiché le richieste di aiuto alle autorità spagnole cadevano nel vuoto, i gesuiti organizzarono un esercito guarani e fabbriche di armi da fuoco. Nel 1639, sotto il comando del gesuita Diego de Alfaro, questa armata sconfisse un assalto di paulistas. Nel 1641, al Rio Mbororé, i guarani, forniti anche di un cannone, sbaragliarono cinquecento paulistas e duemilacinquecento tupi che attaccavano su novecento canoe: fu una battaglia epica che fece duemila morti e garantì pace per più di settant'anni.La trentina di reducciones si stendeva su un'area vastissima, superiore a quella dell'Italia. In esse operarono circa milleseicento gesuiti di ogni nazionalità. Ventisei di loro caddero uccisi. Servita da un acquedotto, ogni famiglia india aveva un suo appezzamento di terra, e le tecniche di coltivazione erano all'avanguardia; il resto era di proprietà comune, attorno alla quale c'erano i pascoli per il bestiame. Per dare un'idea dell'estensione, basti pensare che nella reducci6n di San li'iigo Mini si allevavano ben 33.000 vacche. Ogni reduccion aveva laboratori (gli indios divennero rinomati anche come scultori), lavanderie, tintorie, perfino un teatro. Si coltivava il mais, il cotone, il tabacco, la canna da zucchero; si confezionavano arazzi, merletti, arredi da chiesa. E poi c'erano tipografie, fabbriche di orologi a suoneria, fonderie per campane eccetera. Ogni reduccion era una comunità autosufficiente e in grado di provvedere anche all'esportazione dei prodotti. Il sistema politico era, come si è detto, democratico: l'assemblea eleggeva il corregidor e due giurati che lo assistevano, poi quattro magistrati di quartiere e sei commissari di rione. Non c'erano carceri né ospedali (i malati venivano assistiti in famiglia da infermieri addestrati). Non c'erano neanche negozi, perché non si usava denaro: ognuno traeva dalla sua attività quanto gli serviva o, se inabile, gli veniva assegnato nella redistribuzione.
Lo «stato gesuitico del Paraguay» aveva creato dal nulla una civiltà invidiabile, pacifica e quasi priva di sistema penale (ciò lo ha fatto paragonare alle utopie letterarie dell'umanesimo: Franco Cardini ha commentato che «senza dubbio l'esperienza delle reducciones e dei loro villaggi-modello molto deve all'utopia di Platone, di Tommaso Moro e dello stesso Campanella»). Davvero un esperimento unico nella storia della colonizzazione europea, quasi miracoloso se si pensa alle difficoltà che dovettero affrontare i gesuiti: l'ostilità degli stregoni, l'ubriachezza continua e collettiva, la promiscuità sessuale e le orge ricorrenti, la poligamia, l'infanticidio, l'abbandono dei vecchi e dei malati, gli infiniti tabù religiosi, il cannibalismo rituale, l'incoercibile nomadismo, la tirannia dei capi e l'insofferenza al lavoro organizzato di quelle tribù di selvaggi tatuati. La lezione è valida ancora oggi: solo una preventiva opera di evangelizzazione poté sgombrare il campo da tutto ciò; uno stile di vita subìto per motivi esclusivamente religiosi (la ricerca disperata e perenne della «terra senza il male») poteva essere mutato solo dietro motivazioni altrettanto forti. Si aggiungano le vere e proprie guerre di difesa che lo «stato dei gesuiti» dovette combattere contro gli schiavisti e le tribù ostili. E l'invidia dei coloni spagnoli per l'efficiente prosperità delle reducciones: insinuarono che la sovranità spagnola era insidiata perché i gesuiti avevano trovato l'oro in quelle terre e lo sottraevano alla corona. Le propagande antigesuite protestante e illuminista completarono l'opera e, quando al potere giunsero l'Aranda in Spagna e il Pombal in Portogallo, i soldati vennero spediti ad arrestare tutti i gesuiti delle colonie. La Compagnia di Ge-sù venne espulsa dall'impero portoghese nel 1759. Nel 1773 il papa çlemente XIV, su pressione dei governi europei, la soppresse. Le reducciones, prive di guida, furono abbandonate e caddero in rovina.
L'inizio della fine fu il già citato Tratado de Limites firmato da Spagna e Portogallo il13 gennaio del 1750 su iniziativa del governatore portoghese di Rio de Janeiro, Gomez Freire de Andrade. Il motivo: sia portoghesi che spagnoli avevano necessità di sfruttare il gigantesco estuario del Rio de la Plata per poter risalire verso Nord tramite i due grandi affluenti, il Parana e l'Uruguay; così, i portoghesi potevano evitare il difficile attraversamento dell'interno per raggiungere Bahia, e gli spagnoli arrivavano al Perù, cuore del loro impero, senza dover circumnavigare il continente. Gli spagnoli su quell'estuario avevano addirittura fondato Buenos Aires. Nel 1679 i portoghesi, proprio davanti a quest'ultima, sull'altra sponda, eressero la fortezza di Colonia del Sacramento. Cominciò così una lunga serie di guerre di confine, cui parteciparono anche contingenti di guarani delle reducciones, richiesti dal governatore spagnolo e concessi dai gesuiti. Gli spagnoli edificarono la cittadella di Montevideo e ottennero col Trattato dei Confini la cessione di Colonia del Sacramento. I portoghesi poterono spostare il loro confine più a Sud, incamerando un territorio immenso: colpa dell'insipienza del primo ministro spagnolo José Carvajal y Lancaster, che aveva avuto in cambio solo quella piccola fortezza. I portoghesi misero così le mani su sette reducciones con i loro trentamila abitanti. Questi ultimi, però, non volevano diventare sudditi degli schiavisti che avevano più volte incendiato i loro villaggi e massacrato la loro gente; né erano disposti ad abbandonare tutto per ricominciare da capo a centinaia di chilometri di distanza. Nel 1752 sbarcò a Buenos Aires l'incaricato per la demarcazione dei nuovi confini, Gaspar de Munive marchese di Valdelirios, assieme al gesuita Lope Luis Altamirano, commissario inviato dal generale Ignazio Visconti. L'Altamirano doveva convincere gli indios ad assoggettarsi ai portoghesi o trasferirsi altrove. Ma l'ordine da lui dato ai gesuiti di lasciare le reducciones venne vanificato dagli indios che impedirono con la forza ai missionari di andarsene. Allora fu inviata una spedizione congiunta di duemila soldati spagnoli e mille portoghesi: li attesero i guarani in assetto di guerra. Lo scontro terminò con la sconfitta di questi ultimi. Un'altra battaglia si svolse a Caibatf ma gli indios vennero dispersi. Metà degli abitanti delle reducciones accettarono di trasferirsi, gli altri fuggirono nelle foreste. Il nuovo governatore spagnolo, Pedro Caballos, ebbe l'ordine, dal ministro Ricardo Wall, di punire i gesuiti, ritenuti responsabili della ribellione, e rastrellare gli indios fuggitivi. Ma incontrò solo lungaggini messe in opera dal vecchio governatore Andrade. Questi aveva scandagliato il territorio delle reducciones e, constatato che di oro non c'era traccia, non intendeva più applicare il Trattato. Trascorsero cinque anni, il re spagnolo Ferdinando VI morì e sul trono andò suo fratello, Carlo 111, già re di Napoli e contrario al Trattato. Nel 1760 ancora le dispute e i bracci di ferro su quel Trattato continuavano: si protrassero fino al suo definitivo naufragio. Ma ormai il danno era fatto e, nel 1767, anche il re di Spagna espulse i gesuiti. Più di duemila di loro, caricati sui galeoni, vennero deportati in Europa. Come sappiamo, nel 1773, cedendo alle pressioni internazionali, il papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù. Venne ripristinata solo nel 1814, dopo la bufera napoleonica, da Pio VII.

BIBLIOGRAFIA
Eugenio Pellegrino s.j., La fine delle Riduzioni del Paraguay, Collana la Compagnia di Gesù e le Missioni, s.d.
Enrico Padoan s.j., Le Riduzioni del Paraguay, (ibidem).
Aldo Trento, Il cristianesimo felice, Marietti 2004.
«Il Timone» n. 38, anno VI, dicembre 2004

06 dicembre 2011

Una discussione a carta aperta

Poteri istituzionali e costituzione
di Ernesto Galli della Loggia
Qual è il grado di salute della seconda parte della nostra Costituzione, riguardante l’organizzazione dei poteri pubblici? Sono ancora le sue regole capaci di soddisfare esigenze minime di buon governo assicurando efficacia e trasparenza? E in quale misura tali regole sono realmente applicate?
Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all’eventuale strumentalizzazione politica.
È più che evidente che in generale tutta l’impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l’insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell’Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.
Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.
In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l’azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un’interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d’impatto e di condizionamento sull’orientamento politico del Paese. Con l’ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.
Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.
L’opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l’altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell’appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall’altro lato quelli che invece vedono già all’opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall’altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.
«Corriere della Sera» del 30 novembre 2011

Scienza e religione

di Rino Cammilleri
Su «Il Domenicale» dell'8 maggio u.s. è comparsa un'interessante intervista concessa a Marco Respinti da Peter Hodgson, fisico nucleare, già docente di Fisica e Matematica a Oxford ed ora consulente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Lo scienziato, cattolico, dichiara che «la scienza moderna è stata resa possibile da ciò che la dottrina cristiana propone di credere a proposito del mondo materiale». Affermazione sorprendente, visto che lo scientismo otto-novecentesco ci ha abituato a pensare inconciliabili scienza e religione.
Tuttavia, se lo scientismo ha come autorevole testimonial un'agnostica come Margherita Hack, ci sono scienziati credenti che non vedono alcuna contraddizione nell'esserlo. Quasi mai, comunque, se ne trova uno che si sbilanci fino al punto di riconoscere le radici cristiane della scienza moderna.
Infatti, prosegue Hodgson, «per i cristiani il mondo è cosa buona giacché fatto da Dio: nella Genesi è scritto infatti che, dopo averlo creato, Dio guardò il mondo e vide che era cosa buona». Già, lo ripete ben sei volte. Diceva il sociologo delle religioni Léo Moulin che il cristianesimo è una religione «desacralizzante». Per esempio, gli antichi avevano deificato il sole e la luna, ma nel Genesi si dice che sono solo «luminari», lampade.
Dunque, la novità cristiana consiste nel sottomettere tutto, anche gli spiriti, al Dio unico, creatore di tutto e a cui tutto è sottoposto. L'unico non creato è Cristo, consustanziale al Padre e, per giunta, tramite della creazione: «per mezzo di Lui tutte le cose sono state create», recita il Credo. Le cosiddette e denigrate "questioni bizantine», cioè i dibattiti dei primi secoli sulla natura di Cristo, lungi dall'essere, dunque, discussioni oziose, sono stati, al contrario, «importantissimi», parola di Hodgson. Se tutto, tranne Cristo, è stato creato, ciò è«il contrario esatto del panteismo antico, secondo il quale non vi è distinzione sostanziale fra Creatore e creato. Un concetto, questo, paralizzante per la scienza». Ricordiamo sommessamente che un Giordano Bruno viene considerato uno dei precursori della scienza moderna, laddove è vero il contrario, perché Bruno proponeva appunto una posizione del genere.
Se tutto è stato fatto per mezzo di Cristo, il Buono per eccellenza, «significa che tutta la realtà è buona e che il mondo non è affatto il campo di battaglia dove si scontrano princìpi malvagi e princìpi positivi». I cristiani credono che il mondo sia razionale «appunto perché fatto da un essere razionale. Creandola, Dio ha dato alla materia proprietà indagabili». L'«effetto decisivo sullo sviluppo della cultura, quindi ultimamente della scienza», è stato inferto dall'Incarnazione di Cristo, avvenimento centrale del cristianesimo e «accadimento storico che differenzia il cristianesimo da qualsiasi altra religione».
Le antiche civiltà possedevano una concezione ciclica del tempo, «secondo la quale, dopo un certo numero di millenni, le cose si ripresentano perfettamente uguali a se stesse. Si tratta di un'idea in sé deprimente e debilitante». Invece, il farsi uomo di Cristo è stato «un evento unico che ha rotto con la prospettiva ciclica, sostituendola con una concezione lineare del tempo che scorre dall'alfa all'omega. Qui è contenuta, peraltro, tutta l'idea del progresso», ed è «solo la possibilità del progresso che genera una visione della storia intrisa di speranza».
In effetti, senza la speranza di un progresso (cioè, di un futuro migliore del presente) è inutile darsi da fare. Se la storia è ciclica, se il tempo non è una freccia puntata verso il meglio ma un cerchio senza capo né coda, non serve smaniare per accelerarlo: si rischia di fare la fine dei criceti che corrono all'interno di una ruota. Certo, non si può negare che molte civiltà antiche, dice Hodgson, «hanno conosciuto quella che definirei una scienza primitiva, la conoscenza empirica di alcune proprietà della materia». Ma «è completamente diverso da ciò che chiamerei scienza moderna: la comprensione dettagliata delle proprietà della materia, espressa in formule matematiche». Conclusione: «La scienza è nata nell'Europa occidentale cristiana». Ma, «per quelle culture che ritengono l'universo un caos, la scienza è un concetto assurdo».
Fin qui Hodgson. Ma noi possiamo andare avanti e darci un'occhiata intorno: le altre religioni non hanno prodotto nulla in campo scientifico e, men che meno, tecnologico. Sono ferme da millenni e non vedono perché debbano muoversi. Il ribollio, scientifico, culturale, filosofico, politico, sociale, nel bene e nel male, è sempre stato tutto occidentale. Se paragoniamo, per esempio, la tecnologia a disposizione di un guerriero hittita con quella di un soldato romano di millenni dopo, vediamo che non è cambiato molto. Ma con l'avvento del cristianesimo il mondo subisce un'accelerazione parossistica: già un cavaliere medievale usa le staffe e la «resta» per la lancia; pochissimi secoli ed ecco le armi da fuoco. E così via.
Torniamo adesso alla scienza: il medievale e cristiano s. Tommaso d'Aquino chiarisce che Dio, essendo razionale, ha dato al cosmo leggi razionali; dunque, non può cambiarie, sennò cesserebbe di essere razionale e sarebbe un capriccioso despota, cosa che non è. L'importanza fondamentale di questo passaggio è dato dalle conseguenze: la natura può essere studiata perché obbedisce a regole replicabili in laboratorio e, dunque, osservabili.
Se, poniamo, Dio avesse fatto il fuoco, sì, caldo, ma potesse in qualunque momento farlo freddo, sarebbe assolutamente inutile mettersi a studiare il fuoco. Invece, c'è di più: Dio stesso può essere steso sul lettino dell'investigatore e analizzato; anzi, è Egli stesso a chiederlo, perché vuole essere conosciuto (non si può amare quel che non si conosce). Infatti, il cristianesimo è l'unica religione con una «teologia», una disciplina, cioè, che studia Dio. Ecco perché la Chiesa (l'unica cosa che Cristo ha fondato) ha sempre incoraggiato (e finanziato) cultura, arte, scienza. Non si tiri fuori, per piacere, la solita storia di Galileo (Ieggersi il mio Quaderno del Timone «Il caso Galileo»): non era la Chiesa che metteva bocca nella scienza, ma Galileo che metteva la sua nella teologia. Senza averne la competenza.
«Il timone» del luglio / agosto 2004, anno VI, n. 35

30 novembre 2011

Gesù, lo sconosciuto più noto della storia

Esce ora in italiano l'ultima opera del papirologo Thiede, il difensore dei frammenti di Qumram scoparso 5 anni fa
di Carsten Peter Thiede
Ormai è quasi impossibile contare quanti siano i libri su Gesù, eppure chi li legge si accorge subito di una cosa: quanto più si scrive su Gesù, tanto meno sembra crescere la nostra conoscenza su di lui. Compaiono continuamente sulla scena nuove tessere del mosaico, ma l’immagine non diventa per questo più riconoscibile.
Così in ogni caso sembra essere per molte persone, di fronte agli incessanti dibattiti sul valore di quelle pietruzze e della loro collocazione nel mosaico un tempo completo. E se oggi possono ancora uscire libri che nel sottotitolo affermano di trasmettere «una solida conoscenza di base», in realtà mettono in mostra soltanto i frantumi di una critica dei Vangeli da gran tempo superata: si capisce allora perché sia i cristiani credenti, sia gli scettici curiosi domandino perplessi chi sia stato dunque Gesù e che cosa ci trasmettano su di lui le fonti a nostra disposizione.
Quanto insicure siano talvolta le conoscenze al riguardo, si è dimostrato nuovamente poco tempo fa: quando nell’ottobre 2002 fu portata alla luce una cassetta di ossa, un «ossario», con l’iscrizione «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù», in alcuni giornali si poté leggere che questa sarebbe la prima prova della sicura esistenza di Gesù. Era proprio come se non si fosse ancora compreso che i Vangeli e le Lettere del Nuovo Testamento sono fonti storiche e che quindi si squalificano sul piano scientifico quegli studiosi, i quali continuano ancora ad affermare che gli evangelisti non volevano scrivere un’opera di storia. Invece è quello che volevano: lo dicono gli autori stessi, e nessuno più chiaramente di Luca (cfr. Lc 1,1-4). Volevano essere misurati secondo i criteri degli storici dell’antichità e sapevano che i loro lettori non si aspettavano nient’altro da loro.
Gli storici ovviamente devono chiedersi se gli evangelisti siano riusciti in questo loro intento, ma che questa fosse la loro volontà e che avessero le possibilità di farlo, è un dato di fatto assolutamente incontestabile. Dunque solo chi ha preso la decisione inammissibile di togliere valore storico al Nuovo Testamento può giungere all’idea che l’ossario di «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù» sia la prima prova sicura dell’esistenza di Gesù di Nazaret. Si dovrebbero inoltre ignorare o sminuire i passi corrispettivi degli storici dell’antichità (si vedano lo storico romano Tacito, l’ebreo Giuseppe Flavio – le cui affermazioni non sono state per nulla falsificate, come talvolta si afferma ancora in un modo da gran tempo superato – e più tardi Plinio il giovane e il Talmud).
Anche le tracce archeologiche non sono nuove. In parte sono indirette: un esempio ne danno i graffiti risalenti alla fine del I – inizi del II secolo, che sono stati scoperti nel sottosuolo della cosiddetta tomba di Davide sulla collina di Sion, tomba che in realtà era una sinagoga giudeo-cristiana attiva verso la fine degli anni Settanta del I secolo: in essa si è trovata una nicchia rivolta in direzione del Golgota e contenente rotoli delle Sacre Scritture.
Qui furono decifrate invocazioni a Gesù e formule cristiane di preghiera. Anche un membro della primitiva comunità di Gerusalemme è stato comprovato archeologicamente: si tratta di Alessandro, il figlio di Simone di Cirene (cfr. Mc 15,21), proprio il figlio dunque dell’uomo che ha portato la croce di Gesù – o meglio il legno trasversale della croce. I resti delle sue ossa, ritenute autentiche senza alcuna discussione dagli archeologi, si trovano oggi conservati presso l’Università ebraica di Gerusalemme. Dal punto di vista archeologico si riferisce egualmente a Gesù anche la casa di Pietro a Cafarnao, la cui identificazione oggi non è più contestata da nessuno storico serio.
Questa casa non esisterebbe con i cambiamenti avvenuti molto presto nella costruzione per adattarla a luogo di riunione per la comunità giudeo-cristiana, se Pietro non fosse stato discepolo di Gesù, il primo dei suoi apostoli e la roccia della Chiesa, e se non fosse risaputo che Gesù stesso aveva abitato a lungo in questa medesima casa (cfr. Mc 2,1 ss).
Un simile elenco potrebbe proseguire a lungo, ma completa soltanto quello che si trova nelle fonti e non può avere alcuna forza probante maggiore di quella che hanno le fonti storico-letterarie già conosciute. Infatti, senza le Scritture – in questo caso i Vangeli – non sapremmo nulla di un certo Alessandro, figlio di Simone il Cireneo, oppure di uno che nei graffiti della collina di Sion viene invocato come il Cristo Messia: non avremmo capito per niente di che cosa si tratta.
«Avvenire» del 18 settembre 2009

27 novembre 2011

L’arte magica di convincere

Un saggio di Bice Mortara Garavelli riapre il dibattito intorno all'efficacia della parola
di Cesare Segre
La rivincita della retorica sulla logica, nel nome delle emozioni
La retorica è stata spesso oggetto di irrisione o avversione. Anche i dizionari registrano questo fatto. Il dizionario Sabatini-Coletti, tra le interpretazioni dell’aggettivo retorico, mette anche «caratterizzato da magniloquenza, da ricercatezza, ma privo di validi contenuti, povero di sostanza»; oppure «ampolloso, enfatico, artificioso». Ma poi, la retorica è parente stretta dell’eloquenza, che il dizionario spiega così: «L’arte di esporre gli argomenti in maniera appropriata, elegante e persuasiva», dopo aver precisato che l’eloquenza greca o latina è «l’insieme delle norme retoriche seguite dagli oratori greci e latini, ecc.». E non si vede perché la retorica sia così maltrattata in confronto con l’eloquenza che ne è il prodotto. Siamo comunque già autorizzati a sospettare che quando Verlaine esorta a «prendere l’eloquenza e torcerle il collo», dia voce all’insofferenza della poesia del suo tempo verso la retorica (si noti intanto che «torcere il collo» per «eliminare» è una metafora, tipica figura retorica). Bice Mortara Garavelli, oltre che linguista, è una grande studiosa di retorica. Tra i suoi molti lavori sull’argomento, citeremo almeno il Manuale di retorica (Bompiani, 1997) e Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche (Laterza, 2010). Ora un nuovo volumetto laterziano (Prima lezione di retorica, pp. 118, 12) ritorna sul tema in prospettiva storica. Lo sviluppo della retorica s’intreccia con quello della filosofia greca. La retorica, nella sistemazione di Aristotele, viene messa in alternativa con la logica: la logica cerca il vero, la retorica il verisimile. Ma già Platone, nel Fedro , aveva separato la «vera» e la «falsa» retorica: la prima soltanto conduce l’ascoltatore alla verità. La Mortara Garavelli sottolinea più volte che la retorica, così come fu codificata in una serie di testi latini (dalla Rhetorica ad Herennium sino alla Institutio di Quintiliano), era utilizzata soprattutto in ambito giudiziario e politico: riusciva perciò naturale che facesse appello all’emozione dell’ascoltatore, puntando alla persuasione più che alla dimostrazione (campo della dialettica e della logica, sue rivali). La Mortara Garavelli d’altra parte ci ricorda un cosa che dovrebbe essere ovvia, e cioè che la retorica, cioè l’uso di potenzialità psicologiche del linguaggio, ha una diffusione universale e precede le codificazioni storiche, continuando anche al di là di queste. E infatti esiste senza dubbio una retorica-non-retorica, che gli scrittori, e non più i soli uomini di legge e politici cui si rivolgevano in origine i trattatisti, inventano ed elaborano. Per questo nel terzo capitolo, dedicato ai procedimenti codificati della retorica, la Mortara Garavelli dà esempi anche di scrittori contemporanei e persino di non-scrittori, mostrando che la retorica continua a essere inventata dai parlanti. Aveva visto benissimo Nietzsche, citato in esergo: «Ciò che si qualifica come retorico in quanto mezzo di un’arte cosciente era già in atto come mezzo di un’arte inconscia nella lingua e nella sua formazione: la retorica altro non è se non un perfezionamento degli artifici già presenti nella lingua». Divertente, tra l’altro, notare che qui Nietzsche assume il ruolo di rappresentante dell’equilibrio e del buon senso. Oggi sarebbe impensabile un attacco alla retorica, se non altro perché abbiamo imparato a distinguere tra una retorica creativa e una retorica esornativa o classificatoria (molti degli autori citati dalla Mortara si stupirebbero apprendendo che hanno fatto uso di anadiplosi o di epanalessi o di epìfore). Ma soprattutto bisogna aggiungere che nuove prospettive teoriche hanno riportato la retorica nelle adiacenze della filosofia, nelle quali era già stata sistemata dai Greci, e ancor più nelle adiacenze della linguistica. Quanto alla filosofia, è stato Perelman, alla metà del Novecento, a dimostrare che anche l’argomentazione filosofica è costretta spesso a rinunciare al ragionamento di stampo logico per ricorrere a strategie comunicative, a stratagemmi verbali, che mirano piuttosto a convincere che a dimostrare. Non solo, ma in tutte le scienze umane, dal diritto all’etica, non si può argomentare su basi razionali come nella matematica o nella logica. Al contrario, si può dimostrare, ricorrendo necessariamente anche alla persuasione, perciò a strategie di carattere retorico. La persuasione, d’altra parte, è aperta anche all’irrazionale e alle emozioni che prevalgono nelle relazioni umane, e non possono essere messi tra parentesi. Insomma, un capovolgimento di quel dominio della razionalità (della logica) cui la cultura occidentale ci ha abituati. Altrettanto importanti le connessioni della retorica con la linguistica moderna, sempre più attratta dalle articolazioni del discorso, oltre i limiti di proposizioni e frasi. La retorica infatti s’impegna a ottimizzare l’andamento del discorso. Un caso notevole è quello dell’anastrofe e dell’epìfora: iniziando o terminando enunciati successivi di un discorso con le stesse parole, si crea una struttura complessa e armonica di frasi connesse, ma anche di pensieri ben concatenati. I retori parlano di dispositio , «ordinamento e disposizione degli argomenti». Si prenda come esempio il canto di Giustiniano (Paradiso, VI). Il discorso svolto nei versi da 37 a 75 è tutto sorretto da una serie di anafore: «Tu sai ch’el fece... E sai ch’el fe’... Sai quel ch’el fe’... Esso atterrò... sott’esso... E quel che fe’... Quel che fe’... Di quel che fe’... Con costui... con costui». Dante sta parlando dell’aquila imperiale e del disegno escatologico che avrebbe assegnato all’Impero romano il compito di accogliere e sviluppare il cristianesimo; le anafore evidenziano la coerenza delle fasi di questo compito. Potremmo ringraziare l’autrice di questa Prima lezione senza fare della retorica?

Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora cotesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? (...). Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l’opposizione unanime dei cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti?
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Il giorno di San Crispino non passerà mai, senza che noi si venga menzionati. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti nobili ora a letto in patria si sentiranno dannati per non essersi trovati oggi qui.
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Questa è la risposta che darò al presidente Roosevelt: fidatevi di noi. Dateci la vostra benedizione, e con l’aiuto della Provvidenza alla fine andrà bene. Non intendiamo fallire o tentennare; non intendiamo indebolirci o stancarci. Né l’improvviso urto della battaglia, né le lunghe prove della vigilanza e del comando ci fiaccheranno. Dateci gli strumenti, e noi finiremo il lavoro.
«Corriere della Sera» del 3 novembre 2011

Freud narratore: quando l’isteria diventa romanzo

Malattia e finzione Un volume raccoglie gli scritti letterari in cui lo scienziato affronta famosi casi clinici
di Cesare Segre
I temi e i protagonisti Dall’«uomo dei topi» al caso Dora, dal «piccolo Hans» all’infanzia di Leonardo da Vinci, fino alla nevrosi infantile e all’omosessualità femminile Così il padre della psicoanalisi trasforma i pazienti in personaggi
Nel 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un’acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo - che la gente chiama pessimismo - il Suo essere dominato dalle verità dell’inconscio, dalla natura istintuale dell’uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l’aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un’insolita e inquietante familiarità». Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall’arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell’amico Nathan Weiss fino al suicidio. Ma dopo aver trovato la strada dell’analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere? A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell’«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni. E non è narrativa quella che scruta un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L’uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa». Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell’impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent’anni. È perciò da festeggiare l’ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Sigmund Freud, Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, editore Einaudi, pp. LXVI-812, Euro 85), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia. In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell’analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell’interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi. La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l’autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto». Per esempio Dora, nel «Frammento di un’analisi d’isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all’«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità. Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l’autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell’autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l’espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover’uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L’ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo. Un’altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell’età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com’era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa. Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m’ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all’inizio dell’analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell’opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un’informazione sbagliata». Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell’uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni. Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale.
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I «Racconti analitici» di Sigmund Freud sono un progetto editoriale di Mario Lavagetto (sua anche l’introduzione). Le note e gli apparati sono di Anna Buia, la traduzione di Giovanna Agabio Il volume è edito da Einaudi (pp. LXVI-812, Euro 85, nella foto sotto la copertina) L’opera contiene tra l’altro la «Lettera a Martha», «Quattro casi dagli Studi sull’isteria», «Il delirio e i sogni nella Gradiva di Wilhelm Jensen», «Analisi della fobìa di un bambino di cinque anni», «L’uomo dei topi», «Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci», «Dalla storia di una nevrosi infantile», «Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile»
«Corriere della Sera» del 26 novembre 2011