14 luglio 2011

L'autodeterminazione assoluta? Né democratica né socialista

Un radicale può esaltarla contro la vita. Un progressista no

di Benedetto Ippolito



Un secondo e decisivo tratto del cammino della legge sul fine vita è arrivata all’ultima tappa. Perlomeno, questo è l’auspicio di molti fautori della normativa che continua ad avere tenaci detrattori. Il nodo etico è principalmente racchiuso nell’articolo terzo su nutrizione e idratazione.
Secondo il professor Umberto Veronesi, l’attenuazione prevista della Dichiarazione anticipata di trattamento sarebbe già di per sé un accanimento terapeutico. Egli, infatti, ha accusato venerdì scorso su Repubblica la presenza di una difesa a oltranza della «vita senza coscienza», della sopravvivenza biologica di un corpo senz’anima. Più chiaro ancora, sulla stessa linea, è stato Federico Orlando. Su Europa ha detto che tra sondino di Stato e libertà, egli preferisce la libertà. E questa, nei fatti, la vera discriminante che divide, come tante volte ha rimarcato su Avvenire Francesco D’Agostino.
Si può propendere per una concezione antropologica in cui la «libertà è tutto», perché senza autodeterminazione non c’è vita personale. Oppure, si può propendere per una concezione antropologica in cui la «libertà non è tutto», perché senza vita personale non c’è autodeterminazione.
In merito non c’è nulla che non si sappia già, e non sia stato sviscerato da Mina Welby o da Paola Binetti. Resta semmai da difendere la regola aurea che in democrazia non si può pretendere di costringere nessuno, esigendo il rispetto di ogni opinione, invitando ciascuno alla coerenza con se stesso. Che, infatti, Marco Pannella e Beppino Englaro giudichino intollerabile la trascrizione in termini legali della tutela della vita personale non stupisce affatto, è logico e coerente con la loro cultura. I radicali si sono sempre battuti a favore di una libertà individuale assoluta, tanto che aborto, eutanasia e controllo delle nascite sono per loro pacifiche conseguenze.
Diventa, invece, assai meno facile la pretesa di molti esponenti del Partito democratico, in larga parte contrari a questa legge, che non si rifanno per nulla al precedente modello libertario. In questo senso, le osservazioni di sdegno di Pierluigi Bersani sono singolari. Se, infatti, si pensa al valore di base oggi accolto da tutta la sinistra europea troviamo che è il principio secondo cui l’uguaglianza è il fondamento dalla libertà. In effetti, come spiegava Norberto Bobbio, solo l’uguaglianza personale giustifica la giusta opposizione ai privilegi e alla violenza del potere, attraverso appunto alcuni doveri che siano vincolanti per tutti. Tra questi, come asseriva Jean Jacques Rousseau, vi è prioritariamente la tutela delle basi naturali della sussistenza personale, nutrizione e idratazione in testa, contro inique disuguaglianze. D’altronde, negare tale punto fermo significa annullare l’ideale che ha guidato la sinistra e l’Illuminismo nelle battaglie di tutta la sua storia, contro la schiavitù, contro i privilegi, contro il capitalismo selvaggio, eccetera. Non a caso il primo valore, enunciato nella Dichiarazione universale del 1948, è proprio il diritto alla vita, perché equivale ad accogliere un piano personale intangibile, la cui dignità non dipende dalle capacità, dalla razionalità, dal grado di libertà e dal tipo di cultura presente.
Quando, dunque, tutto il centrosinistra parla di un’«intollerabile dipendenza dalle macchine», di un accanimento «integralista» e «oscurantista», che questa legge introdurrebbe, dovrebbe pensare se tale giudizio ingiustificato e ingiustificabile (perché caricaturale) non derivi da una profondo smarrimento dei presupposti etici ispiratori della propria tradizione, e se tale opinione non sia un cedimento troppo sbrigativo al modello libertario ed anarchico perennemente combattuto. Insomma, a essere onesti, è accettabile sentir dire da un radicale che l’autodeterminazione è tutto. Ma non da un democratico, da un progressista e, meno che mai, da un socialista.

«Avvenire» del 12 luglio 2011

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