09 maggio 2011

E. Montale, La parola e il significato della poesia (Baldi)

Tratto dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Paravia, volume III, tomo 2/b, pp. 801 ss

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria

Le poesie degli Ossi di seppia, scritte a partire dal 1916, si segnalano subito per il timbro di una risentita originalità, che nasce non da un rifiuto esterno della tradizione, ma da una sua intima rielaborazione. Si potrebbe addirittura parlare, senza attribuire al termine nessun significato limitativo, di una sorta di compromesso, che corrisponde alle ragioni di una coscienza poetica nuova e profonda. Se si pensa che nel medesimo 1916 Ungaretti pubblicava Il porto sepolto, si avrà subito un’idea della distanza che separa i due poeti, spesso frettolosamente accomunati per esigenze di semplificazione manualistica. Ungaretti muove dalla distruzione del verso tradizionale per riscoprire la forza autonoma della parola, facendo di essa uno strumento di liberazione, capace di attingere alle fonti dell’assoluto. Ma si tratta ancora, per Montale, di una soluzione ottimistica e consolatoria. Tra l’uomo e l’assoluto c’è una realtà ineliminabile, che Ungaretti tende invece a trascendere e a cancellare. E il mondo fenomenico, della natura e delle cose, nel quale sembra talora possibile individuare uno spiraglio della verità, pur senza che se ne possano mai ricavare risposte tranquillizzanti e definitive.
Di qui il diverso valore che, rispetto a Ungaretti, assume la parola nella ricerca poetica montaliana. La parola non può aspirare a raggiungere direttamente l’assoluto, isolando la sua pronuncia nel silenzio, ma deve prima confrontarsi con il reale, una barriera nella quale resta inevitabilmente impigliata e che tuttavia costituisce il solo banco di prova consentito, la sola speranza di accedere al mistero insondato dell’esistenza. Diventa così impossibile l’uso dell’analogia nel senso proposto dal Simbolismo e portato alle estreme conseguenze da Ungaretti: quello in cui la parola si propone di esprimere sensazioni indefinite e indeterminate, accostando fra loro realtà antitetiche e lontanissime. La parola di Montale, al contrario, non allude o elude, ma indica con precisione oggetti definiti e concreti, stabilendo fra questi una trama di relazioni complesse; essa fa capo, per così dire, al soggetto poetante e ne trattiene lo sforzo incessante di penetrare oltre ciò che appare materialmente, per scoprire la direzione o il senso ultimo della vita
Le conseguenze di un simile atteggiamento - di cui spiegheremo meglio fra poco i fondamenti e le implicazioni conoscitive - sono essenziali per comprendere l’idea di poesia propria di Montale e le scelte formali da lui compiute. Se vogliamo utilizzare la distinzione, proposta da Luciano Anceschi, fra una "poetica della parola" e una "poetica delle cose", dobbiamo annettere la poesia montaliana a questa seconda categoria, lungo una linea che ha i suoi maggiori antecedenti in Pascoli e Gozzano (poeti entrambi molto cari a Montale, pur senza voler stabilire con questo ulteriori elementi di parentela, trattandosi di tre esperienze che obbediscono a motivazioni completamente diverse). Se si legge una poesia programmatica come I limoni, che non a caso, dopo il prologo In limine, apre gli Ossi di seppia, si può vedere quanto forte sia l’atteggiamento polemico nei confronti della tradizione poetica aulica e ufficiale (quella dei «poeti laureati»), che usa termini astratti e convenzionali per indicare realtà generiche e indeterminate (per ragioni analoghe Pascoli aveva ritenuto insufficiente il linguaggio poetico leopardiano). Ai «bossi, ligustri e acanti» (parole logore e abusate, che indicano una flora del tutto improbabile) Montale oppone il colore e la freschezza dei suoi «limoni», che danno luce a un paesaggio arido e brullo, anch’esso precisamente descritto nell’immediatezza della sua configurazione («erbosi fossi», «pozzanghere / mezzo seccate», «qualche sparuta anguilla», «viuzze», «ciglioni», «ciuffi delle canne», «orti»).
Anche la scelta di Montale cade quindi sulle "piccole cose", sugli elementi di una realtà povera e comune che l’uomo può in ogni momento trovare intorno a sé, soprattutto nella natura che più gli è familiare. Ma Montale non guarda a questa natura con gli occhi ingenui e innocenti del «fanciullino», come nel caso di Pascoli, né compone le sue presenze in un’atmosfera "crepuscolare", assaporata sentimentalmente o ironicamente allontanata (come in Gozzano). Gli oggetti, le immagini e le voci della natura diventano per lui degli emblemi, in cui è trascritto, in forme oscure e cifrate, il destino dell’uomo, nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una condizione (e di una condanna) esistenziale, che, come già si è detto, non può offrire certezze o illusioni. È un destino che, paradossalmente, l’uomo non può accettare, ma contro il quale non può nemmeno ribellarsi. In esso si riflette il senso di estraneità dell’uomo contemporaneo che, trascorrendo dal piano storico a quello metafisico, entrambi indecifrabili, diventa perplessità esistenziale, una sorta di paralisi che, proprio per questo, non può neppure più esprimersi in forme tragiche e sublimi. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell’uomo, la natura conserva dentro di sé la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa condizione di aridità, tornando insistentemente sulle cose e sulle relazioni che le uniscono, nell’incessante quanto vana speranza di trovare un «varco» (cfr. La casa dei doganieri) che si apra sul mistero della vita, attribuendole senso e significato.
Anche per Montale, quindi, le cose diventano dei simboli, che tuttavia abbiamo preferito indicare con il nome di emblemi, per distinguere il suo procedimento da quelli del Simbolismo tradizionale. A differenza dell’analogia ungarettiana, così rarefatta e indefinita, si è parlato, per Montale, di "correlativo oggettivo", in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione ed espressione (il loro corrispettivo, risultando così "correlati") in "oggetti" ben definiti e concreti. Un esempio molto chiaro è offerto dal testo Spesso il male di vivere ho incontrato. La definizione di uno stato d’animo che esprime la tipica disposizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, «il male di vivere», è presentata non in forma concettuale o esplicativa, ma come un incontro diretto, realmente accaduto lungo il percorso della vita, identificandosi in alcune presenze concrete («era il rivo strozzato ... era l’incartocciarsi della foglia ... era il cavallo stramazzato»), in cui si risolve e dalle quali viene tangibilmente rappresentato. Anche quando viene meno il riferimento di base (il termine di confronto costituito qui dal «male di vivere») restano gli "oggetti", le presenze e le cose della vita, a significare le complesse e oscure vicende del destino umano, caricandosi di significati nascosti, ulteriori. La poesia delle "cose" in Montale è tutt’altro che semplice e lineare, ma risulta (e si farà sempre più) ardua, difficile, talora vertiginosamente oscura, nel ter tativo di attribuire agli oggetti il compito di cogliere il senso indecifrabile dell’esistenza. Un medesimo termine contiene spesso una pluralità di significati, intrattenendo con il contesto molteplici relazioni, che lo rendono di ardua decifrazione sul piano razionale.
L’espressione "correlativo oggettivo" è stata usata da Eliot, con cui la ricerca montaliana presenta convergenze significative, a livello tematico e strutturale. Tenendo conto delle considerazioni che abbiamo svolto, il simbolismo di Montale potrebbe essere visto, meglio, come una forma nuova e tutta moderna di allegoria, nella misura in cui gli elementi della natura rappresentano condizioni spirituali e morali. È questa la concezione dell’allegorismo medievale, che Dante aveva portato, nella Commedia, alla massima realizzazione poetica. Proprio l’amore per Dante (che non a caso Montale aveva in comune con Eliot) offre elementi importanti per meglio comprendere la genesi e i risultati di questa operazione poetica. Il rapporto deve ovviamente tenere conto, in senso storico, di opposte prospettive ideologico-conoscitive: l’allegoria dantesca trova un compiuta e integrale spiegazione nella mente divina; quella di Montale, al contraria si dibatte in se stessa, senza ottenere risposte o garanzie. Alla Provvidenza di un mondo che cerca sollievo ai dubbi e alle inquietudini in una fede religiosa (non solo Dante, ma anche Manzoni), Montale sostituisce la sua «divina Indifferenza» (cfr ancora Spesso il male di vivere ho incontrato), che, ricollegandosi piuttosto al pensiero leopardiano, resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini.
Il problema riguarda, in ultima analisi il rapporto fra la conoscenza e la poesia. Questa non rappresenta, per Montale, un bisogno di confessione individuale né consiste nella ricerca di una parola da strappare al silenzio, comportando una lettura muta e interiore. Essa si apre, al contrario, a un tono discorsivo e colloquiale, che presuppone la presenza del lettore, quell’interlocutore spesso presente nel «tu» dei versi montaliani (sin dalla parola che inaugura la sua vicenda poetica, l’«Ascoltami»: dei Limoni). Questo rapporto indica la volontà di un’intesa e di una solidarietà che coinvolgono il lettore in un comune bisogno di espressione e di partecipazione, di fronte all’urgere delle medesime problematiche esistenziali. Ma proprio perché riflette una realtà cifrata e inconoscibile, la poesia non può, paradossalmente, insegnare nulla. Montale rifiuta non solo l’immagine tradizionale del "poeta vate", ma anche ogni concezione della poesia come fonte di educazione e di elevazione spirituale. La sua posizione è nitidamente espressa in un altro dei fondamentali testi programmatici, in cui il poeta, rivolgendosi al consueto interlocutore, lo ammonisce: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe»; e conclude: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Di fronte all’impossibilità, di sciogliere il mistero della vita, Montale non può che proporre una forma di conoscenza in negativo, priva di certezze e di ipotesi propositive, interamente risolta nell’acuta coscienza del relativismo e della discontinuità che regolano le leggi dell’esistenza. Egli si può considerare, in Italia, il primo grande scrittore contemporaneo che si faccia interamente portavoce di un pensiero negativo, privo di ogni compensazione alternativa.
Non per questo viene meno, come si potrebbe dedurre, la funzione della poesia: essa ha il compito di indagare questa condizione dell’uomo novecentesco, assumendo il valore di una insostituibile «testimonianza» (è questo, ad esempio, il messaggio affidato al Piccolo testamento, dove il termine compare al v. 9). Il suo ruolo consegue dall’atteggiamento stesso assunto dal poeta nel suo rapporto con l’irreversibile crisi dei valori vissuta da un’intera civiltà: Montale non si abbandona a cedimenti vittimistici o a suggestioni irrazionali, che possono condurre solo alla disperazione o alla sterile rivolta superomistica. Pur senza speranza, resta intatta, in lui, una vigile fiducia nella ragione (è questo, pur nella radicale diversità dell’impegno, il legame più profondo riconoscibile nella sua collaborazione con Gobetti), che ha il compito di non eludere le domande fondamentali dell’esistenza e di continuare a indagarne le ragioni, anche quando sa che l’indagine potrà solo sottolineare, in prevalenza, dubbi, limiti, assenze, contraddizioni. In questo senso la sua poesia riacquista un preciso significato morale, per lo stoicismo di chi compie comunque il proprio dovere al di fuori e al di sopra di ogni compenso. La moralità di questa poesia appare così nettamente estranea rispetto alla storia e alla politica, con la quale rifiuta (e rifiuterà) ogni forma di collusione e di partecipazione.

Postato il 9 maggio 2011

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