19 novembre 2011

Il marchio dello Struzzo ma l’imprimatur del Pci

Nei verbali delle mitiche riunioni del mercoledì la prova che la linea culturale dell’editore doveva conciliarsi con quella politica del partito
di Alessandro Gnocchi
C’è un passaggio chiave nei Verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952 (Einaudi, pagg. 532, euro 40), il volume che raccoglie le discussioni in cui l’editore torinese e i suoi collaboratori dibattevano di strategie culturali, libri da pubblicare, collaboratori da arruolare. Il 18 giugno 1945, Felice Balbo, Norberto Bobbio e Cesare Pavese affrontano il tema di chi dovrà curare la collana «I problemi italiani», dedicata alla situazione economica, politica e sociale. Agli atti finisce questa riflessione: «possono esservi anche due o tre soluzioni per ogni problema, sempre nell’indirizzo politico della Casa, ormai fatto di P.C., L.C. e di P.D.A., le sole ideologie, del resto, oggi vitali e che possono dare soluzioni di problemi secondo un reale piano costruttivo». Le sigle stanno per Partito Comunista, Movimento dei Lavoratori Cristiani e Partito d’Azione. La linea non potrebbe essere più chiara e, come si evince dai verbali, da quel momento è seguita con scrupolo anche quando questo implica pagare un pesante tributo all’ortodossia. Si spiegano così fatti noti di cui troviamo conferma in queste pagine, quali il rifiuto di pubblicare Nietzsche o il trattamento riservato allo slavista Renato Poggioli, reo di aver scritto, per l’antologia Il fiore del verso russo, un’introduzione che esprimeva dubbi sulla consistenza della letteratura sovietica e apprezzamento per i poeti censurati da Stalin. Il saggio fu accolto male dal Partito, cui fu sottoposto per preventiva approvazione, e apparve con una nota dell’editore che prendeva le distanze dall’operazione. Poggioli fu emarginato, addirittura i torinesi pensarono di far uscire un Nuovo fiore del verso russo come «antidoto» al suo lavoro.
In questo e in altri casi, la tassa da tributare al Pcus, oltre che al Pci, è molto alto. Elio Vittorini, ad esempio, vorrebbe preparare un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obiezioni». La risposta è «Niet». All’ambasciata dell’Urss è permesso di ficcare il naso nelle traduzioni di autori sovietici con questi risultati: «L’addetto culturale russo ha comunicato loro (Pietro Zveteremich e Gastone Manacorda, ndr) che non tutte le opere pubblicate prima del ’38-39 possono essere pubblicate in quanto non tutte gradite». Tale «niet», accettato, vuol dire rinunciare, tra gli altri, a Boris Pasternak. A lungo poi si pensa di ospitare interventi di filosofi e scrittori «eretici» per il canone Einaudi sulla rivista Risorgimento. La discussione riguarda soprattutto Benedetto Croce. I pareri sono discordanti ma si arriva alla conclusione che avere Croce tra le firme significa portarlo dalla propria parte o almeno evitare che continui a essere «strumento possibile di reazione o di eventuale lotta sul terreno politico». Insomma: Croce va bene ma solo per smorzare la carica anticomunista del suo pensiero. L’obiettivo dichiarato, senza troppi giri di parole, è «sfruttare gli intellettuali» a fini politici, cioè smussarne l’avversione al Partito.
L’egemonia culturale, dunque, fu tenacemente perseguita e fu ottenuta con gli strumenti dell’editoria. Dai Verbali esce anche il genio di Einaudi. Chi volesse buttarsi nel ramo qui può imparare molto. Einaudi si lamenta perché i collaboratori vogliono comprare troppi libri «già fatti». Errore grave. La Casa editrice deve innanzi tutto proporre volumi da realizzare ai vari autori. Altrimenti non c’è strategia. Viva è anche la preoccupazione per l’identità di ogni singola collana, che deve caratterizzarsi per una proposta netta: nascono da queste riflessioni gemme come i «Gettoni» di Elio Vittorini. Un occhio di riguardo è riservato al gruppone dei consulenti, nel tentativo di ampliarlo quanto possibile, anche a costo di avere troppi galli nel pollaio (ad esempio, si avverte una certa tensione fra Pavese e Vittorini).
Nei Verbali emerge con chiarezza la linea fissata dalla Casa editrice di Torino nel 1945. In fondo è ancora quella maggioritaria nella sinistra italiana. L’analisi politica di Einaudi e soci (formare un blocco sociale nel nome di comunismo, azionismo e cattolicesimo di sinistra) aveva allora una logica stringente, per quanto lontana dalla democrazia liberale. Nel 2011, non ha più senso. Il mondo è cambiato, e una parte del catalogo storico dello Struzzo, imbottito di saggi sulle conquiste della società sovietica, è lì a dimostrarlo. Il Pci non esiste più. Il Partito d’Azione pure. Anche l’egemonia culturale è finita: la proposta attuale dell’Einaudi, pur di alto livello, è assai generalista e meno definita rispetto a quella di editori di area diversa. Basta guardare il catalogo di Liberilibri, Rubbettino, Lindau, Cantagalli per capire che le idee affilate e coerenti vengono dalla cultura liberale e cattolica.
Tutto è mutato. Eppure i progressisti continuano a comportarsi come se avessero i piedi sotto al tavolo durante le riunioni del mercoledì. Lo statalismo soffocante, l’antipatia per il liberalismo, la chiusura verso il mercato, la concezione dello Stato come dispensatore di diritti, l’intellettuale militante: questa è l’eredità del comunismo. Il senso di superiorità antropologica discende invece dal moralismo Azionista, che distingue il Paese sano dal Paese malato, l’Italia onesta da quella retrograda e conservatrice. I Verbali insegnano che fare l’editore è un mestiere bello e difficile. E, indirettamente, che viviamo nel XXI secolo mentre la sinistra campa ancora sulle idee, solo un po’ annacquate, che gli einaudiani propugnavano nel ’45.
«Il Giornale» del 19 novembre 2011

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