23 marzo 2011

I. Svevo, Senilità, cap. XII (Baldi)

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
(analisi tratta dal volume Dal testo alla storia. dalla storia al testo. Edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 303-305)
Gli alibi di Emilio. La decisione improvvisa di recarsi all’appuntamento con Angiolina mette in luce i meccanismi consueti della psiche di Emilio, che Svevo indaga con crudele acutezza. Smentendo tutti i propositi precedenti di dedicarsi interamente alla sorella e di trovare la «felicità» nella vita in comune con lei, l’eroe abbandona la morente perché la passione riaffiora in lui con prepotenza, cancellando ogni altro pensiero. Ma, come al solito, non sa guardare lucidamente in se stesso, ed ha bisogno di costruirsi alibi per tacitare i suoi sensi di colpa: il desiderio di vedere Angiolina viene giustificato col proposito di lasciarla definitivamente e di offrire la rottura come «olocausto» ad Amalia (la metafora enfatica, che appartiene al suo pensiero indiretto libero, tradisce il suo tipico modo di esprimersi, letterario ed ampolloso). Come ha trovato l’alibi che lo scarica di ogni rimorso, il cuore gli si apre alla «gioia» al pensiero di rivedere Angiolina. In realtà, quando Balli gli rivela l’ennesimo tradimento della donna, Emilio si rende conto di quanto sia ancora legato passionalmente a lei. Ma subito si costruisce un nuovo alibi: crede di non sentire più alcun bisogno di vendetta, di essere ormai superiore alle ire. La rivelazione di Balli, lungi dal distoglierlo dal rivedere Angiolina, gli fornisce un nuovo pretesto, ribadendo la necessità di abbandonare la ragazza. Emilio sente anche l’obbligo di giustificare la propria commozione agli occhi di Balli, che per lui rappresenta l’autorevole figura paterna a cui appoggiarsi, l’incarnazione del Super-io: «Sono tutte cose che mi commovono perché mi riconducono col pensiero al passato». E qui il narratore si affaccia a smentirlo, con uno degli interventi più espliciti, secchi e taglienti di tutto il romanzo: «Egli mentiva. Era il presente che s’era accalorato meravigliosamente». Emilio continua sistematicamente a costruirsi il castello delle sue menzogne: vorrebbe correre al più presto da Angiolina per dirle che non intende vederla più, ma in realtà per il bisogno spasmodico di vederla. Si impone poi la maschera dell’uomo superiore, calmo e distaccato, che non scende a violenze verso la donna che lo tradisce: la indossa per Balli, ma soprattutto per sé. E si abbandona al consueto impulso di sostituire ad una realtà sgradevole i suoi sogni, immaginando un colloquio «mite» e «affettuoso» con Angiolina.

Determinismo e colpa. La costruzione di autoinganni e alibi continua nelle riflessioni che lo accompagnano mentre si reca al luogo dell’appuntamento. La sua mente si arrovella soprattutto intorno all’idea di responsabilità e di colpa. In coerenza con la maschera di uomo superiore che vuole assumere, Emilio ragiona innanzitutto sulle colpe di Angiolina, con l’atteggiamento distaccato dello scienziato, immune da risentimenti, e fa ricorso al determinismo che è proprio della sua cultura positivistica: vuole affermare che il male causato da Angiolina non può esserle attribuito a colpa perché il suo comportamento non scaturisce da una libera volontà, ma è determinato dal meccanismo delle leggi naturali («il male avveniva, non veniva commesso»). In realtà questo scrupolo di assolvere Angiolina maschera il bisogno di assolvere se stesso dalla colpa di aver causato la morte di Amalia, di averla abbandonata al suo dramma senza comprenderla ed aiutarla. Gli viene per un attimo il sospetto che le sue riflessioni tendano proprio alla sua autogiustificazione, ma ne sorride, perché se tutto è determinato necessariamente dalla natura, ogni scrupolo di assolversi è vano e ridicolo. Il suo distacco "filosofico" è però solo un tentativo di rimozione: il determinismo non è che un ennesimo alibi per tacitare gli strati più profondi della psiche, in cui Emilio continua a sentirsi colpevole, nonostante ogni maschera "scientifica" da lui indossata: mentre sorride dell’errore suo e di Amalia, di essere stati sempre tanto sensibili alla responsabilità e alla colpa, usa proprio il termine «colpevoli» («Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!»): è come un lapsus che lo tradisce. Anche lo spettacolo delle onde, che il suo consueto «abito letterario», cioè la sua abitudine a filtrare ogni esperienza attraverso schemi letterari, gli fa paragonare alla propria vita inerte, ribadisce in lui la convinzione che la vita è retta da un meccanismo ferreo, che nulla può modificare, e ne conclude: «Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno». E ancora, più avanti, continua ossessivamente a ripetere a se stesso che recarsi da Angiolina è un comportamento che scaturisce dalla sua «natura», a cui è impossibile sfuggire, e che quindi non c’è colpa a dimenticare per un momento il suo dolore.
Questa insistenza del personaggio sul pensiero della colpa e sull’affermazione della propria innocenza inducono a chiedersi quale sia la posizione dello scrittore di fronte al problema: è d’accordo con Emilio o lo smentisce, giudicandolo criticamente? Se si guarda 1’impianto narrativo dell’episodio, le riflessioni sono sicuramente di Emilio, appartengono ad un suo discorso indiretto libero, non alla voce narrantez portavoce dell’autore; né d’altra parte vi sono interventi giudicanti espliciti del narratore. E quindi difficile rispondere. Certo, anche Svevo ha una matrice positivistica e schopenhaueriana che lo induce al determinismo, a ritenere che i comportamenti di Emilio scaturiscano dalla sua natura di «inetto», e che quindi egli non possa essere ritenuto responsabile dei suoi atti. Si pensi alla lettera già citata del 1927, in cui il «contemplatore» è definito come «un prodotto della natura», al pari del «lottatore». In realtà l’atteggiamento lucidamente, duramente critico che Svevo ha nei confronti del suo eroe, delle sue maschere e delle sue menzogne, non potrebbe spiegarsi se veramente lo scrittore non lo ritenesse responsabile dei suoi atti. Si può pensare, per tentare una soluzione del problema, che il determinismo faccia parte dell’ideologia in astratto dello scrittore, mentre nel concreto della rappresentazione egli scorga chiaramente la responsabilità di Emilio. Cioè quando Svevo rappresenta, quando usa gli strumenti conoscitivi che sono veramente suoi, quelli del romanziere, vede più acutamente di quando usa certi schemi ideologici che gli vengono dalla cultura della sua epoca, come appunto il determinismo positivistico e schopenhaueriano. La vera visione di uno scrittore non è quella che egli professa a parole, ma quella che fa corpo con il suo modo effettivo di rappresentare. Per questo Svevo può essere così critico nei confronti della responsabilità e della colpa del suo eroe. Come ha perfettamente scritto Franco Petroni, «lo scacco di Emilio è provocato non da inettitudine costituzionale, ma da cattiva coscienza; che, come è evidente, è cosa del tutto diversa [...]. La "senilità" di Emilio è un prodotto non di natura ma storico, ed egli ne porta su di sé la responsabilità, condividendola con la sua classe di appartenenza».

L’inetto e il destino. Lo stesso discorso si può fare per le riflessioni suggerite ad Emilio dai marinai che legano il bragozzo alla boa. L’eroe attribuisce 1’«inerzia del proprio destino», la propria debolezza ed infelicità, al fatto che nessun compito concreto, anche minimo come guidare una barca da pesca, sia mai stato affidato alla sua «attenzione» e alla sua «energia», cioè al fatto di essere escluso da ogni forma di vita attiva, da ogni possibilità di incidere sulla realtà pratica. Qui Emilio è ad un passo dal cogliere le cause profonde, storiche e sociali, della sua inettitudine: la sua condizione di intellettuale piccolo borghese, vittima della divisione sociale del lavoro, in un periodo in cui grandi processi tendono a declassare l’intellettuale, a togliergli peso sociale, potere e prestigio, relegandolo a mansioni subalterne ed escludendolo da ogni ruolo attivo nella realtà politica, economica, culturale. L’intellettuale, così messo ai margini, si sente un essere superfluo, impotente ad esercitare alcuna azione nella realtà. Tuttavia Emilio, pur intuendo tutto ciò, ricorre sempre, per spiegarlo, agli strumenti fornitigli dalla cultura della sua età, il determinismo positivistico e il fatalismo pessimistico di Schopenhauer: lungi dal vedere la radice della sua inettitudine e della sua infelicità nei processi sociali in atto, l’attribuisce al «destino», un meccanismo fatale, impassibile e immodificabile, che impedisce ogni intervento della volontà e inchioda senza scampo ad una certa condizione. Emilio sente dunque tale condizione come un fatto esclusivamente individuale, una condanna misteriosa e incomprensibile, che pesa solo sulla sua persona, non sul suo ceto sociale. Si ripresenta qui il problema di stabilire quanto queste riflessioni del personaggio rispecchino la visione di Svevo. Si può proporre la soluzione prospettata prima: anche lo scrittore con ogni probabilità, in nome dei suoi schemi culturali, considera il suo personaggio inetto per «destino», come prodotto di leggi naturali immodificabili. A riprova, in più punti del romanzo, il termine «destino», a proposito di Emilio, è impiegato dal narratore, che è indubbiamente portavoce dell’autore. Ma in realtà, nel concreto della narrazione, emerge sempre con chiarezza come non un «destino» individuale abbia condannato Emilio alla sua «triste inerzia», ma una precisa condizione sociale, storicamente collocata, quella dell’intellettuale piccolo borghese di un periodo di crisi, appunto, che viene rappresentata con grande ricchezza di dati ed analizzata con eccezionale penetrazione critica nelle sue condizioni sociologiche, ideologiche e culturali, persino psicologiche, come si è visto a suo luogo nel profilo. Anche in questo caso, dunque, la visione autentica dello scrittore non è quella affermata a parole, ma quella che sostanzia la rappresentazione.

I procedimenti narrativi: l’ironia oggettiva. L’incontro con Angiolina è la smentita radicale dei propositi di Emilio. Cadono le sue maschere di uomo superiore, di scienziato distaccato, indotto dalla sua visione scientifica e filosofica alla «rassegnazione» e al «perdono».
La realtà squallida dell’infedeltà della ragazza dissolve tutte le sue fantasie e i suoi progetti: emerge così la violenza latente della sua ossessione erotica, che sconvolge le sue costruzioni mentali e i meccanismi della rimozione. Emilio è preso da un’«ira enorme», afferra Angiolina con violenza, urla epiteti ingiuriosi e volgari, sino a concludere col gesto infantile e ridicolo di scagliarle dietro una manciata di sassolini. Questo contegno passionale e indecoroso di Emilio stride violentemente con l’immagine di calma, dignità e superiorità che egli aveva cercato di costruirsi. Ne scaturisce un effetto che è tipico dell’impianto narrativo del romanzo, quello dell’ironia oggettiva. In genere l’ironia e il sarcasmo contro l’eroe sono veicolati dagli interventi della voce narrante, come si è visto analizzando la pagina iniziale. Ma spesso, nel corso del romanzo, il narratore tace, non interviene esplicitamente a smentire, a correggere, a giudicare il personaggio. Per ottenere un effetto ironico basta il contrasto che si viene a creare tra le sue mistificazioni e la realtà effettiva, che si delinea con piena evidenza nel contesto narrativo. Qui, a circondare Emilio di un alone di caustica, implacabile ironia è sufficiente lo stridore che si determina tra l’esplosione goffa e ridicola della sua ira e le precedenti, conclamate pretese di superiorità filosofica, basta cioè il semplice montaggio narrativo, l’accostamento di due diverse immagini dell’eroe nella contiguità sintagmatica del racconto. Questa ironia oggettiva, nella sua fredda impassibilità, può raggiungere. effetti ancor più corrosivi degli interventi giudicanti espliciti del narratore.
Siccome la realtà è stata così deludente, Emilio, come di consueto, si rifugia nel sogno («Il sogno lo possedeva intero»): sogna che l’incontro con Angiolina sia andato come egli l’aveva voluto. L’episodio si chiude con un parallelismo creato da Emilio tra le figure di Angiolina e di Amalia: da entrambe egli si distacca senza poter dire «l’ultima parola che avrebbe addolcito almeno il ricordo delle due donne». L’associazione, alquanto sorprendente, tra due così diverse immagini femminili ricorre nella prospettiva di Emilio lungo tutto l’arco del racconto, e campeggia soprattutto nella conclusione del romanzo, come vedremo subito.
Postato il 23 marzo 2011

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