21 settembre 2011

Tutti i figli di Norimberga

di Roberto I. Zanini
Chiudere i conti col passato a conclusione di difficili percorsi politico-sociali, come dittature e guerre civili, col contorno di genocidi, fosse comuni e via elencando dal vocabolario delle umane turpitudini. Si tratta di uno dei temi più controversi della storia dell’umanità, sul quale forse troppo poco ci si è interrogati in modo da avere una visione globale, tale da garantire risposte adeguate alle singole situazioni. Problema al quale tenta di sopperire un libro di Pier Paolo Portinaro, dal titolo esplicativo: I conti col passato. Vendetta, amnistia, giustizia, da domani in libreria per i tipi della Feltrinelli. «L’intento che guida questo lavoro – spiega Portinaro, che è docente di Filosofia politica all’Università di Torino – al di fuori di ideologie e revisionismi, è per un verso accademico, in quanto viene dato conto degli studi internazionali più recenti; per l’altro verso si vuole fornire un contributo di analisi e di elaborazione pratica tale da far comprendere che processi morali, storici e politici di questo tipo che coinvolgono singoli Stati e la comunità internazionale, devono essere esaminati nella loro complessità di intrecci e interdipendenze».

Ma quali sono le principali modalità messe in atto nei secoli per uscire da dittature e guerre civili?
«Diciamo che essenzialmente sono state percorse tre vie: quella della vendetta, quella dell’amnistia e quella della giustizia. Recentemente se ne è aggiunta una quarta, quella delle cosiddette Commissioni per la verità e la riconciliazione, che ha avuto interessanti applicazioni e che senza dubbio porta a risultati più completi dal punto di vista umano e della democrazia».

Il metodo della vendetta, sempre usato, è ancora efficace?
«Solitamente alla fine di un regime autoritario si registra una fase di vendetta violenta. Non ci dobbiamo stupire. La storia ci dice che più pesante è stata la repressione, più tragica è la vendetta. La durata dipende dalla capacità del governo che segue e, soprattutto oggi, dalla volontà e dall’autorevolezza degli organismi internazionali. Senza contare che nel novero della vendetta si può inserire anche l’epurazione sistematica da tutti gli incarichi burocratici, privati e pubblici della fazione perdente, senza giungere alla soppressione fisica».

L’utilizzo dell’amnistia ha un senso in quanto ferma la vendetta?
«È la strada che viene percorsa quando la massa dei crimini è così grande e la possibilità di far luce così ridotta che si decide di metterci una pietra sopra. Una risposta antichissima e assai frequente nella storia: prima saltano le teste, poi si decide di dimenticare affinché si apra una pagina nuova».

Antichissima?
«Senofonte definisce "uomo giusto" l’ateniese Trasibulo che con l’amnistia, a cavallo fra 400 e 300 a.C., fornisce un fondamentale contributo per la pacificazione a chiusura della Guerra del Peloponneso. Tucidide, nel raccontare questo episodio, gli attribuisce l’espressione: "Non si deve rovistare nel passato", che è proprio il senso dell’amnistia. Che nei fatti è una forma di real politik, ma anche di negazione dei diritti umani».

Ci sono stati anticamente anche casi di soluzione giudiziale?
«Diciamo che nel passato i processi applicati a queste vicende producono sempre una forma di giustizia politica. Servono a punire i nemici. I casi della rivoluzione inglese e della rivoluzione francese sono esempi chiari: entrambi culminano con la condanna del re. Una deriva che culmina nel XX secolo, per esempio con i processi farsa staliniani».

Quand’è che da queste vendette per via processuale si avvicina a forme più autentiche di giustizia?
«Ci si è provato alla fine della Prima Guerra Mondiale, ma il diritto internazionale non era ancora così condiviso e si sono celebrati solo dei processi limitati. Il primi veri tribunali internazionali efficaci sono quelli di Norimberga e di Tokyo. Anche se si è parlato di giustizia dei vincitori, non c’è dubbio che sia stato fatto un grande sforzo per rispettare i principi dello Stato di diritto. Nei fatti sono i due capisaldi della transizione dalla giustizia politica alla giustizia penale internazionale che è la novità della fine del XX secolo».

Parla di ex Jugoslavia, Ruanda ...
Istituita nel 1998 la Corte penale internazionale è entrata in funzione nel 2002. Ex Jugoslavia e Ruanda sono i casi più famosi. Oggi si occupa di Congo, Sudan, Uganda vedremo cosa accadrà per la Libia...».

Non sempre ne sono usciti ottimi risultati ...
«Il problema della Corte internazionale è che non può agire con la stessa efficacia che si è avuta, per esempio, a Norimberga, dove la Germania era un Paese occupato e le forze occupanti gestivano il territorio, garantendo la cattura dei criminali. Nella ex Jugoslavia, lo abbiamo visto, Mladic è stato catturato solo qualche mese fa... La Corte ha bisogno del pieno sostegno degli Stati e della comunità internazionale e non sempre capita».

La quarta via?
«Visto che, come in Ruanda, i criminali sono decine di migliaia e non si possono processare tutti, visto che i processi pongono a centro il criminale e finiscono spesso per non tutelare le vittime, ecco che si è iniziato a pensare a una giustizia capace di partire proprio dalla pacificazione. Tentativi che si sono codificati nelle Commissioni per la verità e la riconciliazione, utilizzate in Sudafrica, Cile, Argentina con buoni risultati, certamente più rispettosi dei principi democratici».

Tutto questo serve a capire perché in Italia, dopo 60 anni non si riesce ad arrivare a una verità condivisa su Fascismo e Resistenza?
«Il caso dell’Italia è emblematico di una resa dei conti che non è mai maturata. Prima c’è stata la violenza della guerra civile, poi l’amnistia togliattiana per fermare le vendette. Molti dicono che sarebbe servita una Norimberga italiana, ma non ci fu, un po’ per il trasformismo italico, un po’ perché sarebbero emersi anche i crimini della Resistenza. Solo negli anni ’90 la storiografia ha cominciato a pensare che non si doveva tematizzare soltanto il fascismo. Nello stesso periodo sono nati partiti che non avevano radici in quegli anni e il passato è stato strumentalizzato in chiave anticomunista. Il risultato è che non riusciamo ancora a vederci chiaro».
«Avvenire» del 20 settembre 2011

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