23 marzo 2011

Il monologo di Zeno e il flusso di coscienza dell’Ulisse joyciano (Baldi)

Microsaggio tratto dal volume di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo (edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 328-330)
Svevo e Joyce, dal 1906, si conobbero a Trieste e nacque tra loro una stretta amicizia, che era anche scambio di esperienze letterarie; il capolavoro joyciano, l’Ulisse, propone una tecnica narrativa rivoluzionaria, quella del monologo interiore, ed anche la Coscienza di Zeno presenta un protagonista monologante: dalla combinazione di questi diversi fattori si è diffusa nell’opinione corrente la convinzione che Svevo sia il “Joyce italiano”, che la Coscienza offra l’equivalente del monologo interiore dell’Ulisse. E una tesi che un tempo fu sostenuta da qualche critico, e che trova ancora credito in alcuni manuali scolastici meno aggiornati, ma di cui la critica attuale si è ormai liberata definitivamente. D’altronde basta solo aprire i due libri per avvedersi subito di quanto quella convinzione sia infondata: l’Ulisse e la Coscienza sono due opere profondamente diverse, incomparabili, non solo negli aspetti contenutistici, ma proprio nelle strutture e nelle tecniche narrative. Il monologo interiore joyciano non ha nulla a che vedere, nel suo impianto, col monologo di Zeno. Per rendercene conto, leggiamo un breve esempio dall’Ulisse, che ci propone uno dei modi più tipici in cui si presenta il monologo interiore:

Costeggiando grossi furgoni sulla Riva Sir John Rogerson, Mr Bloom camminò posatamente oltre Windmill lane, la ditta Leask, produttrice d’olio di semi, l’ufficio delle poste e telegrafi. Avrei potuto dare quell’indirizzo, anche. E oltre la casa di riposo dei marinai. Si staccò dai rumori mattutini del lungo fiume e imboccò Lime street. Presso le case popolari di Brady un garzone di conceria indugiava, con la secchia dei cascami al braccio, fumando una cicca masticata. Una bambinetta coi segni di un eczema sulla fronte lo occhieggiava reggendo incurante il suo malconcio cerchione di botte. Dirgli che se fuma non crescerà. Ma fumi pure! La sua vita non è poi un letto di rose! Aspettare fuori dalle osterie per riportare papà a casa. Torna a casa da mamma, papà. Ora morta; non ci sarà molta gente. Attraversò Townsend street, oltrepassò il volto accigliato della cappella di Bethel. El, sì: casa di: Aleph, Beth. E oltre Nichol l’impresario di pompe funebri. Alle undici, è. C’è tempo. Scommetto che Corny Kelleher s’è accaparrato quest’affare per O’Neill. Canta con gli occhi chiusi. Melenso. Ho incontrato giù nel parco una ragazza. Là nel rezzo. Che sollazzo. Pizzardone. Diede allora il suo nome e l’indirizzo con il mio trallallero trallalà. Certo se l’è accaparrato. Seppellirlo a buon mercato in un comesichiama. Con il mio trallallero trallallero trallallero trallalà (traduzione di Giulio de Angelis).

Come si vede, alla base del passo vi è una narrazione in terza persona, che descrive azioni e movimenti del protagonista (Leopold Bloom cammina per le strade di Dublino, diretto al funerale di un amico). Di colpo, in questa narrazione “oggettiva”, si inseriscono frammenti dei pensieri del personaggio, senza alcuna indicazione di passaggio, del tipo: «Bloom pensò... ». Le differenze rispetto alla narrazione della Coscienza di Zeno sono evidenti. Nell’Ulisse c’è la registrazione diretta dei contenuti della mente di un personaggio, al presente. Si tratta più propriamente di un “flusso di coscienza”, i pensieri sono colti nel loro farsi immediato, nel loro germinare e nel loro scorrere, attraverso associazioni libere, casuali e disordinate, che si determinano in Bloom per passivi automatismi, e da cui restano escluse la coscienza e la volontà. Non vi è nessun intervento di una voce narrante che selezioni i materiali e dia loro un ordine: i contenuti della mente si offrono nella loro condizione magmatica. E come se, per convenzione, il lettore potesse gettare uno sguardo “dentro” la mente del personaggio, assistere al fluire dei suoi pensieri. E si tratta di contenuti solo mentali: il personaggio pensa fra sé, senza comunicare nulla all’esterno.
Nella Coscienza di Zeno invece il protagonista, attraverso il suo “monologo”, ricostruisce aspetti della sua esistenza passata, traccia ritratti di personaggi, racconta fatti, dà vita a scene, a sequenze narrative ordinate e consequenziali, introduce analisi psicologiche, commenti, come il narratore di un romanzo tradizionale. Tutto ciò lo fa per iscritto, redigendo una specie di memoriale. Non si ha quindi il semplice germinare dei suoi pensieri, il “flusso” nel suo scorrere casuale e disordinato: il personaggio-narratore costruisce logicamente il discorso, gli dà un ordine, seleziona i materiali che espone, in base alla loro pertinenza all’argomento che vuol trattare. Il fatto che il monologo sia messo per iscritto è veramente fondamentale, discriminante: quelle di Bloom nell’Ulisse sono associazioni assolutamente libere, senza alcun controllo e alcuna censura della coscienza; il mettere parole su carta, per Zeno, presuppone invece inevitabilmente un controllo; non emerge immediatamente il profondo, il personaggio che scrive erige solide, accurate barriere, censura, rimuove, distorce secondo i suoi fini, che, come sappiamo, sono quelli dell' "innocentizzazione". Non solo, ma se Bloom pensa fra sé, Zeno si rivolge a un preciso destinatario, il dottor S.: anche questo obbliga ad un controllo attento, ad erigere barriere di rimozione, che filtrino l’affiorare spontaneo dei contenuti della psiche.
Svevo era ben consapevole del carattere rivoluzionario delle tecniche joyciane (e d’altronde la loro portata era tale che non poteva non colpire immediatamente chiunque). Ne abbiamo la testimonianza nella sua conferenza su Joyce, tenuta nel 1927, dove possiamo leggere pertinenti definizioni del flusso di coscienza dell’Ulisse: «I due personaggi principali, Bloom e Stefano, comunicano direttamente col lettore convertendo il loro pensiero solitario in un monologo. Camminano col teschio scoperchiato»; «quel pensiero dei protagonisti [...] ci viene comunicato all’istante stesso in cui si forma, sregolato, in una mente sottratta ad ogni controllo». Svevo sapeva bene, invece, come il suo personaggio-narratore sottoponesse ad un rigido «controllo» i suoi pensieri nel metterli sulla carta. La descrizione delle tecniche joyciane presuppone quindi un’implicita consapevolezza della differenza che le separa dalle proprie.
Dalle differenze di impianto narrativo tra l’Ulisse e la Coscienza di Zeno scaturiscono quelle stilistiche e linguistiche. Dato che in Joyce si ha il flusso disordinato della coscienza del personaggio, la sintassi si frantuma, diviene caotica, tutti i nessi logici saltano. Il discorso di Zeno conserva invece una sintassi regolare, razionalmente strutturata, proprio come strumento della censura della coscienza sull’inconscio. Inoltre (anche se è difficile coglierlo nella traduzione) Joyce nel suo libro sperimenta le più ardite mescolanze linguistiche, combinando tra loro i registri più vari, deformando le parole, giocando coi suoni (nella traduzione del passo riportato, ad esempio: «Là nel rezzo. Che sollazzo. Pizzardone»; nell’originale: «Met her once in the park. In the dark. What a lark»). Svevo usa invece una lingua comune, uguale, abbastanza scolorita, come deve essere il linguaggio colloquiale del borghese triestino Zeno che scrive le sue memorie, senza punte espressive intense e senza mescolanze ardite. Non affrontiamo poi altre macroscopiche differenze trai due libri, che esigerebbero più approfonditi discorsi, e che non riguardano le tecniche del discorso narrativo: l'Ulisse ha una struttura fondata su una complessa trama di simboli (ad esempio ogni capitolo, segretamente, rimanda ad un libro dell'Odissea), mentre nella Coscienza non vi è nulla di tutto ciò.
Concludendo, i collegamenti tra l'Ulisse e la Coscienza non sono diretti, ma generici: le due opere sono legate solo dal fatto che si collocano in un certo clima culturale novecentesco, che ama esplorare la dimensione soggettiva nelle zone più profonde, che mette in crisi la visione del mondo tradizionale, chiusa, ordinata e gerarchizzata, sostituendola con una più mobile e aperta, la quale genera anche una crisi delle strutture e dei procedimenti narrativi. Ma poi ciascuno dei due scrittori traduce questo clima nella sua opera in modo del tutto personale e peculiare.
Postato il 23 marzo 2011

Nessun commento: