19 novembre 2011

Il catalogo delle atrocità

La ricerca
di Alessandro Zaccuri
Il senso della giustizia ereditato dal padre. E il senso dell’umorismo ricevuto in dono dalla madre. In mezzo, come risultato un po’ bizzarro dell’incontro fra queste due virtù, c’è lui, Matthew White della Virginia, a lungo bibliotecario di professione e oggi infaticabile collezionista di sterminii.
Suo è Il libro nero dell’umanità appena pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie (traduzione Massimiliano Manganelli con Valentina Sichenze, pagine 874, euro 23,50) e suo, prima ancora, è il sito in ostinato stile web 1.0 (lo si raggiunge all’indirizzo http://users.erols.com/mwhite28/index.htm) attraverso il quale ha da tempo iniziato ad allestire un dettagliatissimo atlante storico del XX secolo. Cifre e statistiche a non finire, comprese quelle dei massacri che hanno insanguinato il Novecento. Con relativo contorno di polemiche, richieste di rettifica, petizioni di principio.
L’idea di un volume che praticasse l’«atrocitologia» come scienza esatta è nata da lì. Intendiamoci, il neologismo è discutibile e del resto White mette le mani avanti fin dall’introduzione, avvertendo che «tutto quello che state per leggere è controverso». A partire dalla decisione di iniziare il conteggio dei cento peggiori orrori di tutti i tempi fin dall’antichità, superando le remore che di solito riguardando l’esattezza dei numeri forniti dagli storiografi greci e romani («I nostri antenati sapevano come contare pecore, bovini e denaro, e allora perché avrebbero dovuto improvvisamente dimenticarsene allorché si trattava di contare le persone?», obietta spiccio White).
Ma le questioni veramente delicate sono altre e l’autore del Libro nero dell’umanità, dotato com’è della tipica schiettezza anglosassone, non fa nulla per nasconderle. Quanto si arriva ad affrontare l’argomento del rapporto tra guerra, religioni e massacri, White prova a procedere per piccoli passi. «Nessuna guerra è al cento per cento religiosa (o al cento per cento qualcos’altro)», ammette, ma aggiunge che spesso la religione è l’unico elemento che differenzia due gruppi altrimenti omogenei, come accadde nella Jugoslavia degli anni Novanta. E poi la presenza della componente religiosa rimane innegabile in molti conflitti , anche perché sono gli stessi belligeranti ad appellarvisi. Per motivi di comodo, forse, ma presupponendo un indubbio potere di fascinazione.
Nel tentativo di conservarsi equanime sino in fondo, White evita di postulare un rapporto di causa-effetto simile a quello indicato da tanta pubblicistica neo-ateista (è il sofisma per cui ogni credo, e il monoteismo in particolare, sarebbe per sua natura guerrafondaio) e precisa addirittura che non sempre, quando si combattono popoli di religione diversa, la religione stessa è da considerarsi come casus belli.
Dopo di che, torna a occuparsi di numeri ed è qui che cominciano le sorprese. Perché la più grande strage a sfondo “religioso” è la cosiddetta rivolta dei Taiping, verificatasi in Cina tra il 1850 e il 1864, quando il presunto messia Hong Xiuquan – che si proclamava fratello minore di Gesù Cristo – guidò un’insurrezione anti-imperiale nel quale persero la vita 20 milioni di persone. Subito dopo, nella macabra classifica, incontriamo la guerra dei Trent’anni, che fra il 1618 e 1648 contrappose protestanti e cattolici in terra tedesca, lasciando sul suolo 7,5 milioni di vittime.
Seguono i cinque milioni e mezzo di ebrei sacrificati nella Shoah, che però White decide di conteggiare all’interno delle vittime della Seconda guerra mondiale, per la quale si arriva al raccapricciante totale di 66 milioni di caduti sui vari fronti (il che, per inciso, fa di Adolf Hitler il più spietato in assoluto fra i dittatori susseguitisi sulla Terra: l’atto d’accusa contro di lui si riferisce a 42 milioni di vittime). Alle Crociate, solitamente additate come il conflitto religioso per antonomasia, White imputa un probabile bilancio – comunque terribile, sia chiaro – di circa tre milioni di morti.
Effetto dell’imparzialità tipica dell’«atrocitologia», che obbliga a considerare la storia in una prospettiva veramente planetaria, in conseguenza della quale si scopre che la più sanguinosa tratta degli schiavi mai avvenuta fu quella che interessò il Medio Oriente fra il VII e il XIX secolo: in essa perirono 18 milioni e mezzo di persone, due milioni e mezzo in più rispetto al martirologio riferibile al commercio di esseri umani da e verso l’America. White tratta una materia inquietante, senza mai rinunciare a un tocco di humour (il lascito della mamma, ricordate?) che potrà forse apparire fuori luogo a qualcuno.
Ciò non toglie che Il libro nero dell’umanità sia un’opera tutta da discutere e sulla quale riflettere senza pregiudizi. Specie quando l’autore azzarda qualche considerazione generale. Questa, per esempio: le stragi più efferate derivano, anziché dalle dittature, dal caos scatenato in seguito al crollo dei poteri assoluti. Non sarà una buona notizia, ma di questi tempi tradisce una certa attualità.
«Avvenire» del 16 novembre 2011

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