15 novembre 2011

Se ridere è una cosa seria

Il comico? Ispira l’arte, scarica le tensioni (personali e sociali), fa bene al fisico. Ecco le prove. Da Aristotele ai vignettisti più cinici
di Daniele Abbiati
Una vera e propria incazzatura no, ma un po’ d’irritazione la susciterebbe, in Platone, sapere che per milioni di liceali di tutto il mondo lo studio della filosofia comincia con una sua barzelletta contenuta nel dialogo Teeteto. Riguarda Talete, abitualmente presentato per primo tra i filosofi presocratici, ed è lo stranoto episodio che vede il milesio cadere in un pozzo ed esser preso in giro da una servetta: «Ti preoccupi tanto delle cose che stanno in cielo, però non vedi dove metti i piedi». S’irriterebbe, il più brillante allievo di Socrate, poiché lui il riso non lo sopporta: nella sua Repubblica ideale non ha cittadinanza. Come Platone più o meno la pensano Protagora, Epitteto, la Bibbia, le regole monastiche medievali, Hobbes e i puritani: la vita bisogna tenersela stretta, e chi ci scherza sopra la butta via.
Secondo John Morreall, autore di Filosofia dell’umorismo (Sironi), Platone e Hobbes sono fra l’altro i principali esponenti della «teoria della superiorità»: chi ride, lo fa essendo convinto della propria superiorità rispetto alle cose e alle persone di cui si burla. Teoria successivamente chiosata dal buon Henri Bergson, autore, detto per inciso, della più densa (e divertente) opera filosofica sull’argomento: Il riso. È vero, dice Bergson, ma a chi si prende gioco della «rigidità meccanica» che domina ampi segmenti dell’esistenza va tutta la mia solidarietà.
Alla «teoria della superiorità», colpevolista e seriosa, fa da contrappeso quella «dell’incongruenza». A sostenerla e diffonderla sono, stranamente, tre pensatori spesso accusati d’essere troppo musoni: l’ultra-razionalista Kant, il pessimista Schopenhauer e il confessionale Kierkegaard. Ma soprattutto il figlio degenere del platonismo, Aristotele. Ricordate il casus belli de Il nome della rosa? Nella plumbea abbazia i monaci muoiono come mosche attirati dal fantomatico secondo libro della Poetica dello Stagirita, quello che tratterebbe, dopo i generi della tragedia e dell’epica, la commedia: cioè il riso. Ebbene, ad Aristotele&Co. la commedia piace assai non tanto per gli sghignazzi che suscita, ma perché accresce le esperienze umane. Infatti, come funziona la nostra mente? Per modelli appresi. E che cosa fa la commedia, il comico? Determina «slittamenti cognitivi», come li chiama Morreall, cioè esercizi giocosi disinteressati dall’aut-aut «o combatti o scappi» del dovere, e rivolti al piacere. In ciò la commedia e il riso sono in buona compagnia: anche tutte le forme di arte si muovono in quest’ambito di gratuità. Cicerone sottoscrive dalle pagine del De oratore.
Poi ci sarebbe anche la terza teoria, quella «del sollievo»: ridiamo per gli scampati pericoli reali o immaginari, e nel far ciò scarichiamo la tensione. Abbracciata da Shaftesbury, Spencer e Freud, il quale la appende al gancio multiuso della libido, fisiologicamente è perfetta: forse il riso non farà buon sangue, ma la medicina assicura che è amico di muscoli, nervi e cuore. Però è troppo riduttiva, e l’autore la scarta come una «concezione idraulica» del nostro cervello.
In effetti, trovare l’equilibrio fra cuore e cervello non è impresa da poco. «Questo mondo - afferma Horace Walpole - è una commedia per quelli che hanno cervello, ma una tragedia per quelli che hanno cuore». E ancora Bergson avvalora tale convinzione, dicendo che l’umorismo richiede «un’anestesia momentanea del cuore». Tuttavia, per iscriversi al partito del riso non basta mettere una firma sotto il motto Take it easy. Troppo facile. Ridere consapevolmente e non come degli idioti, è una cosa seria. Sviluppa il pensiero critico, chiede di mettere fra parentesi i propri interessi particolari, di aver pazienza, coraggio, rispetto per l’altro. Del resto, se le cose andassero sempre bene, non si riderebbe più. Twain e Nietzsche hanno davvero poco in comune, ma al proposito la pensano allo stesso modo. «In Paradiso non si ride», sostiene il primo, mentre per il secondo gli uomini sono gli unici animali che ridono perché sono quelli che soffrono davvero.
Infine, la natura proteiforme e libertaria del riso gli consente di essere buono anche quand’è cattivo, altruista quand’è cinico, costruttivo quando mena bastonate a destra e sinistra. Avviene con la satira (quella autentica), infiltratasi con arguzia nelle pieghe di ogni civiltà, dribblando le leggi non scritte del costume e della morale, fino a sbeffeggiare persino la morte. Nelle vignette dell’islandese Hugleikur Dagsson, scorrettissime e bellissime (Cazzo ridi?, Isbn) c’è molta filosofia. Perché, niccianamente, incidono con il bisturi dell’ironia i bubboni dolenti e li fanno scoppiare. Dal ridere.
«Il Giornale» del novembre 2011

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