13 marzo 2011

Più coscienti del mistero

Siamo 'quasi' niente, ma non niente
di Davide Rondoni
Come formiche. Laboriose, geniali. Ma formiche. Tutta la tua vita di uomo o di donna – amori, dolori, ricordi, fatiche – spazzata via in un istante. Il terremoto e il maremoto giapponese ci riportano con il febbrile succedersi di immagini e di titoli sempre più inquietanti una verità di cui da sempre l’uomo parla. Lo diceva il poeta dei Salmi, l’antico greco come il latino. Il no­stro Leopardi, il nordico Ibsen: di fronte al­la potenza della natura siamo quasi niente. La potenza che si dispiega a volte in spet­tacoli vertiginosi di bellezza. O altre volte in rasoiate tremende di morte. E allora di fron­te a questa verità da profeti e da breaking­news, che grida e mormora in libri antichi e nei nostri video accesi, si possono pren­dere vari atteggiamenti. Perché tutti, sì, sia­mo come formiche, esseri quasi confusi con il nulla, come diceva Leopardi. Ma questa verità che riguarda tutti può essere affron­tata in vari modi personali.
In questi giorni spesso anche forzando si sono lodate la 'freddezza dignitosa', la compostezza del popolo giapponese. Si è visto il deposito di una millenaria sapienza che vive i colpi del destino come un fato da accettare compattandosi in una forza col­lettiva, superando il destino di dolore indi­viduale e trovando risorse per rimettersi in moto come nazione. Una dignitosa accet­tazione dell’essere fragili e minimi, pur se ideatori di alcune prodigiose macchine che hanno resistito alla distruzione. Un opero­so fatalismo, una dignitosa sconfitta.
Ti basta questo? chiede a ognuno di noi il terremoto. Oppure c’è chi solo dispera. Chi cambia canale, cerca evasione dall’impo­nente evidenza di precarietà. Chi dispe­rando del tutto spera solo nella fortuna. Spe­ra di scamparla, in un modo o nell’altro. E divide il mondo in fortunati e no. La dea for­tuna (lo vediamo da quanta pubblicità è de­dicata a lotterie) gode ottima reputazione tra di noi. Ma, appunto, è il regno di una specie di disperazione: ci si affida al caso, ci si augura che la malasorte colpisca qualche chilometro più in là. Oppure c’è chi di fron­te e dentro a questo evento naturale (e u­mano) trova una provocazione a vivere più coscientemente il senso del limite. L’uomo religioso da sempre chiama queste cose: un segno.
Tendiamo a dimenticare. Troppi pensieri di banale sufficienza, di autodeterminazione albergano nelle nostre menti. Fino a che la luce dura della tragedia non ci ricorda: sei quasi nulla. Noi cristiani ce lo siamo senti­ti ripetere nel Mercoledì delle ceneri. L’uo­mo religioso riflette sul limite della condi­zione umana. Non conosce la sorpresa i­pocrita ed egoista di chi si scandalizza o di­sperando si affida a una dea cieca. Tutti di­ciamo anche 'ti amo da morire', oppure 'sei bella da morire' perché in ogni espe­rienza umana – di dolore come di gioia – si tocca il nostro essere limitati. E sempre dob­biamo aprirci appunto a una misura più grande per comprendere il mistero dell’a­more. Del dolore. Del reale vivere. Leopar­di diceva che il segno più netto della nostra grandezza è questo senso di piccolezza, d’essere un 'quasi niente' che però ab­braccia il mistero infinito del reale, essen­done cosciente e ponendo domande: che fai tu luna in ciel ? Siamo 'quasi' niente, e quin­di no, non siamo pari a niente. Ogni uomo, pur disperso come in un soffio dagli ele­menti è differente (anche ora, nell’ora del­la morte) dal niente. La sventura giappo­nese o ci lascia più coscienti del mistero o ci sarà inutile. O lascia più attenti a cerca­re quale sia il volto di questo mistero, o sarà qualcosa da cui voltare il capo. Da cui spe­rare di proteggere noi e i nostri piccoli co­me fa una cagna, impaurita, incosciente.
«Avvenire» del 13 marzo 2011

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