30 novembre 2011

Gesù, lo sconosciuto più noto della storia

Esce ora in italiano l'ultima opera del papirologo Thiede, il difensore dei frammenti di Qumram scoparso 5 anni fa
di Carsten Peter Thiede
Ormai è quasi impossibile contare quanti siano i libri su Gesù, eppure chi li legge si accorge subito di una cosa: quanto più si scrive su Gesù, tanto meno sembra crescere la nostra conoscenza su di lui. Compaiono continuamente sulla scena nuove tessere del mosaico, ma l’immagine non diventa per questo più riconoscibile.
Così in ogni caso sembra essere per molte persone, di fronte agli incessanti dibattiti sul valore di quelle pietruzze e della loro collocazione nel mosaico un tempo completo. E se oggi possono ancora uscire libri che nel sottotitolo affermano di trasmettere «una solida conoscenza di base», in realtà mettono in mostra soltanto i frantumi di una critica dei Vangeli da gran tempo superata: si capisce allora perché sia i cristiani credenti, sia gli scettici curiosi domandino perplessi chi sia stato dunque Gesù e che cosa ci trasmettano su di lui le fonti a nostra disposizione.
Quanto insicure siano talvolta le conoscenze al riguardo, si è dimostrato nuovamente poco tempo fa: quando nell’ottobre 2002 fu portata alla luce una cassetta di ossa, un «ossario», con l’iscrizione «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù», in alcuni giornali si poté leggere che questa sarebbe la prima prova della sicura esistenza di Gesù. Era proprio come se non si fosse ancora compreso che i Vangeli e le Lettere del Nuovo Testamento sono fonti storiche e che quindi si squalificano sul piano scientifico quegli studiosi, i quali continuano ancora ad affermare che gli evangelisti non volevano scrivere un’opera di storia. Invece è quello che volevano: lo dicono gli autori stessi, e nessuno più chiaramente di Luca (cfr. Lc 1,1-4). Volevano essere misurati secondo i criteri degli storici dell’antichità e sapevano che i loro lettori non si aspettavano nient’altro da loro.
Gli storici ovviamente devono chiedersi se gli evangelisti siano riusciti in questo loro intento, ma che questa fosse la loro volontà e che avessero le possibilità di farlo, è un dato di fatto assolutamente incontestabile. Dunque solo chi ha preso la decisione inammissibile di togliere valore storico al Nuovo Testamento può giungere all’idea che l’ossario di «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù» sia la prima prova sicura dell’esistenza di Gesù di Nazaret. Si dovrebbero inoltre ignorare o sminuire i passi corrispettivi degli storici dell’antichità (si vedano lo storico romano Tacito, l’ebreo Giuseppe Flavio – le cui affermazioni non sono state per nulla falsificate, come talvolta si afferma ancora in un modo da gran tempo superato – e più tardi Plinio il giovane e il Talmud).
Anche le tracce archeologiche non sono nuove. In parte sono indirette: un esempio ne danno i graffiti risalenti alla fine del I – inizi del II secolo, che sono stati scoperti nel sottosuolo della cosiddetta tomba di Davide sulla collina di Sion, tomba che in realtà era una sinagoga giudeo-cristiana attiva verso la fine degli anni Settanta del I secolo: in essa si è trovata una nicchia rivolta in direzione del Golgota e contenente rotoli delle Sacre Scritture.
Qui furono decifrate invocazioni a Gesù e formule cristiane di preghiera. Anche un membro della primitiva comunità di Gerusalemme è stato comprovato archeologicamente: si tratta di Alessandro, il figlio di Simone di Cirene (cfr. Mc 15,21), proprio il figlio dunque dell’uomo che ha portato la croce di Gesù – o meglio il legno trasversale della croce. I resti delle sue ossa, ritenute autentiche senza alcuna discussione dagli archeologi, si trovano oggi conservati presso l’Università ebraica di Gerusalemme. Dal punto di vista archeologico si riferisce egualmente a Gesù anche la casa di Pietro a Cafarnao, la cui identificazione oggi non è più contestata da nessuno storico serio.
Questa casa non esisterebbe con i cambiamenti avvenuti molto presto nella costruzione per adattarla a luogo di riunione per la comunità giudeo-cristiana, se Pietro non fosse stato discepolo di Gesù, il primo dei suoi apostoli e la roccia della Chiesa, e se non fosse risaputo che Gesù stesso aveva abitato a lungo in questa medesima casa (cfr. Mc 2,1 ss).
Un simile elenco potrebbe proseguire a lungo, ma completa soltanto quello che si trova nelle fonti e non può avere alcuna forza probante maggiore di quella che hanno le fonti storico-letterarie già conosciute. Infatti, senza le Scritture – in questo caso i Vangeli – non sapremmo nulla di un certo Alessandro, figlio di Simone il Cireneo, oppure di uno che nei graffiti della collina di Sion viene invocato come il Cristo Messia: non avremmo capito per niente di che cosa si tratta.
«Avvenire» del 18 settembre 2009

27 novembre 2011

L’arte magica di convincere

Un saggio di Bice Mortara Garavelli riapre il dibattito intorno all'efficacia della parola
di Cesare Segre
La rivincita della retorica sulla logica, nel nome delle emozioni
La retorica è stata spesso oggetto di irrisione o avversione. Anche i dizionari registrano questo fatto. Il dizionario Sabatini-Coletti, tra le interpretazioni dell’aggettivo retorico, mette anche «caratterizzato da magniloquenza, da ricercatezza, ma privo di validi contenuti, povero di sostanza»; oppure «ampolloso, enfatico, artificioso». Ma poi, la retorica è parente stretta dell’eloquenza, che il dizionario spiega così: «L’arte di esporre gli argomenti in maniera appropriata, elegante e persuasiva», dopo aver precisato che l’eloquenza greca o latina è «l’insieme delle norme retoriche seguite dagli oratori greci e latini, ecc.». E non si vede perché la retorica sia così maltrattata in confronto con l’eloquenza che ne è il prodotto. Siamo comunque già autorizzati a sospettare che quando Verlaine esorta a «prendere l’eloquenza e torcerle il collo», dia voce all’insofferenza della poesia del suo tempo verso la retorica (si noti intanto che «torcere il collo» per «eliminare» è una metafora, tipica figura retorica). Bice Mortara Garavelli, oltre che linguista, è una grande studiosa di retorica. Tra i suoi molti lavori sull’argomento, citeremo almeno il Manuale di retorica (Bompiani, 1997) e Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche (Laterza, 2010). Ora un nuovo volumetto laterziano (Prima lezione di retorica, pp. 118, 12) ritorna sul tema in prospettiva storica. Lo sviluppo della retorica s’intreccia con quello della filosofia greca. La retorica, nella sistemazione di Aristotele, viene messa in alternativa con la logica: la logica cerca il vero, la retorica il verisimile. Ma già Platone, nel Fedro , aveva separato la «vera» e la «falsa» retorica: la prima soltanto conduce l’ascoltatore alla verità. La Mortara Garavelli sottolinea più volte che la retorica, così come fu codificata in una serie di testi latini (dalla Rhetorica ad Herennium sino alla Institutio di Quintiliano), era utilizzata soprattutto in ambito giudiziario e politico: riusciva perciò naturale che facesse appello all’emozione dell’ascoltatore, puntando alla persuasione più che alla dimostrazione (campo della dialettica e della logica, sue rivali). La Mortara Garavelli d’altra parte ci ricorda un cosa che dovrebbe essere ovvia, e cioè che la retorica, cioè l’uso di potenzialità psicologiche del linguaggio, ha una diffusione universale e precede le codificazioni storiche, continuando anche al di là di queste. E infatti esiste senza dubbio una retorica-non-retorica, che gli scrittori, e non più i soli uomini di legge e politici cui si rivolgevano in origine i trattatisti, inventano ed elaborano. Per questo nel terzo capitolo, dedicato ai procedimenti codificati della retorica, la Mortara Garavelli dà esempi anche di scrittori contemporanei e persino di non-scrittori, mostrando che la retorica continua a essere inventata dai parlanti. Aveva visto benissimo Nietzsche, citato in esergo: «Ciò che si qualifica come retorico in quanto mezzo di un’arte cosciente era già in atto come mezzo di un’arte inconscia nella lingua e nella sua formazione: la retorica altro non è se non un perfezionamento degli artifici già presenti nella lingua». Divertente, tra l’altro, notare che qui Nietzsche assume il ruolo di rappresentante dell’equilibrio e del buon senso. Oggi sarebbe impensabile un attacco alla retorica, se non altro perché abbiamo imparato a distinguere tra una retorica creativa e una retorica esornativa o classificatoria (molti degli autori citati dalla Mortara si stupirebbero apprendendo che hanno fatto uso di anadiplosi o di epanalessi o di epìfore). Ma soprattutto bisogna aggiungere che nuove prospettive teoriche hanno riportato la retorica nelle adiacenze della filosofia, nelle quali era già stata sistemata dai Greci, e ancor più nelle adiacenze della linguistica. Quanto alla filosofia, è stato Perelman, alla metà del Novecento, a dimostrare che anche l’argomentazione filosofica è costretta spesso a rinunciare al ragionamento di stampo logico per ricorrere a strategie comunicative, a stratagemmi verbali, che mirano piuttosto a convincere che a dimostrare. Non solo, ma in tutte le scienze umane, dal diritto all’etica, non si può argomentare su basi razionali come nella matematica o nella logica. Al contrario, si può dimostrare, ricorrendo necessariamente anche alla persuasione, perciò a strategie di carattere retorico. La persuasione, d’altra parte, è aperta anche all’irrazionale e alle emozioni che prevalgono nelle relazioni umane, e non possono essere messi tra parentesi. Insomma, un capovolgimento di quel dominio della razionalità (della logica) cui la cultura occidentale ci ha abituati. Altrettanto importanti le connessioni della retorica con la linguistica moderna, sempre più attratta dalle articolazioni del discorso, oltre i limiti di proposizioni e frasi. La retorica infatti s’impegna a ottimizzare l’andamento del discorso. Un caso notevole è quello dell’anastrofe e dell’epìfora: iniziando o terminando enunciati successivi di un discorso con le stesse parole, si crea una struttura complessa e armonica di frasi connesse, ma anche di pensieri ben concatenati. I retori parlano di dispositio , «ordinamento e disposizione degli argomenti». Si prenda come esempio il canto di Giustiniano (Paradiso, VI). Il discorso svolto nei versi da 37 a 75 è tutto sorretto da una serie di anafore: «Tu sai ch’el fece... E sai ch’el fe’... Sai quel ch’el fe’... Esso atterrò... sott’esso... E quel che fe’... Quel che fe’... Di quel che fe’... Con costui... con costui». Dante sta parlando dell’aquila imperiale e del disegno escatologico che avrebbe assegnato all’Impero romano il compito di accogliere e sviluppare il cristianesimo; le anafore evidenziano la coerenza delle fasi di questo compito. Potremmo ringraziare l’autrice di questa Prima lezione senza fare della retorica?

Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora cotesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? (...). Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l’opposizione unanime dei cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti?
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Il giorno di San Crispino non passerà mai, senza che noi si venga menzionati. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti nobili ora a letto in patria si sentiranno dannati per non essersi trovati oggi qui.
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Questa è la risposta che darò al presidente Roosevelt: fidatevi di noi. Dateci la vostra benedizione, e con l’aiuto della Provvidenza alla fine andrà bene. Non intendiamo fallire o tentennare; non intendiamo indebolirci o stancarci. Né l’improvviso urto della battaglia, né le lunghe prove della vigilanza e del comando ci fiaccheranno. Dateci gli strumenti, e noi finiremo il lavoro.
«Corriere della Sera» del 3 novembre 2011

Freud narratore: quando l’isteria diventa romanzo

Malattia e finzione Un volume raccoglie gli scritti letterari in cui lo scienziato affronta famosi casi clinici
di Cesare Segre
I temi e i protagonisti Dall’«uomo dei topi» al caso Dora, dal «piccolo Hans» all’infanzia di Leonardo da Vinci, fino alla nevrosi infantile e all’omosessualità femminile Così il padre della psicoanalisi trasforma i pazienti in personaggi
Nel 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un’acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo - che la gente chiama pessimismo - il Suo essere dominato dalle verità dell’inconscio, dalla natura istintuale dell’uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l’aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un’insolita e inquietante familiarità». Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall’arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell’amico Nathan Weiss fino al suicidio. Ma dopo aver trovato la strada dell’analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere? A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell’«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni. E non è narrativa quella che scruta un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L’uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa». Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell’impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent’anni. È perciò da festeggiare l’ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Sigmund Freud, Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, editore Einaudi, pp. LXVI-812, Euro 85), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia. In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell’analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell’interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi. La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l’autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto». Per esempio Dora, nel «Frammento di un’analisi d’isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all’«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità. Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l’autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell’autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l’espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover’uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L’ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo. Un’altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell’età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com’era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa. Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m’ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all’inizio dell’analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell’opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un’informazione sbagliata». Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell’uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni. Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale.
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I «Racconti analitici» di Sigmund Freud sono un progetto editoriale di Mario Lavagetto (sua anche l’introduzione). Le note e gli apparati sono di Anna Buia, la traduzione di Giovanna Agabio Il volume è edito da Einaudi (pp. LXVI-812, Euro 85, nella foto sotto la copertina) L’opera contiene tra l’altro la «Lettera a Martha», «Quattro casi dagli Studi sull’isteria», «Il delirio e i sogni nella Gradiva di Wilhelm Jensen», «Analisi della fobìa di un bambino di cinque anni», «L’uomo dei topi», «Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci», «Dalla storia di una nevrosi infantile», «Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile»
«Corriere della Sera» del 26 novembre 2011

Protestanti all’assalto di Roma

di Carlo Cardia
Un sogno che ha attraversato il Risorgimento, e conosce la sua consunzione nel periodo della Sinistra liberale, riguarda il tentativo di protestantizzare l’Italia. È un sogno piccolo, fatto per lo più da stranieri che sanno poco di storia e geografia, o da qualche inglese che si prende troppo sul serio, tuttavia incontra qualche consenso e suscita simpatie qua e là.
Ed è un sogno che occorre tener distinto dalla conquista della libertà religiosa che riguarda tutti i culti, e opinioni in materia religiosa. Giorgio Spini ricorda che nel cammino verso la libertà religiosa, si stabilisce un collegamento tra i valdesi delle valli piemontesi, gli evangelici toscani, le correnti liberali, al fine di ottenere libertà religiosa ed eguaglianza per tutti i cittadini. Quando, però, la libertà religiosa si afferma, il fronte si divide perché il programma missionario che tende a diffondere il protestantesimo in Italia si scontra con il movimento liberale (cattolico o laico) e con i ceti popolari che non vogliono sentir parlare di una religione diversa da quella cattolica. Un ruolo a parte è svolto dall’Inghilterra che sostiene la causa italiana per più ragioni, per motivi di equilibrio europeo, per indebolire l’Austria ed attenuare l’egemonia francese sulle terre italiane; ma si sostiene anche perché, sulla base di vecchi pregiudizi, ritiene che l’Italia possa liberarsi del cattolicesimo e quasi protestantizzarsi.
Come i cattolici sono malvisti in Inghilterra dopo la liberalizzazione del 1829, altrettanto in Italia non basta la libertà religiosa concessa dal 1848 perché i protestanti si sentano a casa loro, tanto meno realizzino i propri obiettivi missionari. Certo, la libertà religiosa concede a protestanti, ebrei, e chiunque altro, uno statuto di cittadinanza eguale per tutti, pone riparo ai torti storici subiti dai valdesi e dagli ebrei. Si aprono chiese e scuole protestanti in varie città, in Roma è eretto il tempio anglicano in via Nazionale, con una singolarità: nel mosaico del pittore Edward Burne-Jones, sant’Andrea è raffigurato con il volto di Abramo Lincoln, san Giacomo con il volto di Giuseppe Garibaldi, san Patrizio con il volto del generale Ulysses Grant, comandante delle truppe nordiste nella guerra di secessione americana.
Ma l’attività missionaria trova un muro quando si accosta al popolo, al tessuto sociale cattolico più fitto, alla stessa Italia liberale, perché i protestanti prendono atto di una realtà a loro sconosciuta: gli italiani sono rimasti cattolici, o sono diventati laici (liberali, massoni, anticlericali, non importa), ma in entrambi i casi non vogliono sentir parlare di religione protestante: i cattolici perché la considerano eretica, gli altri perché al solo sentir parlare di religione vedono rosso. L’espansione protestante si infrange contro questo blocco sociale e religioso, con episodi minori, o più gravi.
A Roma il 20 luglio 1872, nell’ambito di una manifestazione ostile agli ordini religiosi, un pastore protestante crede di poter fare propaganda per la propria fede e parla alla folla affermando che la religione è fondamento della vita civile. La folla risponde gridando: «Abbasso tutte le religioni, giù tutte le botteghe religiose», e ad un suo tentativo di replica viene sospinto dai dimostranti che tentano di buttarlo nella fontana di Trevi, ma è salvato dai carabinieri. Ben più gravi i fatti che accadono a Barletta nel 1865, quando il predicatore Gaetano Gianni prende casa per avviare l’opera di propaganda religiosa tra la popolazione.
Ma questa provoca gravi disordini che portano il 19 maggio a una specie di linciaggio con il quale sono devastati i locali della sotto-prefettura e uccise sei persone (tra cui un cattolico). L’anno successivo i giudici condannano severamente 28 aggressori. Il sogno protestante affiora, sia pur confusamente, in personalità come Francesco Crispi, il quale dichiara alla Camera nel 1866 che «il cattolicesimo finirà; ed allora il cristianesimo, che falsi ministri deturpano, purgandosi dei vizi della Chiesa romana, riprenderà l’antico prestigio e diventerà facilmente la religione dell’Umanità. Ma finché in Roma ci saranno il papa e i cardinali, finché in Roma papa e cardinali avranno un potere politico, cotesta riforma non sarà possibile».
Queste previsioni non si avverano, è sconfitto il disegno di «protestanti e massoni di tutto il mondo, convinti che, crollato il potere temporale dei papi, anche quello spirituale abbia i giorni contati». Le ragioni sono sostanzialmente due. La prima, indicata da Giorgio Spini, ha natura politica, perché «di novità in fatto di cristianesimo la Terza Italia non voleva saperne: a meno che non si trattasse del culto nuovo della Madonna di Pompei, iniziato giusto in quegli anni da Bartolo Longo e coronato subito di trionfo immenso.
Alla Destra storica l’Italia evangelica tornava sgradita in quanto ostile all’ordine tradizionale di cose: alla Sinistra restava incomprensibile e peggio per la sua ostinazione veramente assurda a preferire il Vangelo al verbo positivista o all’Inno a Satana. Non sembrava davvero che le restasse molto da fare, fuorché togliere l’incomodo e scomparire insieme a tanti altri sogni risorgimentali». L’altra ragione è più di sostanza, perché il cattolicesimo ha permeato in profondità la spiritualità e la cultura egli italiani.
Per quanto ci si impegni ad aprire chiese protestanti, e diffondere la Riforma, ci si accorge che nulla è più alieno dalla sensibilità popolare dell’individualismo nato in Paesi lontani che cancella dalla religione i segni esteriori, la consuetudine con il divino, i legami che uniscono la Chiesa alla vita quotidiana, familiare, personale; così come la venatura pessimistica protestante collide con l’ottimismo cattolico che scende nell’intimo, e rassicura la coscienza con gioiosa serenità. I passaggi ad altra Chiesa si registrano ma l’influenza protestante rimane sotto una soglia minima, quasi esistano anticorpi che salvaguardano l’anima popolare cattolica.
«Avvenire» del 24 novembre 2011

La chimera sovietica e l’intellighenzia

di Marcello Flores
Negli anni in cui lo stalinismo stava assumendo in pieno il suo carattere di “grande terrore”, in Europa ma anche negli Stati Uniti si assiste al momento forse più esteso di consenso e di fascinazione per l’Urss, in parte replicato proprio tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta senza però, come in quel caso, la presenza di una robusta e crescente schiera di intellettuali schierati apertamente contro il comunismo. Il più importante dei congressi degli intellettuali negli anni Trenta, quello che divenne il simbolo stesso del loro impegno politico, ebbe luogo a Parigi a fine giugno 1935.
Il I Congresso internazionale degli scrittori in difesa della libertà della cultura era nato su sollecitazione di Erenburg, lo scrittore sovietico che, benché avesse combattuto la guerra civile dalla parte dei bianchi contro i bolscevichi, era diventato in epoca staliniana l’uomo di fiducia per i rapporti con l’occidente e in particolar modo con il mondo della cultura. Il congresso era stato organizzato dai nomi più noti dell’intelligencija comunista, Aragon e Vaillant-Couturier, e da alcuni degli scrittori francesi più noti e rappresentativi, Gide e Malraux. Dal congresso venne escluso Breton, per un litigio avvenuto alla vigilia con Erenburg, e mancarono tanto scrittori conservatori come Henry de Montherlant e François Mauriac quanto coloro che simpatizzavano per il trockismo e le correnti rivoluzionarie antistaliniane. Tra i francesi vi erano anche Barbusse, Nizan, Benda, Tzara; tra gli stranieri Musil, Forster, Huxley, Toller, Brecht, Klaus e Heinrich Mann, Salvemini e Ernst Bloch; nella delegazione sovietica, tra altri, Pasternak e Babel’.
Il compito di inaugurare il congresso toccò a Gide, lo scrittore che si era “convertito” al comunismo qualche anno addietro. Nella sua relazione rivendicò il suo essere, insieme, francese e internazionalista, comunista e individualista, e attribuì alla letteratura la straordinaria capacità di intrecciare il particolare con il generale. «L’Urss – disse – ci offre attualmente uno spettacolo senza precedenti, d’immensa importanza, insperata e, oso aggiungere, esemplare. Quello di un paese in cui lo scrittore entra in comunione diretta con i suoi lettori». La maggior parte degli intervenuti, pur con accenti tra loro molto diversi, si dichiararono coesi attorno al progetto antifascista guidato dall’Urss.
Voci discordi furono quella di Emmanuel Mounier, che parlò di un nuovo umanesimo e di valorizzazione della persona e poco dopo, in un commento al convegno, avrebbe stigmatizzato «il conformismo e la bassezza nei confronti del grande Stalin e dell’infallibile Urss». E anche di Musil che dovette apparire a molti una sorta di sopravvissuto e di anacronistico retaggio del passato. L’intervento dello scrittore austriaco, che le cronache coeve e successive passarono quasi sotto silenzio, partiva da una pacata richiesta di potersi sottrarre alle “pretese” della politica. Consapevole dell’accentuato collettivismo che caratterizzava l’intera storia dell’epoca, Musil si domandava se la cultura ne sarebbe stata fecondata o distrutta e invitava i suoi colleghi a imparare la nobile arte femminile «del non concedersi», visto che i politici erano «soliti considerare una splendida cultura come la preda naturale della loro politica, così come una volta le donne spettavano ai vincitori».
Ricordando l’assioma di Nietzsche secondo cui la vittoria di un ideale morale si otteneva con gli strumenti immorali di ogni vittoria – la violenza, l’inganno, la calunnia, l’ingiustizia – invitava a lasciare libertà allo scrittore nella scelta della forma politica con cui identificarsi. Intendendo per libertà non un concetto politico riduttivo ma un’idea psicologica, l’audacia, l’irrequietezza dello spirito, il piacere della ricerca, la schiettezza e il senso di responsabilità. «Deve essere anche presente l’amore per la verità – concluse –; vorrei ricordarlo perché al momento attuale non è troppo grande e ciò che definiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, eppure nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità».
Il problema della verità venne fuori con una drammaticità che forse Musil non si aspettava nella serata di lunedì 24 giugno, il penultimo giorno del congresso. In mattinata la parte del leone era toccata a Boris Pasternak. Il poeta russo, che non si aspettava il clima acceso e pesante che cominciava ad aleggiare sui lavori del congresso, si limitò a un brevissimo intervento che inneggiava alla poesia.
Dopo aver atteso che terminasse la lunga e calorosa ovazione con cui lo salutarono i presenti, disse: «La poesia resta sempre qualcosa che si libra più in alto delle Alpi e giace al tempo stesso dovunque nell’erba, sotto i nostri piedi in modo che basta piegarsi per vederla e poterla afferrare. La poesia è qualcosa di troppo semplice per essere discussa in congressi e riunioni, è qualcosa che manifesta il destino felice dell’uomo, di colui che dispone dei doni benedetti del linguaggio.
E dunque più felicità ci sarà sulla terra, più facile sarà essere poeti». Fu Gaetano Salvemini che sollevò quello che costituì un imbarazzante momento di verità per tutto il congresso, il “caso Serge”. Lo scrittore anarchico russobelga, che aveva soggiornato a lungo in Francia prima di recarsi in Russia a fianco della rivoluzione bolscevica, si trovava deportato all’interno dell’Urss da quasi tre anni.
L’ultimo giorno del congresso il “caso Serge” tornò alla ribalta, grazie alla determinazione di Magdeleine Marx cui si associò il romanziere belga Charles Plisnier. Erenburg difese l’operato del governo sovietico e parlò della necessità di ogni rivoluzione di difendersi dai suoi nemici, mentre Anna Seghers cercò di screditare gli amici di Serge sostenendo che chi non parlava delle vittime del nazismo si mostrava per ciò stesso ostile all’Unione Sovietica. Il congresso si concluse con un clima dominante di umanesimo generico e contraddittorio ma caratterizzato soprattutto dal patronage politico che aveva aleggiato in tutte le giornate e che era costituito dalla conquistata egemonia comunista sull’intelligencija e dal ruolo di faro, guida e difesa dal fascismo che si attribuiva all’Unione Sovietica.
«Avvenire» del 25 novembre 2011

Benedetto XVI: il razionalismo del nostro tempo

Discorso durante un incontro in Germania il 24 settembre 2011
di Benedetto XVI
Il nostro mondo oggi è un mondo razionalistico e condizionato dalla scientificità, anche se molto spesso si tratta di una scientificità solo apparente. Ma lo spirito della scientificità, del comprendere, dello spiegare, del poter sapere, del rifiuto di tutto ciò che non è razionale, è dominante nel nostro tempo. C’è in questo pure qualcosa di grande, anche se spesso dietro si nasconde molta presunzione ed insensatezza. La fede non è un mondo parallelo del sentimento, che poi ci permettiamo come un di più, ma è ciò che abbraccia il tutto, gli dà senso, lo interpreta e gli dà anche le direttive etiche interiori, affinché sia compreso e vissuto in vista di Dio e a partire da Dio. Per questo è importante essere informati, comprendere, avere la mente aperta, imparare. Naturalmente, fra vent’anni saranno di moda teorie filosofiche totalmente diverse da quelle di oggi: se penso a ciò che tra noi era la più alta e la più moderna moda filosofica e vedo come tutto ciò ormai sia dimenticato… Ciononostante non è inutile imparare queste cose, perché in esse ci sono anche elementi durevoli. E soprattutto con ciò impariamo a giudicare, a seguire mentalmente un pensiero – e a farlo in modo critico – ed impariamo a far sì che, nel pensare, la luce di Dio ci illumini e non si spenga. Studiare è essenziale: soltanto così possiamo far fronte al nostro tempo ed annunciare ad esso il logos della nostra fede. Studiare anche in modo critico – nella consapevolezza, appunto, che domani qualcun altro dirà qualcosa di diverso – ma essere studenti attenti ed aperti ed umili, per studiare sempre con il Signore, dinanzi al Signore e per Lui.
Postato il 27 novembre 2011

25 novembre 2011

Stampa vergognosa ...

Le reazioni della stampa al nuovo governo Monti
di Francesco Toscano
Il 16 novembre 2011 il nuovo governo Monti giura davanti al presidente Napolitano e ieri, 24 novembre, c'è la prima uscita europea del nuovo Presidente del Consiglio.
Oggi il Corriere della Sera titola "Riforme impressionanti" e lascia intendere che l'Europa apre le porte all'Italia, di nuovo protagonista, dopo mesi, forse anni, di vergognosi ritardi economici ...

Mi sembrano possibili due interpretazioni:
1) la stampa ci sta prendendo per cretini. Come è possibile che i giornali inventino delle "riforme impressionanti" di cui nessuno ha parlato, che nessuno ha fatto, che nessuno sarebbe riuscito a fare, ma che - miracolosamente - ci hanno riammesso fra i grandi d'Europa?
2) la finanza mondiale ci sta prendendo per cretini. La presenza italiana in Europa, definita fino ad un mese fa come "partecipazione indegna" o altri epiteti del genere, nel giro di una settimana sia diventata "impressionante"?

In ogni caso, siamo dei cretini!
Postato il 25 novembre 2011

23 novembre 2011

I partiti del futuro? Rubano le idee al nostro medioevo

Liberali, cattolici, federalisti, progressisti: tutti attingono all’epoca dei Comuni, sfruttandone simboli e cultura
di Matteo Sacchi
Ma che anno è, politicamente parlando? I nazionalisti baschi arrivano nel parlamento spagnolo a reclamare indipendenza in una lingua che non è nemmeno indoeuropea. In Italia e nel mondo si è a lungo discusso di Robin Hood Tax (piaceva a Giulio Tremonti). Quando si ragiona di Europa la discussione è tutta sulle radici, e non manca mai chi rimpianga l’Impero e Carlo Magno. Se l’Occidente non sta iniziando una crociata verso l’Islam di sicuro c’è chi, nel mondo musulmano, proclama la guerra santa. Mentre i buonisti che lo scontro di civiltà non lo vogliono relativizzano, tornando al diritto delle genti, allo Ius commune e alla Shari’a, fregandosene bellamente della visione assoluta dei diritti dell’uomo figlia dell’illuminismo. Ovviamente senza contare i dotti professori (dai liberali ai cattolici stile Paolo Prodi) che elogiano il Medioevo del diritto, e dicono che alla fine il vero mostro è lo Stato che si impossessa di tutto. E sin qui abbiamo elencato solo cose serie: ci sono quelli che vogliono coltivare tutto biologico come se fossimo nel XIII secolo, quelli che scappano nei boschi degli Appennini a vivere come gli elfi, i geometri con lo spadone in stile leghista, quelli che elogiano le virtù terapeutiche delle pietre come nei lapidari e nei bestiari d’antan, quelli che il medioevo è l’apocalisse di domani e stanno già mettendo via i proiettili di scorta per la carabina ...
Ecco è proprio di questo sfasamento temporale, in cui l’Età di Mezzo diventa un mito da tirare per la cotta di maglia sino a plasmarla per supportare qualsiasi scelta politica o moda sociologica, che si occupa Tommaso di Carpegna Falconieri nel suo saggio Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati (Einaudi, pagg. 344, euro 19). E che questa «Età barbara» buona per tutte le stagioni non abbia molto a che fare con la realtà storica Di Carpegna Falconieri, che è medievista di razza (Il clero di Roma nel medioevo, Cola di Rienzo, L’Uomo che si credeva il re di Francia), lo sa benissimo. Però a volte le distorsioni ideologiche sono più importanti dei fatti. Non ci diranno granché sul passato ma ci dicono molto sull’oggi.
Intanto Di Carpegna Falconieri smonta subito un luogo comune: il medioevo di Destra e la Sinistra, al contrario, lanciata verso le sorti magnifiche e progressive figlie di Voltaire&Co. Se la destra è fantasy senza vergogna, la sinistra lo è in maniera meno evidente ma assai profonda. Soprattutto quando si tratta di scrittori e intellettuali. Qualche esempio? A Woodstock Joan Baez cantava davanti ai figli dei fiori Sweet Sir Galahad, Francesco Guccini parlando di Praga va subito a pescare Jan Hus e Dario Fo si è costruito un medioevo tutto suo. Non parliamo poi di Umberto Eco. E in America perché Obama è buono? Perché è «Obama Hood». Ed è proprio sul bandito di Sherwood (la rossissima Radio Sherwood ve la ricordate?) che si registrano le maggiori convergenze/divergenze tra destra e sinistra. Il bandito è un eroe che piace a tutti ma a sinistra è un campione del popolo (conquista con quel suo rubare ai ricchi e dare ai poveri), a destra un legittimista che si batte per restaurare il potere buono della corona contro Giovanni l’usurpatore. Abbastanza per scatenare la discussione storiografica su un’uomo che forse non è esistito... I cattolici? Beh, loro hanno Frate Tuc che va bene per ogni stato. E via così tra il Ku Klux Klan che esalta i templari e i sindacalisti che fanno dei Ciompi i primi eroi del proletariato. Non parliamo poi di guelfi e ghibellini... Vi sembra un dedalo simbolico inestricabile? Un po’ davvero è così. Lo stesso Di Carpegna Falconieri scrive: «Quando ho intrapreso questo lavoro avevo le idee più chiare di quando l’ho terminato». L’unico fatto certo e incontrovertibile è che il medievalismo è «un contenitore di dimensioni talmente ampie che ciascuno di noi se lo ritrova davanti continuamente».
Quanto al perché: una risposta ci arriva da un altro studioso del ramo Massimo Arcangeli (autore de Il Medioevo alle porte) chiacchierando sul libro di Carpegna Falconieri ci dice: «Siamo tornati al Medioevo perché il politicamente corretto che è l’ultimo cascame del neo illuminismo ha smosciato tutto. Si è trasformato in una dittatura reazionaria e quindi una certa idea di Medioevo è la ovvia risposta. Si recupera la contaminazione, l’irrazionale, il mito, ci si reimpossessa della parte oscura, sporca anche... Comunque di quella parte che non è schiava di una logica univoca e manichea...». Insomma, che si rivaluti il maso chiuso o i cantoni svizzeri e il loro federalismo alla fine il medievismo diventa uno spazio libero in cui reinventare la politica, un po’ come faceva Raymond Queneau con il Duca d’Auge, giocando con le parole e con i sogni.
«Il Giornale» del 23 novembre 2011

Il ritorno dello scontro ideologico

di Massimo Gramellini
Molti lettori sono rimasti sorpresi, e in qualche caso persino offesi, dai giudizi negativi che Nichi Vendola ha espresso sul programma economico del governo Monti nell’intervista a «Che tempo che fa». Perché il presidente della Puglia fa di ogni erba un fascio, anziché sostenere lo sforzo di persone serie e competenti che cercano di rimediare ai danni d’immagine e di sostanza compiuti dai predecessori?
Il loro stupore è indicativo di quanto sta succedendo nelle teste degli italiani dopo la caduta di Berlusconi.
Per vent’anni la politica da noi è stata un referendum pro o contro una persona fisica. Cosa pensassimo del capitalismo finanziario o delle energie alternative era di importanza secondaria rispetto al fattore dirimente: l’accettazione o il rifiuto del populismo berlusconiano. Quest’anomalia ha prodotto alleanze tattiche e ambiguità inevitabili, alimentate dal fatto che i principali campioni dell’anti-berlusconismo (da Travaglio a Di Pietro) non erano di sinistra.
Ora che la polvere sollevata intorno a quella personalità eccessiva comincia a diradarsi, le idee tornano ad avere un nome e ci si ricomincia a dividere non sull’antropologia, ma sulla politica. Così lo stesso compagno Vendola che ancora un mese fa a «Ballarò», Berlusconi imperante, discettava con Fini circa una loro possibile alleanza, sulla poltrona di Fazio è tornato a indossare i panni dell’anticapitalista che in Monti vede il liberismo presentabile, ma pur sempre il liberismo: sensibile più alle ragioni del profitto che a quelle dell’ambiente o della giustizia sociale.
Dopo vent’anni di deriva populista c’eravamo dimenticati che in tutto il mondo esiste anche un liberalismo conservatore: serio, colto, perbene. E minoritario, almeno in Italia, perché minoritaria è la borghesia che lo esprime. Fu questo il cruccio di Montanelli e la vera ragione del suo dissidio con Craxi e poi con Berlusconi, che davano voce a un altro genere di borghesia, arrembante e spregiudicata. Forse però ci eravamo dimenticati che esiste anche una sinistra anticapitalista, indisponibile a stilare un programma coerente di governo con altre forze progressiste che pur contrastando Berlusconi accettano la Borsa e le banche. Il Sistema, insomma, e le sue regole del gioco. Quel Sistema e quelle regole che gli indignados italiani, di cui Vendola punta a farsi portavoce, vogliono abbattere perché lo considerano esaurito e ormai espulso dalla storia. In cambio di cosa non è ancora chiaro, visto che il comunismo è morto. Keynes è morto e anche lo Stato Sociale non si sente tanto bene.
Quando Bersani minimizza le divisioni a sinistra, sostenendo che Obama e Clinton, pur stando nello stesso partito, hanno posizioni divergenti su molti temi, dimentica di aggiungere che i due presidenti democratici americani sguazzano entrambi nel capitalismo, mentre Vendola lo vuole superare. Il nodo è tutto lì. Ed è quel nodo che fa dire, a chiunque osservi senza pregiudizi la situazione delle forze in campo nel dopo Berlusconi, che oggi esistono un partito antieuropeista, la Lega, un partito anticapitalista, Vendola più un pezzo di Pd, e in mezzo due democrazie cristiane. Una un po’ più di destra e l’altra un po’ più di sinistra, che non avendo abbastanza voti per vincere in solitudine né abbastanza sintonia d’idee con i partiti estremi per fare squadra con loro, saranno condannate in futuro a governare insieme.
«La Stampa» del 22 novembre 2011

Alluvioni? I Romani erano meglio di noi

di Lauretta Maganzani
«Proprio in quel tempo il Tevere o per la pioggia abbondante caduta un po’ a nord di Roma o per il forte vento che spirando dal mare spingeva indietro la sua corrente o, più probabilmente, per la volontà di qualche dio, come si sospettava, all’improvviso straripò con tale violenza da inondare tutti i luoghi bassi della città e raggiungere molte delle località più alte. I muri delle case, che erano fatti di mattoni, si inzupparono d’acqua e precipitarono, e tutte le bestie morirono annegate. Tutti gli uomini che non fecero in tempo a rifugiarsi su luoghi elevati, morirono».
«Una paura particolare sia per il disastro attuale che per il futuro (venne) da un’improvvisa inondazione del Tevere, che con uno smisurato ingrossamento, abbattuto il ponte Sublicio e riversatosi per la rovina della diga contrapposta, allagò non solo le parti basse e piane della città, ma anche quelle sicure contro sciagure di tal genere; molti furono trascinati fuori dalla pubblica via, parecchi furono sorpresi nelle osterie e nelle camere da letto. Fra il popolo dilagò la fame, la povertà e la carestia. Le fondamenta dei caseggiati furono danneggiate dalle acque stagnanti». Se non fosse per il richiamo alla volontà divina come una delle possibili cause della furia delle acque, che poco si avvicina alla mentalità moderna, questi resoconti si adatterebbero bene alle alluvioni che in questi giorni travolgono le nostre città e ci lasciano attoniti e inorriditi davanti ai teleschermi. Si tratta infatti di resoconti storici di fatti analoghi avvenuti a Roma antica nel 54 a.C. e nel 69 d.C. e ne sono autori rispettivamente gli storici romani Cassio Dione e Tacito. Del resto, nella sola capitale, dal 414 a.C. al 398 d.C. le inondazioni del Tevere furono poco più di una trentina e ciascuna lasciò nella popolazione un’indelebile impressione di impotenza a fronte della violenza incontrollabile della corrente: una drammaticità che fa eco nelle riflessioni dei giuristi romani, dove le inondazioni vengono descritte come casi di «forza maggiore cui è impossibile resistere» e come fenomeni ammantati di un vigore divino, visto che nessuno sforzo dell’uomo è in grado di contrastarli.
Ma, nonostante questa consapevolezza, i Romani non mancavano di intervenire sulla prevenzione, non solo con interventi di pianificazione territoriale su larga scala, ma anche stimolando nei privati una vera e propria «presa di coscienza collettiva» così da mettere ogni cittadino in condizione di cooperare per quanto possibile all’interesse generale. Ciò avveniva non di rado per intervento del pretore, il magistrato giurisdizionale dotato di imperium che, col suo editto, poteva intervenire coattivamente nella vita dei singoli e imporre loro l’osservanza di alcune regole di rispetto.
Qualche esempio: i Romani sapevano che, per contrastare le inondazioni, occorre in primo luogo rimuovere i materiali solidi e la vegetazione dal letto del fiume per il ripristino del suo regolare deflusso. Sapevano, infatti, che l’accumulo di detriti e la formazione di vegetazione in alveo o di alberi pericolanti sulle rive riducono la capacità di smaltimento nella rete delle portate in transito e quindi inducono le tracimazioni. Per questo, come ci racconta Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., un pretore di età repubblicana diede ai privati la possibilità di agire in giudizio nell’interesse generale contro quell’appaltatore che, nonostante l’impegno assunto verso la collettività, non avesse eseguito il lavoro a regola d’arte. I Romani erano anche consapevoli che l’erosione delle sponde poteva, col trasporto dei detriti, alterare l’equilibrio energetico del fiume e, alla prima pioggia, causare inondazioni a valle: per questo favorivano la cosiddetta munitio riparum, cioè il rinforzo delle sponde, ben consci che quest’opera rispondeva anche all’interesse generale benché normalmente fosse effettuata dai proprietari rivieraschi privatamente e per propri interessi personali.
Questa munitio riparum si effettuava, per esempio, mettendo a dimora in riva colture arboree ed arbustive contro l’attività erosiva del fiume, oppure effettuando la manutenzione di argini naturali o realizzandone di artificiali anche con materiali rudimentali reperiti in loco (legno, pietra). Tali interventi sono spesso documentati dalla ricerca archeologica. Ebbene, lo scopo di tutelare la munitio riparum era realizzato dall’editto del pretore attraverso un’apposita prescrizione (il cosiddetto interdictum de ripa munienda) che colpiva chiunque in qualunque modo impedisse ad altri privati di effettuare lavori di rafforzamento delle rive: anche qui si vede come, nell’ambito del tribunale del pretore, venissero imposte ai privati regole giuridiche tese a supportare gli interventi di carattere tecnico contro le inondazioni.
Passando, infine, all’ambito rurale, possiamo ricordare gli eccezionali sforzi dei geometri romani per il drenaggio delle acque superficiali e l’irreggimentazione dei fiumi, finalizzati a potenziare al massimo le capacità produttive del territorio ma anche a limitare gli effetti disastrosi delle piene. Questo avveniva talvolta con la deviazione dei fiumi in canali secondari, a loro volta distribuiti in una rete capillare di canalette destinate all’irrigazione dei singoli poderi: ma anche qui la collaborazione dei privati era essenziale perché, senza un’adeguata pulizia dei canali, si sarebbe aggravato il rischio delle piene. È noto, inoltre, che i Romani solevano lasciare al fiume, soprattutto nei meandri, bacini laterali di espansione privi di edifici, proprio al fine di proteggere dalle piene gli abitati rurali delle vicinanze, spesso situati sulle alture.
Certo, come ricorda Plinio il Vecchio alludendo alle piene del Po, difficilmente tali opere si rivelavano risolutive a fronte dell’impeto inarrestabile dei grandi fiumi, ma ad ogni catastrofe seguiva la ripresa del controllo antropico sul territorio perché – come dice Strabone a proposito del Po – «l’esperienza supera anche le più grandi difficoltà». Viceversa, in età tardo-antica, con la diminuzione del presidio umano sulle aree fluviali, le coltivazioni lasciarono per lo più il posto all’incolto, alle selve e alle paludi e le opere di regimazione, senza la necessaria manutenzione, persero d’efficacia o addirittura favorirono gli impaludamenti.
Senza voler a tutti i costi idealizzare il mondo antico, è importante imparare sul punto la lezione dei Romani: al di là della gestione dell’emergenza, la prevenzione esige l’elaborazione e l’imposizione ai privati da parte della pubblica autorità di semplici e funzionali regole di rispetto, in modo che ciascuno sia messo in condizione di operare nel suo piccolo per far fonte in comune ad un problema di portata generale.
«Avvenire» del 23 novembre 2011

Il fiore nero della violenza e il suo inquieto antidoto

La cronaca che ci turba e ci riguarda
di Davide Rondoni
Cosa ti succede Italia? Cosa sta sfigurando il tuo volto? La crisi? Le segrete e manifeste cupidigie di coloro che ammucchiano soldi affossando popoli e nazioni? No, non si tratta innanzitutto di questo. Ti sta sfigurando la violenza. Un Paese più povero non è necessariamente un Paese peggiore.
Ma un Paese più violento è un posto invivibile. Manca l’aria a veder in giorni come questi fatti di cronaca violentissimi.
Violenza banale. Efferata e micidiale. Violenza di furti miseri. Di assalti senza nessun rispetto, nemmeno per l’età. E violenza esplosa nella grande futilità di liti da parcheggio. Donne uccise da quasi ex amanti. Persone uccise per rapine scarse. Gente investita da auto usate come arma. In molti casi ce la caviamo pensando: si tratta di raptus. Hanno perso la testa. Come se la testa si perdesse tutta d’un colpo. E non progressivamente, millimetricamente tutti i giorni, tutti i minuti un poco. Il fiore amaro e inguardabile della violenza non spunta improvvisamente nei cervelli e nel petto. La pianta velenosa della violenza cresce in mezzo alla malora che smangia piano piano il cuore e la mente. Non si dica: è impazzito. Non si dica: sono diventati delle bestie. Non accade all’improvviso. Il gesto violento è l’ultimo gesto di una serie di pensieri, di mezzi pensieri, di omissioni, di immaginazioni.
La violenza è nutrita da linfe quotidiane. Non è un affare semplice. Gli antropologi ce lo spiegano. La violenza non viene dal nulla. È una presenza latente in ognuno di noi. Una possibilità. Qualcosa che giace in noi come un cane che dorme. O meglio un seme di inarrestabile forza. Se lo innaffi tutti i giorni un poco, poi non devi stupirti se questo mostro un giorno, per una sciocchezza, ti domina. Quella circostanza si aggiunge a montagne di sciocchezze vissute innaffiando il seme buio. Così 'd’improvviso' la pianta velenosa ti domina ed esce dalla bocca e dalle braccia, esplode il suo frutto nel cuore. E tu non sei più un uomo, ma una macchina da guerra. Per pochi istanti, un’ora, un minuto. Ma a volte basta questo per compiere – lo abbiamo visto – gesti irreparabili. Dalle lunghissime, inguaribili conseguenze.
La violenza viene dal cuore delle persone e quindi dal cuore delle società. Non sboccia fiore nero e orrendo nel vuoto, ma è rampicante silenzioso e inarrestabile. Arriva a coprire gesti che dovrebbero essere normali, come cedere un parcheggio, a inghiotte circostanze che dovrebbero essere occasione di pazienza, come la fine di un amore.
Stiamo nutrendo questo rampicantissimo fiore nero, e quel che è peggio senza accorgercene. Lo stiamo coltivando giustificandoci tutti i giorni, fino al giorno dove accade l’ingiustificabile. I colpevoli di questi recenti atti di violenza non sono quasi mai mostri usciti da circhi dell’orrore. Non erano quasi mai riconoscibili, 'prima'. Segni particolari nessuno. Finchè non è uscita dalla mente e dalle braccia la malapianta nutrita tutti i giorni. Coltivata addirittura con qualche velo della innocenza presunta, garantita da abitudini, dal 'così fan tutti', da tante piccole irresponsabilità. Facendo finta di esserne immuni. Come se la violenza fosse una malattia solo di certe fasce, di certe figure, di certi quartieri. Di certa gente che non siamo noi. E invece no, l’Italia sta diventando violenta. E il contrario della violenza non è la quiete degli imbelli. Né l’utopia di chi immagina un mondo privo di violenza, e nemmeno la forza della polizia. Il contrario della violenza è un’altra forza, più energica: quella della costruzione.
In un’epoca in cui sentiamo quasi solo intellettuali, pubblicitari, cronisti, programmi bravi a corrodere, a spaccare, ad avvilire, distruttivi non ci si può stupire se langue la forza della costruzione e alligna maggiore forza di violenza. Quando si costruisce c’è meno spazio per le erbacce, per i rovi, per le piante velenose. Avvertiva un grande poeta: «Uomini siate non distruttori». E i poeti sono profeti realisti.
«Avvenire» del 23 novembre 2011

20 novembre 2011

Bimbi ai tempi del web: l'Italia ultima a scoprirlo

di Luciana Cimino
A che età mettere i bambini davanti al web, e in che modo? E poi, che rapporto hanno i genitori italiani con le nuove tecnologie? La scuola e i professori sono pronti ad accompagnare gli studenti nell’uso consapevole dei nuovi mezzi di comunicazione? Sono alcune delle domande che si pone un’indagine realizzata in 25 paesi europei nell’ambito dal Safer Internet Programme della Commissione Europea.
Dall’indagine emerge come i bambini e gli adolescenti italiani abbiano minori competenze digitali rispetto ai loro coetanei europei e i loro genitori siano meno consapevoli dei rischi sperimentati sul web dai propri figli (l’81% dei genitori i cui bambini hanno ricevuto messaggi offensivi on line non ne è a conoscenza contro il 56% della media europea; il 67% dei genitori, contro una media europea del 61%, ignora che i propri figli hanno incontrato, faccia a faccia, persone conosciute on line). Ed ancora: gli insegnanti italiani sono in Europa quelli meno coinvolti nelle attività on-line degli studenti (65% contro una media del 73%). Partendo da questi dati la Società Italiana di Pediatria (Sip) ha lanciato ieri il “Manifesto per un uso positivo e sicuro del Web”, che contiene proposte per rafforzare le competenze digitali dei bambini e degli adolescenti italiani non solo per prepararli ad un futuro competitivo ma soprattutto per ridurre i rischi associati all’uso della rete.

GLI STATI GENERALI DELLA PEDIATRIA
L’occasione per discuterne sono gli Stati Generali della Pediatria in corso: 18 tavole rotonde che si svolgono in contemporanea in altrettante regioni italiane, nel corso della Giornata mondiale del bambino e dell’adolescente. Con il coinvolgimento di genitori, giornalisti, magistrati, istituzioni, insegnanti e forze dell’ordine. «Come pediatri sentiamo il dovere di impegnarci per promuovere un uso più utile e sicuro del web, un obiettivo che richiede il coinvolgimento di tutti i cosiddetti “stakeholders” che ruotano attorno al bambino, soprattutto genitori e insegnanti - commenta il presidente della Sip Alberto G. Ugazio - Centrale, in particolare, è il ruolo della scuola sia per favorire una maggiore “alfabetizzazione digitale” sia per offrire un supporto conoscitivo ai genitori, spesso meno capaci dei figli di navigare sul web».

ITALIA IN RITARDO
Dall’indagine europea risulta infatti evidente come l’Italia sia debba ancora fare molta strada nel suo rapporto tra minori e internet. Nel dettaglio scopriamo infatti come da noi si cominci a navigare più tardi (a 10 anni contro i 7 di Danimarca e Svezia) e da soli, nella propria stanza, senza la supervisione di un adulto. Molti gli usi positivi della rete: le attività online riguardano per l’85% ricerche scolastiche, l’83% utilizza internet per giocare, il 76% per guardare video, il 62% lo usa per comunicare con gli amici tramite messaggistica istantanea. In media il 59% degli intervistati (il 57% in Italia) ha un profilo personale su social network, che conquistano anche i più piccoli, nonostante il divieto di alcuni, come Facebook, ai minori di 13 anni. Hanno profili personali il 26% dei ragazzi tra i 9-10 anni e il 49% tra gli 11 e i 12, fino ad arrivare al 73% tra i 13-14 anni e all’82% tra i 15-16 anni.

PERICOLI IN RETE
Ma non mancano le insidie. Il 41% dei ragazzi si è imbattuto in contenuti o contesti potenzialmente pericolosi, il 12% dichiara di esserne stato turbato. Pornografia, bullismo, sexting (messaggi o immagini a sfondo sessuale inviati da coetanei), incontri offline con persone conosciute online, contenuti inneggianti anoressia, odio, droghe, suicidio, internet addiction, riguardano una fetta altissima del campione. Per quanto riguarda l’alfabetizzazione digitale e il possesso di specifiche competenze che garantiscono una maggiore sicurezza nella navigazione, i ragazzi italiani sono all’ultimo posto dopo la Turchia, preceduti da Romania, Ungheria, Cipro. Tra i genitori poi c’è molta approssimazione e incompetenza. Due dati su tutti: il 73% dei genitori ritiene non vi siano nella rete pericoli di incontri che possano turbare i minori e nel complesso il 36% dei ragazzi ritiene di saperne di più su Internet rispetto ai propri genitori. Anche sulla scuola siamo all’ultimo posto: il massimo coinvolgimento tra professori, rete e studenti si registra in Norvegia (97%) il minimo in Italia (65%). «Politiche orientate soltanto a limitare l’esposizione ai rischi online sono dannose perché rischiano di acuire il divario digitale - dicono dalla Sip - Occorre invece promuovere usi positivi della rete, fornire ai ragazzi le conoscenze e gli strumenti necessari per affrontare i rischi. La media education deve diventare una priorità dei percorsi formativi della scuola italiana». Per questo la Società italiana di Pediatria ha promosso un Manifesto di «proposte concrete» da sottoporre a governanti e educatori. Tra queste, rendere la banda larga disponibile ovunque, mettere una lavagna interattiva multimediale in ogni classe, integrare i materiali didattici con gli e-book, avvicinare i bambini all’uso del pc fin dalle elementari, promuovere la formazione sulle nuove tecnologie di insegnanti e genitori, favorire le lezioni sul web.
«L'Unità» del 20 novembre 2011

Quelli che la tecnocrazia proprio non la vogliono

Il dibattito su cosa legittima il potere. Da Heidegger a Prezzolini, ecco la destra (e non solo) che ha rivendicato il primato della politica
di Gennaro Sangiuliano
Max Weber, celebrato e riconosciuto fondatore della sociologia moderna, pur avendo forgiato la nozione di pubblica amministrazione in Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland pone il tema del controllo politico della burocrazia auspicando la formazione di un tipo di uomo politico che fosse in grado di subordinare l’apparato burocratico alla direzione politica. La vera democrazia - per Weber - non è quella dei burocrati irresponsabili e privi di un mandato popolare e, infatti, scrive: «Il monarca crede di governare da sé, mentre in realtà la burocrazia gode del privilegio di poter comandare, coperta da lui, senza controllo e senza responsabilità. Il monarca viene lusingato e gli viene mostrata l'apparenza romantica del potere, poiché egli può cambiare a propria discrezione la persona del ministro».
«Sovrano è chi decide nello Stato di eccezione». Partendo da questa sua affermazione, Carl Schmitt ritiene che un’autentica democrazia debba fondarsi sull’omogeneità di un popolo, dove la politica è in primo luogo un «sistema metafisico» che porta le idee dei cittadini al potere. Così si esprime ne Il custode della costituzione (1931) e in Legalità e legittimità (1932).
C’è una lunga linea di pensiero, radicata soprattutto nella filosofia del diritto, che pone in seria discussione la tecnocrazia e per essa l’affermarsi di poteri invisibili che non sono radicati in quelle che Rousseau e Sieyes definiscono «volontà generale» e «volontà della nazione». Del resto l’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, afferma: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa». Thomas Mann, che pure si esercita nelle Considerazioni di un impolitico, mette in guardia dalla carica antipolitica che genera disgregazione dell’autorità nazionale, non lontano dallo Schmitt di Diktatur und Belagerungszustand e da quanto affermerà Jürgen Habermas.
Giuseppe Prezzolini, ebbe chiari i potenziali pericoli della tecnocrazia europea. Nel 1979 quando si svolsero le prime elezioni a suffragio diretto per il Parlamento europeo commentò caustico: «Concludo che se io dovessi o volessi e potessi votare pro o contro l’Europa unita, io, che pure o più di un diritto di chiamarmi “europeo”, voterei contro un’Europa fatta così artificialmente e superficialmente come è stata concepita da coloro che l’hanno ideata con la testa riempita di nuvolosi teorici».
Qualcuno pensa di poter concepire una democrazia «agnostica», basata su regole astratte e formali. Il tema è quello della contrapposizione fra una democrazia formale e una sostanziale, incline alla partecipazione viva del popolo e sensibile alle tradizioni culturali. Martin Heidegger offre un solido retroterra filosofico a questa «democrazia dell’essere» quando richiama il comando (Führung); il popolo (Volk); l’eredità (Erbe); la comunità dei seguaci (Gefolgschaft); il radicamento alla propria terra (Bodenständigkeit).
La comunità politica che costruiamo non può non tener conto del «primato ontologico del problema dell’essere», in altre parole: di ciò che noi siamo per tradizione. Augusto Del Noce in un suo celebre saggio coniò il termine «transpolitico» per indicare una dimensione profonda che sedimenta nella coscienza dei popoli. Sulla stessa linea Oswald Spengler che, per primo, nel Tramonto dell'Occidente sottolinea la decadenza dell’uomo europeo, perso alla ricerca di un universalismo indefinito, basato su regole astratte. Sempre Spengler propone quindi una critica serrata alla tecnocrazia (che è «l’opposto della vita») alla quale contrapporre un’idea tradizionale di Europa culla della cultura occidentale.
Se è vero che molti tecnocrati si vestono da uomini di cultura - e qualche volta lo sono - bisogna osservare che la cultura profonda ha radicato in secoli di riflessione e speculazione la centralità del popolo e della sua di volontà di governo della res publica.
«Il Giornale» del 20 novembre 2011

Adesso Frau Merkel avrà un suddito in più

Il governo Monti ha già rinunciato a gover­nare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria te­desca che è all’origine dell’attuale disa­stro finanziario...
di di Giuliano Ferrara
Il governo Monti ha già rinunciato a gover­nare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria te­desca che è all’origine dell’attuale disa­stro finanziario capace di scuotere fatalmente il futuro della moneta comune e dell’Unione: non c’è ragione, ha detto il professore,di intro­durre cambiamenti nel ruolo della Banca cen­trale europea. Fatto, anzi disfatto. Governare vuol dire prendere un problema e risolverlo, af­frontare le questioni strategiche e non limitar­si al minimalismo. Il problema d’emergenza in nome del quale è stato tolto di mezzo Berlusco­ni, capo di un esecutivo eletto, e rimpiazzato con un ministero parlamentare vecchia scuo­la, per di più tecnico e connotato fin dall’origi­ne da uno sfregio alla sovranità nazionale trave­stito da cortesia e incoraggiamento europei, il governo del Preside con il suo Consiglio di fa­coltà, si chiama «titoli pubblici di debito dello stato italiano espressi in euro». Gli eccessivi rendimenti richiesti dal mercato finanziario, la ormai famosa Lady Spread, sono un attenta­to progressivo al lavoro, alle imprese, alle fami­glie, e minacciano una crisi di liquidità capace di inchiodare all’immobilismo il sistema del credito e portarci dritti in recessione, con una tendenza deflazionistica di lungo periodo che confermerebbe, invece di invertirla, la cronica in­capacità di crescere a tassi di svi­luppo accettabili dell’economia reale italiana.
Questa la vulgata universalmente accettata. Que­sto il «FATE PRESTO» gridato in prima pagina dal giornale della Confindustria, poveretta. A scon­to dei catastrofismi demenziali e politicamente, anzi faziosamen­te, motivati, questa vulgata è an­che la verità.
Non è una verità piccola. Richie­de riflessione e coraggio rimette­re in discussione l’ortodossia ger­manica della moneta comune, che non è comune perché alla sua prima vera prova diventa un fatto­r­e di affossamento di mezza Euro­pa, Francia compresa, e di tutela della sola economia tedesca con la sua virtuosa possanza. Le cro­nache riferiscono che Berlino è di­visa: gli industriali sono tentati di cambiare le cose, perché sanno che le conseguenze della crisi da debito si faranno sentire anche per le loro esportazioni, ma la Cancelleria e le euroburocrazie modellate sulla Bundesbank so­no succubi della paura dell’infla­zione, che negli anni Venti pro­dusse la grande catastrofe tede­sca. Non solo, lo stato tedesco esprime una concezione del mer­cato, la famosa «economia socia­le di mercato» di cui Monti è testi­mone accademico per l’Italia, che è in flagrante contraddizione con la mondializzazione della re­te finanziaria e con la scelta di da­re una moneta cosiddetta comu­ne a economie che non hanno molto in comune e che non di­spongono di un potere politico fe­derale in grado di armonizzarle nei loro pilastri: il welfare, le tas­se, la previdenza e la libertà dei commerci e della produzione dai lacci corporativi.
Lo scontro, sot­tolineato in questi giorni in modo clamoroso dall’invito pressante degli anglosassoni a cambiamen­ti radicali nella gestione della cri­si da debito dell’euro, è tra un mo­dello capitalistico di crescita e un modello socialistoide di stagna­zione, fondato su tasse e prelievi punitivi socialmente e concepiti nell’insana idea che il debito non è un problema, è una colpa. Ha scritto il Wall Street Journal, ed è solo l’ultimo caso tra mille, che «il fardello del debito italiano non ha le sue radici nei recenti eccessi del governo- specie se confronta­ti con altri paesi del mondo- ben­sì deriva in gran parte da politiche introdotte più di trent’anni fa, che posero le fondamenta per l’euro». Abbiamo al governo un campio­nario della classe dirigente che ha assecondato e messo in opera quelle politiche, che crede in quel modello, e che si appresta a fare del motto «tasse & equità» il nuo­vo mantra controriformista e illi­berale della nazione.
E invece gli italiani per tre volte avevano vota­to la libertà economica, che non ha saputo realizzarsi per i bestiali difetti e le anomalie della classe di­rigente berlusconiana. Con il pa­radosso che un governo inchioda­to al dottrinarismo rigorista cieco di Tremonti ora è sostituito, e di­cono senza ridere che sia per ga­rantire la cura della crescita, da un governo che di quel dottrinari­smo è il portavoce storico. Le vo­glio proprio vedere le riforme libe­rali di Monti. Voglio vedere come si trasformerà in sviluppo il ripri­stino di buoni rapporti protocolla­ri con la Merkel a Berlino.
Voglio vedere se andremo oltre la ricapi­talizzazione del debito pubblico, con una finta soluzione della cri­si, fatta tutta a spese del ceto me­dio e della povera gente. Comin­ciamo male, e se la destra non riu­scirà a definire una linea seria di uscita dalla crisi dopo la fase equi­voca del governo di tregua e di so­spensione della democrazia, fini­remo peggio.
«Il Giornale» del 20 novembre 2011

19 novembre 2011

Il bibliotecario che cataloga le guerre

Monumentale opera dell’americano White. Nel Libro nero dell’umanità ha schedato i conflitti della storia. Contando mezzo miliardo di morti
di Luigi Mascheroni
Come è noto, l’animale più sanguinario del pianeta è l’Homo sapiens. Il quale nella storia dell’evoluzione ebbe la meglio sull’uomo di Neandertal non perché più intelligente. Ma perché più cattivo. Sapiens e predatore.
L’istinto assassino e la sete di sangue sono nettamente superiori alla predisposizione alla solidarietà e al desiderio di conoscenza, la quale ultima è stata sempre al servizio della guerra. Dalla lancia a Internet, tutto è stato inventato prima di tutto con uno scopo, e con un’applicazione, «militare». Sei millenni di civiltà dimostrano che la cosa che i sapiens sanno fare meglio è combattere e uccidersi. E quanto «bene» siano stati capaci di farlo, a oggi nessuno si era dato la pena di calcolarlo. Si è sempre andati per approssimazione, tipo: «molti milioni». Ora invece qualcuno ha fatto la macabra conta. I cento eventi più sanguinosi della storia dell’umanità - dalle guerre persiane del V secolo a.C. passando per i 66 milioni di vittime della seconda guerra mondiale fino alle 300mila persone massacrate sotto il regime di Saddam Hussein - hanno causato 455 milioni di morti. Mezzo miliardo, cadavere più cadavere meno. Per usare un vocabolo scontato, un’ecatombe. Per usare un termine scientifico, un «emoclisma»: dal greco, inondazione di sangue. Quella che ha sommerso il pianeta, irrorandolo quotidianamente.
A proposito di espressioni tecniche. La contabilità dell’orrore (cinica dal punto di vista morale, utilissima da quello storiografico) rientra in una disciplina particolare, l’«atrocitologia». Cioè lo studio, il calcolo e la descrizione delle atrocità umane. Compito difficile, scomodo e oneroso. E un po’ folle, a dirla tutta. Infatti il massimo esperto in materia non è un compassato e serioso accademico, ma un metodico e paziente bibliotecario. Americano, naturalmente, perché solo gli americani possono essere così pragmatici. Si chiama Matthew White, di Richmond, Virginia, e 15 anni fa ha creato un famoso sito internet con un gigantesco Atlante storico del XX secolo; poi si è specializzato nel ramo «guerre», consultando le migliori fonti di statistica storica, fino a realizzare un monumentale Libro nero dell’umanità oggi tradotto anche in Italia (Ponte alle Grazie, pagg. 874, euro 23,50).
Guerre (315 milioni di morti, di cui 49 di militari e 266 di civili), oppressioni di re e dittatori (141 milioni), massacri ideologici (142 milioni), guerre di religione (47 milioni), crimini del comunismo (67 milioni), guerre civili (26 milioni), conflitti etnici (74 milioni)... E poi rivolte, imprese coloniali, guerre d’indipendenza, genocidi, rivolte, dittature. Tutto censito, verificato, schedato. E classificato.
Spulciando una bibliografia sterminata e compiendo uno studio comparivo che ha pochi precedenti (con mille aneddoti, curiosità e un tocco di humour macabro), il necrometrista Matthew White scheda in ordine cronologico le cento peggiori atrocità della storia, dalla seconda guerra persiana (480-479 a.C., bilancio: 300mila vittime) fino all’ultima guerra del Congo (1998-2002, bilancio: 3,8 milioni).
Spiegandoci, a esempio, che nella (leggendaria?) guerra di Troia, secondo un racconto presumibilmente redatto da un superstite troiano di nome Darete, restarono uccise circa un milione e mezzo di persone, eppure l’archeologia non ha scoperto nulla che indichi che in quel luogo si combatté una guerra così estesa. Così come è tutto da dimostrare (documenti alla mano) che la conquista musulmana dell’India, fra il 1000 e il 1700, fu, come scrivono alcuni storici, la vicenda più sanguinosa dell’umanità (anche la cifra di 50 milioni di Indù uccisi è un’esagerazione). In compenso, si scopre che al sesto posto della macabra classifica c’è la poco nota rivolta ottocentesca dei Taiping in Cina, con 20 milioni di vittime. Mentre le Crociate, solitamente additate come il conflitto religioso per antonomasia, costarono 3 milioni di morti. E la famigerata caccia alle streghe, a cui si è a lungo imputata una strage di 9 milioni di donne, dev’essere ridimensionata a qualche decina di migliaia.
Per il resto, al netto delle indecifrabili simpatie politiche dell’autore, Il libro nero dell’umanità ci offre dati molto utili per capire (nel caso fosse importante) se a uccidere più gente è stato il comunismo - che vince nella somma dei morti - i nazionalismi o le religioni o le tirannidi. E ci aiuta a rispondere alla domanda, più terribile, «Ma di quanto male sono stati capaci gli essere umani?». La risposta è mezzo miliardo. Di vite.
«Il Giornale» del 17 novembre 2011

Il marchio dello Struzzo ma l’imprimatur del Pci

Nei verbali delle mitiche riunioni del mercoledì la prova che la linea culturale dell’editore doveva conciliarsi con quella politica del partito
di Alessandro Gnocchi
C’è un passaggio chiave nei Verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952 (Einaudi, pagg. 532, euro 40), il volume che raccoglie le discussioni in cui l’editore torinese e i suoi collaboratori dibattevano di strategie culturali, libri da pubblicare, collaboratori da arruolare. Il 18 giugno 1945, Felice Balbo, Norberto Bobbio e Cesare Pavese affrontano il tema di chi dovrà curare la collana «I problemi italiani», dedicata alla situazione economica, politica e sociale. Agli atti finisce questa riflessione: «possono esservi anche due o tre soluzioni per ogni problema, sempre nell’indirizzo politico della Casa, ormai fatto di P.C., L.C. e di P.D.A., le sole ideologie, del resto, oggi vitali e che possono dare soluzioni di problemi secondo un reale piano costruttivo». Le sigle stanno per Partito Comunista, Movimento dei Lavoratori Cristiani e Partito d’Azione. La linea non potrebbe essere più chiara e, come si evince dai verbali, da quel momento è seguita con scrupolo anche quando questo implica pagare un pesante tributo all’ortodossia. Si spiegano così fatti noti di cui troviamo conferma in queste pagine, quali il rifiuto di pubblicare Nietzsche o il trattamento riservato allo slavista Renato Poggioli, reo di aver scritto, per l’antologia Il fiore del verso russo, un’introduzione che esprimeva dubbi sulla consistenza della letteratura sovietica e apprezzamento per i poeti censurati da Stalin. Il saggio fu accolto male dal Partito, cui fu sottoposto per preventiva approvazione, e apparve con una nota dell’editore che prendeva le distanze dall’operazione. Poggioli fu emarginato, addirittura i torinesi pensarono di far uscire un Nuovo fiore del verso russo come «antidoto» al suo lavoro.
In questo e in altri casi, la tassa da tributare al Pcus, oltre che al Pci, è molto alto. Elio Vittorini, ad esempio, vorrebbe preparare un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obiezioni». La risposta è «Niet». All’ambasciata dell’Urss è permesso di ficcare il naso nelle traduzioni di autori sovietici con questi risultati: «L’addetto culturale russo ha comunicato loro (Pietro Zveteremich e Gastone Manacorda, ndr) che non tutte le opere pubblicate prima del ’38-39 possono essere pubblicate in quanto non tutte gradite». Tale «niet», accettato, vuol dire rinunciare, tra gli altri, a Boris Pasternak. A lungo poi si pensa di ospitare interventi di filosofi e scrittori «eretici» per il canone Einaudi sulla rivista Risorgimento. La discussione riguarda soprattutto Benedetto Croce. I pareri sono discordanti ma si arriva alla conclusione che avere Croce tra le firme significa portarlo dalla propria parte o almeno evitare che continui a essere «strumento possibile di reazione o di eventuale lotta sul terreno politico». Insomma: Croce va bene ma solo per smorzare la carica anticomunista del suo pensiero. L’obiettivo dichiarato, senza troppi giri di parole, è «sfruttare gli intellettuali» a fini politici, cioè smussarne l’avversione al Partito.
L’egemonia culturale, dunque, fu tenacemente perseguita e fu ottenuta con gli strumenti dell’editoria. Dai Verbali esce anche il genio di Einaudi. Chi volesse buttarsi nel ramo qui può imparare molto. Einaudi si lamenta perché i collaboratori vogliono comprare troppi libri «già fatti». Errore grave. La Casa editrice deve innanzi tutto proporre volumi da realizzare ai vari autori. Altrimenti non c’è strategia. Viva è anche la preoccupazione per l’identità di ogni singola collana, che deve caratterizzarsi per una proposta netta: nascono da queste riflessioni gemme come i «Gettoni» di Elio Vittorini. Un occhio di riguardo è riservato al gruppone dei consulenti, nel tentativo di ampliarlo quanto possibile, anche a costo di avere troppi galli nel pollaio (ad esempio, si avverte una certa tensione fra Pavese e Vittorini).
Nei Verbali emerge con chiarezza la linea fissata dalla Casa editrice di Torino nel 1945. In fondo è ancora quella maggioritaria nella sinistra italiana. L’analisi politica di Einaudi e soci (formare un blocco sociale nel nome di comunismo, azionismo e cattolicesimo di sinistra) aveva allora una logica stringente, per quanto lontana dalla democrazia liberale. Nel 2011, non ha più senso. Il mondo è cambiato, e una parte del catalogo storico dello Struzzo, imbottito di saggi sulle conquiste della società sovietica, è lì a dimostrarlo. Il Pci non esiste più. Il Partito d’Azione pure. Anche l’egemonia culturale è finita: la proposta attuale dell’Einaudi, pur di alto livello, è assai generalista e meno definita rispetto a quella di editori di area diversa. Basta guardare il catalogo di Liberilibri, Rubbettino, Lindau, Cantagalli per capire che le idee affilate e coerenti vengono dalla cultura liberale e cattolica.
Tutto è mutato. Eppure i progressisti continuano a comportarsi come se avessero i piedi sotto al tavolo durante le riunioni del mercoledì. Lo statalismo soffocante, l’antipatia per il liberalismo, la chiusura verso il mercato, la concezione dello Stato come dispensatore di diritti, l’intellettuale militante: questa è l’eredità del comunismo. Il senso di superiorità antropologica discende invece dal moralismo Azionista, che distingue il Paese sano dal Paese malato, l’Italia onesta da quella retrograda e conservatrice. I Verbali insegnano che fare l’editore è un mestiere bello e difficile. E, indirettamente, che viviamo nel XXI secolo mentre la sinistra campa ancora sulle idee, solo un po’ annacquate, che gli einaudiani propugnavano nel ’45.
«Il Giornale» del 19 novembre 2011

Il catalogo delle atrocità

La ricerca
di Alessandro Zaccuri
Il senso della giustizia ereditato dal padre. E il senso dell’umorismo ricevuto in dono dalla madre. In mezzo, come risultato un po’ bizzarro dell’incontro fra queste due virtù, c’è lui, Matthew White della Virginia, a lungo bibliotecario di professione e oggi infaticabile collezionista di sterminii.
Suo è Il libro nero dell’umanità appena pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie (traduzione Massimiliano Manganelli con Valentina Sichenze, pagine 874, euro 23,50) e suo, prima ancora, è il sito in ostinato stile web 1.0 (lo si raggiunge all’indirizzo http://users.erols.com/mwhite28/index.htm) attraverso il quale ha da tempo iniziato ad allestire un dettagliatissimo atlante storico del XX secolo. Cifre e statistiche a non finire, comprese quelle dei massacri che hanno insanguinato il Novecento. Con relativo contorno di polemiche, richieste di rettifica, petizioni di principio.
L’idea di un volume che praticasse l’«atrocitologia» come scienza esatta è nata da lì. Intendiamoci, il neologismo è discutibile e del resto White mette le mani avanti fin dall’introduzione, avvertendo che «tutto quello che state per leggere è controverso». A partire dalla decisione di iniziare il conteggio dei cento peggiori orrori di tutti i tempi fin dall’antichità, superando le remore che di solito riguardando l’esattezza dei numeri forniti dagli storiografi greci e romani («I nostri antenati sapevano come contare pecore, bovini e denaro, e allora perché avrebbero dovuto improvvisamente dimenticarsene allorché si trattava di contare le persone?», obietta spiccio White).
Ma le questioni veramente delicate sono altre e l’autore del Libro nero dell’umanità, dotato com’è della tipica schiettezza anglosassone, non fa nulla per nasconderle. Quanto si arriva ad affrontare l’argomento del rapporto tra guerra, religioni e massacri, White prova a procedere per piccoli passi. «Nessuna guerra è al cento per cento religiosa (o al cento per cento qualcos’altro)», ammette, ma aggiunge che spesso la religione è l’unico elemento che differenzia due gruppi altrimenti omogenei, come accadde nella Jugoslavia degli anni Novanta. E poi la presenza della componente religiosa rimane innegabile in molti conflitti , anche perché sono gli stessi belligeranti ad appellarvisi. Per motivi di comodo, forse, ma presupponendo un indubbio potere di fascinazione.
Nel tentativo di conservarsi equanime sino in fondo, White evita di postulare un rapporto di causa-effetto simile a quello indicato da tanta pubblicistica neo-ateista (è il sofisma per cui ogni credo, e il monoteismo in particolare, sarebbe per sua natura guerrafondaio) e precisa addirittura che non sempre, quando si combattono popoli di religione diversa, la religione stessa è da considerarsi come casus belli.
Dopo di che, torna a occuparsi di numeri ed è qui che cominciano le sorprese. Perché la più grande strage a sfondo “religioso” è la cosiddetta rivolta dei Taiping, verificatasi in Cina tra il 1850 e il 1864, quando il presunto messia Hong Xiuquan – che si proclamava fratello minore di Gesù Cristo – guidò un’insurrezione anti-imperiale nel quale persero la vita 20 milioni di persone. Subito dopo, nella macabra classifica, incontriamo la guerra dei Trent’anni, che fra il 1618 e 1648 contrappose protestanti e cattolici in terra tedesca, lasciando sul suolo 7,5 milioni di vittime.
Seguono i cinque milioni e mezzo di ebrei sacrificati nella Shoah, che però White decide di conteggiare all’interno delle vittime della Seconda guerra mondiale, per la quale si arriva al raccapricciante totale di 66 milioni di caduti sui vari fronti (il che, per inciso, fa di Adolf Hitler il più spietato in assoluto fra i dittatori susseguitisi sulla Terra: l’atto d’accusa contro di lui si riferisce a 42 milioni di vittime). Alle Crociate, solitamente additate come il conflitto religioso per antonomasia, White imputa un probabile bilancio – comunque terribile, sia chiaro – di circa tre milioni di morti.
Effetto dell’imparzialità tipica dell’«atrocitologia», che obbliga a considerare la storia in una prospettiva veramente planetaria, in conseguenza della quale si scopre che la più sanguinosa tratta degli schiavi mai avvenuta fu quella che interessò il Medio Oriente fra il VII e il XIX secolo: in essa perirono 18 milioni e mezzo di persone, due milioni e mezzo in più rispetto al martirologio riferibile al commercio di esseri umani da e verso l’America. White tratta una materia inquietante, senza mai rinunciare a un tocco di humour (il lascito della mamma, ricordate?) che potrà forse apparire fuori luogo a qualcuno.
Ciò non toglie che Il libro nero dell’umanità sia un’opera tutta da discutere e sulla quale riflettere senza pregiudizi. Specie quando l’autore azzarda qualche considerazione generale. Questa, per esempio: le stragi più efferate derivano, anziché dalle dittature, dal caos scatenato in seguito al crollo dei poteri assoluti. Non sarà una buona notizia, ma di questi tempi tradisce una certa attualità.
«Avvenire» del 16 novembre 2011

I quattro peccati della postmodernità

di Pierangelo Sequeri
La denuncia del degrado antropologico indotto dai modelli culturali della società dei consumi e dello spettacolo è pressoché unanime. L’inerzia propositiva, però, è altrettanto generalizzata. Il sistema dominante del conformismo critico, d’altra parte, è occhiuto e minaccioso. Guai a chi è colto nel flagrante delitto di invocare forze proporzionate di reazione agli eccessi e di sviluppare forme di negazione determinata dei loro presupposti sistemici. La città brucia e impieghiamo la maggior parte del tempo a spiegarci tra noi. In ogni caso, siamo ormai in regime di dialogo permanente da un bel po’, ma l’accanimento delle parti per la pura difesa del diritto di stare in scena si aggrava ogni giorno. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde globalmente. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti.
In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile. In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza dell’umanesimo cristologico, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo, dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’Evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua moria dei primogeniti. Infine, c’è del lavoro urgente da fare: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. Chi ha qualcosa da dare, e voglia di lavorare per il riscatto della generazione, a qualsiasi popolo appartenga, sarà bene accetto.
La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, dal canto suo, disincanto del mondo, cultura impeccabile, passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: è un mondo che abbiamo contribuito a generare. Nel deserto del suo abbandono, il popolo si rassegna a farsi vitelli d’oro. Ormai c’è assuefazione. Ma l’idolo è sempre una faccenda di testa. L’idolo è un simbolo, un esorcismo: anche una passione vera che diventa ossessione di un dio falso. È di questi idoli «di testa» che voglio parlare. Individuo una priorità strategica. Scelgo quattro figure dell’idolatria culturale postmoderna la cui interdipendenza fa da moltiplicatore per un vasto indotto di superstizione: la fissazione della giovinezza, l’ossessione della crescita, il totalitarismo della comunicazione, l’irreligione della secolarizzazione. Evidentemente, in queste figure ci sono termini che evocano immediatamente oggetti e fatti che non hanno in sé nulla di demoniaco o di idolatrico. Questa è precisamente la serietà dell’insidia.
L’idolatria di maggiore successo si raccomanda proprio in virtù della sua apparente esaltazione di ciò che rappresenta una promessa di realizzazione buona del desiderio collettivo. Corruptio optimi pessima. L’eccellenza che si concede alla corruzione genera il peggio del peggio. La volontà di potenza che preme per travolgere il vincolo fra legame sociale e umanesimo etico, sotto il segno del progresso delle tecniche e dell’aumento delle risorse, ha individuato queste figure come simboli funzionali alla propria legittimazione. La testa del parassita, però, che ha piegato irresistibilmente verso l’idolatria il moderno umanesimo razionalistico della coscienza, ha una precisa identità. Lo indico come principio di autorealizzazione.
Nel passaggio all’autorealizzazione tecnologica dell’Io pensante, che lo ha travolto, si è innescata la deriva del nichilismo specifico della nostra contemporaneità: l’autismo etico dell’Io sentimentale. Eresia della verità cristiana della persona, il cui logos aveva aperto l’Occidente alla sua destinazione. Corruzione dell’umanesimo moderno, che ha requisito il pathos dell’immenso e felice lavoro della generazione, dirottandolo verso le tristi passioni di un ethos individualistico e predatore, che diventa nomos di massa. Le figure etiche dell’autodeterminazione (libertà di coscienza, potenza della volontà) ne sono state inquinate e stravolte: sottratte alla splendida giustizia del voler-bene; e indotte a lavorare, per la propria emancipazione, contro l’umano che è comune.
La civetteria postmoderna dell’intellettuale, che fornisce legittimazione all’individualismo etico, e giustifica criticamente l’intimidazione di ogni umanesimo difforme – soprattutto quello cristiano –, fa il lavoro della seconda Bestia. Le vittime designate per l’offerta al drago, come tutti sanno, sono ragazzi e ragazze. Non ne abbiamo mai consegnati così tanti. Noi, popoli cristiani d’Occidente, abbiamo meritato le conseguenze di questa ricaduta nel paganesimo. Ma ci è consentito un soprassalto di orgoglio: possiamo smascherare l’idiozia della cultura che pretende di rappresentarci, e aprire mille luoghi di liberazione dalla dipendenza dei signori delle tessere che ne traggono profitto. L’idolo del postmoderno non ci rappresenta. Ci sono rimasti assai più di dieci giusti, per convincere Dio, in favore delle generazioni che vengono, che non siamo così indegni dei doni ricevuti.
«Avvenire» del 17 novembre 2011

Benedetto XVI: il relativismo subliminale

Tratto dal discorso in Germania, pronunciato il 24 settembre 2011
di Benedetto XVI
Viviamo in un tempo caratterizzato, in gran parte, da un relativismo subliminale che penetra tutti gli ambiti della vita. A volte, questo relativismo diventa battagliero, rivolgendosi contro persone che dicono di sapere dove si trova la verità o il senso della vita.
E notiamo come questo relativismo eserciti sempre di più un influsso sulle relazioni umane e sulla società. Ciò trova espressione anche nell’incostanza e nella discontinuità di tante persone e in un eccessivo individualismo. Qualcuno non sembra affatto capace di rinunciare a qualcosa o di fare un sacrificio per altri. Anche l’impegno altruistico per il bene comune, nei campi sociali e culturali, oppure per i bisognosi, sta diminuendo. Altri non sono più in grado di legarsi in modo incondizionato ad un partner. Quasi non si trova più il coraggio di promettere di essere fedele per tutta la vita; il coraggio di decidersi e di dire: io ora appartengo totalmente a te, oppure di impegnarsi con decisione per la fedeltà e la veracità, e di cercare con sincerità le soluzioni dei problemi.
Postato il 19 novembre 2011

16 novembre 2011

Dietro la sindrome del complotto si nasconde il deficit di credibilità

di Massimo Nava
Hanno suscitato irritazione la maldestra offerta di Sarkozy di «sistemare» le cose in Italia e i suoi sorrisetti in coppia con la Merkel a Cannes, considerati sia mancanza di rispetto sia eccesso d' ingerenza. Però in questi giorni, una sorta di diktat europeo viene stigmatizzato anche a proposito del nascente governo Monti, come se il problema non fosse la nostra credibilità nel rimettere in carreggiata le risorse del sistema Paese, ma l'ironia degli altri e/o presunte mire neocoloniali. All'estrema sinistra e nella destra leghista e liberale, si ascoltano curiose convergenze su argomenti come forzatura presidenzialista, poteri dei tecnocrati, «golpe» delle banche europee e «congiura» della finanza internazionale. Crozza ne ha già fatto la caricatura. Altri, senza l'ironia del comico, richiamano il rispetto delle regole e il primato del Parlamento, dimenticando lo scempio che se ne è fatto negli ultimi anni. Per fortuna, il professor Monti va a messa, altrimenti avremmo sentito parlare anche di complotto ebraico. Giusto respingere il sarcasmo al mittente e interrogarsi sul nostro posto in Europa, ma qualche riflessione andrebbe fatta su immagine e credibilità di un Paese e su che cosa significhi ingerenza. Magari chiedendosi perché la Francia continui ad ottenere tripla A e considerazione internazionale, nonostante condizioni di salute non molto più floride di quelle italiane, «nonostante» appunto Sarkozy, con le sue gaffe e sondaggi in caduta libera. Magari chiedendosi perché dopo lo scandalo Strauss-Kahn, la Francia sia riuscita a piazzare un altro francese (la Lagarde) al Fondo Monetario, nonostante la già ampia presenza di francesi in posti chiave dell'economia mondiale. Magari chiedendosi perché lo stesso Strauss-Kahn abbia sentito la necessità di dimettersi subito e sia oggi un relitto politico. Magari ricordando che, al tempo della guerra in Iraq, la Francia venne disprezzata dagli americani come il Paese di mangiatori di rane, salvo riguadagnare considerazione per aver detto di no a Bush. Magari ricordando che la fine di Gheddafi non è soltanto il risultato delle velleità militari di Sarkozy, ma dell'impegno di un Paese che ha saputo mettere in campo una coalizione internazionale in buona parte recalcitrante. Tornando alle vicende europee, può dispiacere l'influenza dell'asse franco-tedesco, ma dovremmo domandarci che cosa sarebbe l'Europa senza il livello di concertazione raggiunto da Berlino e Parigi. Non è retorica, ricordare, fra l'altro, il più lungo periodo di pace e progresso nel continente. Certamente, l'asse franco-tedesco è anche un elemento di squilibrio e risulta troppo spesso un matrimonio d'interesse, che consente alla Francia di giocare in prima linea pur non avendo le carte in regola e alla Germania di non giocare da sola, evitando così di rievocare pericolosi fantasmi. Ma se ne rendono conto gli stessi francesi e tedeschi (il ministro Schäube, domenica scorsa, su le Monde) che auspicano maggiore coesione delle regole (innanzitutto fiscali) oltre a quella della moneta. Sarebbe auspicabile una maggiore convergenza politica, ma questa è impossibile senza una diversa architettura istituzionale, di cui un'Italia più considerata e rilanciata potrebbe essere grande protagonista. Non ha però molto senso confondere l'arroganza di Sarkozy o le durezze della Merkel con la politica europea della coppia Berlino-Parigi. È quasi sempre il sistema-Paese che esalta il valore dei leader e ne attenua i difetti. È autoconsolatorio ritenere che la nostra credibilità in Europa sia dipesa soltanto dalle gaffe di Berlusconi, così come è illusorio ritenere che basti la credibilità di Monti a restaurare quella del Paese. Il professore della Bocconi non è un demiurgo, ma un insegnante di sostegno, con la speranza che la classe (non solo politica) impari la lezione e alla fine dell'anno (legislativo) passi gli esami.
«Corriere della Sera» del 15 novembre 2011