19 luglio 2011

Elogio dell'opacità: troppa luce acceca

Calvino invita a tener conto delle macchie d'ombra di come acquistino nettezza mentre il sole prende forza

di Claudio Magris


Anche l'individuo ha le sue zone oscure. Fino a che punto è giusto sottoporle ai raggi X?


C'è un testo di Calvino, Dall'opaco, in cui si invita a «tener conto delle macchie d'ombra cioè dei luoghi non raggiunti dai raggi, di come l'ombra acquista nettezza proporzionalmente al prender forza del sole...». Diversamente da quelle pagine, in cui diventa la prospettiva da cui guardare il mondo e la struttura più vera di quest'ultimo, l'opaco non gode di buona stampa nella cultura occidentale, al pari di tutto ciò che è oscuro, nascosto, incerto. Il bene, il bello e il vero si identificano con la luce, la chiarezza, la trasparenza. Paolo Mauri ha dedicato un libro alle tenebre quali metafora del male; il buio mette paura, il nero evoca lutto e sciagure. «Oggi è stata una giornata nera», mi disse una volta un venditore ambulante senegalese dalla pelle color ebano, insoddisfatto del magro guadagno. La vista - che da Aristotele in poi è il senso più nobile, legato ai valori più alti - ha bisogno di luminosità, a differenza dei sensi considerati più bassi e più umili, quali l'odorato o il tatto, che Hegel addirittura associa alle culture da lui giudicate inferiori quale l'africana, mentre la luce e la forma armoniosa dell'Occidente si offrono allo sguardo. La trasparenza è una proprietà affascinante di un mare o di un diamante, ma è anche il simbolo di valori morali, di onestà, di correttezza. Vedere tutto ed essere visti e radiografati in ogni piega della propria esistenza è sempre e soltanto un valore? «Rivendico per tutti il diritto all'opacità», ha scritto Édouard Glissant, lo scrittore francese morto alcuni mesi fa cui si devono, fra le altre cose, pure notevolissimi saggi dedicati al ruolo positivo dell'opacità nel rapporto tra le persone e le culture. La trasparenza, da questo punto di vista, si rivela pure strumento di dominio e di livellamento. Nelle relazioni fra le civiltà, alcune di esse - le più grandi - hanno compenetrato il mondo con la loro luce, ma l'hanno pure ridotto a loro specchio, a loro immagine e somiglianza. Ora invece, scrive Glissant, «la trasparenza non appare più come il fondo dello specchio in cui l'umanità occidentale rifletteva il mondo a sua immagine; in fondo allo specchio c'è ora opacità, tutto un limo depositato dai popoli, limo fertile, ma, a dire il vero, incerto, inesplorato, ancor oggi molto spesso negato o offuscato, di cui non possiamo non vivere la presenza insistente». Non si tratta certo di negare l'immagine impressa ad esempio al mondo dalla grandissima civiltà greca, ma di avvertire la fecondità di quel limo nascosto che può arricchirla solo se non viene prosciugato, la creatività delle sue innumerevoli componenti che danno vita solo se rispettate nella loro erranza clandestina, senz'essere troppo sottoposte alla lente che le discerne ma fatalmente le brucia. Ci può essere violenza pure nel voler comprendere tutto, scrive ancora Glissant, come indica l'etimologia della parola, in cui c'è «il movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé». Com-prendere, afferrare, impossessarsi, ricondurre e ridurre l'altro a se stessi, alla propria scala di valori. Illuminare è una delle parole più belle, evoca quell'Illuminismo e quella filosofia dei lumi cui sono indissolubilmente legate conquiste fondamentali di libertà, di ragione, di emancipazione dell'umanità, divenuta, grazie ad esse, maggiorenne, diceva Kant. Ma è proprio in nome dell'Illuminismo che si sono smascherati e denunciati i pericoli di appropriazione, di dominio, di integrazione violenta e di negazione di ogni alterità potenzialmente insiti nella volontà di sapere e conoscere tutto. La luce che crea una trasparenza totale può diventare il riflettore accecante puntato sul prigioniero che si vuol costringere a confessare tutto, sino a spremere da lui l'ultima goccia della sua vita e darla in pasto agli altri. Anche la Ragione che vuole tutto comprendere - ossia ridurre alle proprie misure - può essere violenza. Ogni integrazione deve lasciare un margine a ciò che è irriducibilmente altro, a una striscia di oscurità in cui sparire come il granchio nella sabbia. Mi è capitato di incontrare nelle carceri, su loro richiesta, alcuni detenuti, autori di reati anche assai gravi. «Anche qui dentro - mi disse uno di loro - c'è gente che scrive, come Lei e altri là fuori. Ma mentre voi scrivete per pubblicare, per farvi leggere, per comunicare agli altri le vostre passioni e ossessioni, noi qui dentro scriviamo invece per avere qualcosa che sia unicamente nostro, uno spazio solo per noi, impenetrabile agli altri. Tutto il resto, in carcere, viene perlustrato, indagato, controllato, conosciuto: indumenti, pacchi dei parenti, lettere. Quello che invece scrivo per conto mio è solo mio, nessuna luce indagatrice lo penetra e viola, una macchia opaca e scura, solo mia, la sola cosa mia». La luce e la stessa universalità possono essere la violenza e la tirannide di una schedatura totale, di un controllo totalitario. Ma è sempre e solo l'Illuminismo che ci può insegnare a rispettare pure l'universale diritto di ognuno di abbassare la saracinesca. Altrimenti la conoscenza - che per definizione fa luce e chiarezza - può assomigliare alla spiata, a quella fregola di sbirciare nel destino altrui, di frugare indagare spettegolare profanare. Glissant rivendica il diritto all'opacità anche nei rapporti affettivi e amicali più intensi ed autentici, nella passione per una persona amata. «Non mi è necessario "comprendere" l'altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per amare quello che fa». Nell' amore ciò può sembrare più difficile, perché l'amore ha un'esigenza di totalità e induce ad avvertire ogni distanza come dolorosa, una fitta di estraneità e solitudine. Ma proprio l'amore sa forse rinunciare a quella presa totalizzante che è la pretesa di com-prendere, di assimilare a sé; piuttosto scrive Glissant, con-dividere l'imperfezione inevitabile, i margini di oscurità non penetrata e forse non penetrabile; accettare anche gli angoli bui dell' altro, convivere con i suoi e con i propri. Nella notte d'amore - in cui il nero è il colore dell'eros e della bellezza - Tristano è anche Isolda e Isolda è anche Tristano, due che almeno per un attimo si sentono o vogliono sentirsi uno, ma anche l'uno, l'individuo ha le sue opacità, oscure pure a lui. Fino a che punto è non solo possibile, ma anche giusto illuminarle, sottoporle ai raggi X? Conosci te stesso, è stato detto, anche se non è sempre ben chiaro chi conosce chi. C'è un limite pure alla conoscenza di sé, oltre il quale essa può diventare una lente d'ingrandimento che altera le proporzioni. Nel buio del nostro profondo c'è tutto, anche un pulviscolo di pulsioni torbide e malvage che smentiscono le nostre tavole della Legge. Non è certo bene ignorare la loro esistenza molecolare, reprimerle, rimuoverle. La verità vi farà liberi, dice un passo del Vangelo che era molto caro a Freud. Ma indagarle troppo col microscopio può anche ingigantirle e dunque falsarle, dar loro una consistenza e un potere che le accresce, come gli arabeschi della farfalla che, visti troppo da vicino, possono diventare i lineamenti di un mostro angoscioso. È bene sapere che in ognuno di noi può essere latente un Edipo desideroso di uccidere il padre, ma se ci si sofferma troppo quest'esile larva omicida può diventare un fantasma ingombrante e incalzante, che inceppa la vita. Dire la verità - o almeno dirla troppo - è anche distruttivo; è come fare un salasso al cuore, diceva il gesuita barocco Gracián. Né reprimere né sublimare le tenebre; piuttosto comporle, come insegnava la civiltà absburgica, tenerle insieme con vigile noncuranza; senza pretendere di risolvere le contraddizioni, ma tenendole a bada affinché non facciano troppo danno. L'Io non è compatto come il busto di un eroe in un sacrario; assomiglia piuttosto a un condominio del quale è pure il provvisorio presidente. È utile accertare che fra i condomini non vi siano serial killer, ma è anche opportuno non andare a spiare tutto ciò che essi fanno nella loro stanza da letto e, se per caso si scopre qualcosa di imbarazzante, far finta di non averla vista. Il vecchio, protagonista degli ultimi racconti di Svevo, scopre che niente è a posto, ma continua a vivere amabilmente come se lo fosse. La menzogna è sempre un male, specie quella che si racconta a sé stessi, ma esiste pure una dissimulazione onesta, scriveva il grande autore barocco Torquato Accetto, che aiuta a vivere o almeno sopravvivere, come la rosa - egli diceva - che col suo profumo e il suo splendore dissimula la sua - e nostra - mortalità.
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L'autore citato Édouard Glissant è nato in Martinica nel 1928, a Sainte-Marie, ed è morto a Parigi il 3 febbraio 2011. Ha scritto 8 romanzi, 9 raccolte poetiche e 15 saggi. Tra i grandi scrittori di lingua francofona, aveva una formazione da filosofo e una vastissima cultura. Politica e letteratura sono spesso entrate in relazione nella sua opera. Teorico della creolizzazione, allievo di Aimé Césaire, ha poi preso le distanze dalla sua teoria della «negritudine». Il Nobel Derek Walcott ha dichiarato il suo debito verso lo scrittore martinicano. Tra le sue opere tradotte; «Poetica della relazione» (Quodlibet), «Il pensiero del tremore» (Scheiwiller) «Tutto-mondo» e il romanzo «Quarto secolo» (Edizioni Lavoro)

«Corriere della Sera» del 10 luglio 2011

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