23 marzo 2011

I. Svevo, Senilità, cap. I (Baldi)

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di Baldi – Giusso – Razetti – Zaccaria
(analisi tratta dal volume Dal testo alla storia. dalla storia al testo. Edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 296-298)
Le maschere di Emilio. La narrazione, con un procedimento tipico del romanzo del secondo Ottocento, inizia in medias res, senza un indugio minuzioso a ricostruire gli antefatti, con il discorso che il protagonista rivolge ad Angiolina nel loro primo appuntamento. Solo dal secondo paragrafo il narratore fornirà alcune essenziali informazioni sulla personalità di Emilio. La sua fisionomia balza subito evidente dalle sue parole e dagli interventi del narratore. Il dato essenziale che lo caratterizza è il fatto che mente. Due sono i livelli delle sue menzogne: innanzitutto, coi suoi propositi di procedere con cautela nella relazione, nasconde ad Angiolina il fatto che per lui la ragazza non potrà essere più di un «giocattolo», dati i doveri a cui è legato; ma poi mente anche a se stesso, adducendo la «famiglia» e la «carriera» per motivare il proposito di non intrecciare un legame serio. La famiglia e la carriera in realtà non esistono: la prima non è costituita da una moglie e dai figli, ma dalla triste convivenza con la sorella nubile, in cui ciascuno dei due recita al tempo stesso la parte di genitore e di figlio dell’altro (Emilio sente la responsabilità di padre di famiglia per la sorella, ma a sua volta questa è per lui «come una madre dimentica di se stessa»). La seconda non è che un modesto «impieguccio», a cui si aggiunge la «riputazioncella» ricavata da un romanzo, scritto anni prima e che non ha più avuto seguito. Si manifesta qui il tratto primario della personalità di Emilio: la sua falsa coscienza, la sua tendenza a costruirsi maschere gratificanti ai propri stessi occhi, per non vedere in volto lo squallore della sua vera condizione. Le prime due maschere, che si presentano qui all’inizio del romanzo, quella del padre di famiglia e quella dell’uomo solidamente inserito nella sua carriera, rivelano il suo bisogno di ancorarsi conformisticamente ai valori della società borghese, poiché erano quelli i due piani su cui tradizionalmente l’uomo borghese si realizzava. Ma in realtà, come sappiamo, nella società ormai caratterizzata dal dominio della grande industria, dall’avvento del capitale monopolistico e dalla massificazione spersonalizzante, quei valori sono entrati in crisi. Si è sfaldata l’immagine di uomo quale era stata proposta dalla borghesia ottocentesca nella fase della sua ascesa, l’individuo, libero, attivo, energico, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la sua volontà, entro la sua sfera d’azione, costituita dalla famiglia e dal lavoro produttivo. L’«inetto» piccolo borghese Emilio, vittima di un processo di declassazione da una condizione agiata, è proprio il campione esemplare di questa crisi. Non può più coincidere con l’immagine del pater familias, forte, sicuro e saggio: il falso nido costruito con la sorella è un rifugio in cui chiudersi per cercare protezione da una realtà esterna che fa paura, in una sospensione della vita che comporta la rinuncia al godimento, la mortificazione di ogni desiderio e di ogni impulso vitale. E quella che il titolo del romanzo definisce «senilità», ma che è in realtà immaturità psicologica, fissazione ad una condizione infantile (come ha acutamente osservato Pavese, «quella che per Svevo è senilità, a me pare adolescenza»). Ma Emilio non può più coincidere neanche con la figura dell’uomo che si costruisce da sé energicamente il proprio destino. Si crede «una potente macchina geniale in costruzione », e non ha la lucidità di vedersi nella sua mediocrità di romanziere fallito e sterile. Anche lui fa «sogni da megalomane», come l’eroe di Una vita, si crea una maschera superomistica, da "genio", per rimuovere l’oscura percezione della propria inettitudine, della propria impotenza sociale. La funzione critica della voce narrante. La prima pagina già ci presenta in azione il meccanismo narrativo caratteristico del romanzo. E una narrazione eterodiegetica, ma il narratore non si eclissa, come esigerebbero le leggi del romanzo naturalistico: al contrario interviene frequentemente a giudicare e a commentare, a smascherare alibi e menzogne del protagonista. Rivela subito che i propositi di prudenza di Emilio celano la volontà di divertirsi semplicemente con la ragazza («la parola [...] un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così»); subito dopo smonta l’alibi della «famiglia» e della «carriera», precisando la vera realtà della situazione di Emilio (e, nel suo discorso, si può notare il valore caustico, la perfidia di alcuni diminutivi, «impieguccio», «famigliuola», «riputazioncella»). Vi sono poi commenti di un sarcasmo tagliente: «La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta». Infine il narratore smentisce seccamente, crudelmente i sogni velleitari di Emilio che si crede «potente macchina geniale in costruzione»: «Come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata». Si delinea così sin dall’apertura del romanzo la funzione che vi assumerà la voce narrante: in una narrazione focalizzata sul protagonista, la cui prospettiva inattendibile maschera e deforma la realtà, il narratore rappresenta l’alternativa di una prospettiva superiore, più lucida e consapevole, e traduce l’atteggiamento critico dell’autore verso il suo personaggio, il proposito di smascherare impietosamente i suoi autoinganni. Angiolina, costruzione mentale di Emilio. Il personaggio di Angiolina, al suo primo ingresso in scena, appare carico di valenze simboliche, offrendosi come emblema della giovinezza, della vita e della salute in opposizione alla senilità e alla mortificazione vitale di Emilio («il volto illuminato dalla vita», la «bella salute», «raggiante di gioventù e bellezza», i «colori della vita»). Ma il valore simbolico di Angiolina non appartiene all’oggettività del narrato: è la prospettiva di Emilio che trasfigura la donna in simbolo. L’eroe la assume implicitamente come antidoto alla sua «triste inerzia», alla sua «senilità», sentita come una vera e propria malattia. L’opposizione malattia-salute è quindi del personaggio, non dell’autore. Difatti il ritratto fisico di Angiolina non è proposto dal narratore, ma tutto filtrato attraverso l’ottica soggettiva di Emilio. La descrizione traduce l’intenso trasporto sentimentale e l’entusiasmo del personaggio. Lo rivelano le intense metafore, gli aggettivi carichi di emotività («bella salute», «tanto oro»); ma la prova indubitabile è data dall’immagine successiva di Angiolina: «La donna vi entrava! [nella sua vita] Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta...». Questo è chiaramente un discorso indiretto libero di Emilio, le parole appartengono al suo discorso interiore e recano l’impronta del suo linguaggio da «letterato», enfatico e lirico. E lui che trasfigura la donna in simbolo di gioventù e bellezza, attribuendole il compito di rigenerare la sua vita in nome della gioia e della pienezza vitale. Compare anche la metafora dell’«illuminare», e ciò conferma che la metafora analoga nella precedente descrizione di Angiolina, «il volto illuminato dalla vita», apparteneva anch’essa alla prospettiva di Emilio. L’opposizione malattia-salute, quindi, non è che un sogno evasivo come tanti altri dell’eroe, ed è fatta oggetto di critica, come tutto ciò che appartiene al suo punto di vista inattendibile. Difatti la realtà effettuale di Angiolina, quella di una ragazza mediocre, volgare, insensibile, sorda ad ogni sollecitazione intellettuale, avida solo di piaceri materiali (cibo, vestiti eleganti, sesso), emergerà poi chiaramente dall’oggettività del racconto, e si incaricherà di smentire i sogni di Emilio, straniandoli crudelmente. Gli schemi letterari di Emilio. L’eroe, idealizzando Angiolina e trasfigurandola in un’immagine sublimata, non solo la vede come simbolo di vita, ma anche come una sorta di musa, fonte di ispirazione letteraria: nel proporle le sue «dichiarazioni liriche », dopo tanti anni prova di nuovo il sentimento di creare, «di trarre dal proprio intimo idee e parole» (e difatti, più avanti, la definirà come «dea capace di qualunque nobiltà di suono o di parola»). Un’altra maschera di Emilio si dissolve: nella sua pretesa di vivere un’avventura «facile e breve» si era costruita l’immagine del libertino esperto della vita, dell’«uomo immorale superiore»: si rivela invece un sentimentale, un romantico idealista, un "angelista", che non sa vedere nella donna se non l’angelo puro e intangibile (non a caso la ribattezzerà col nome francese di Ange, angelo). Difatti, nonostante tutti i suoi propositi di cinico seduttore, non coglie dal contegno di Angiolina (l’ombrellino lasciato cadere opportunamente) quanto sia una ragazza facile, in cerca di uomini, ma resta subito incantato dalla purezza e dalla salute del suo profilo. Di nuovo si ha qui un intervento tagliente del narratore: «Ai rétori corruzione e salute sembrano inconciliabili». La voce narrante non solo mette in luce gli autoinganni e le maschere di Emilio, ma anche il fatto che veda il reale solo attraverso schemi letterari (come indica l’epiteto «rétore»). Ciò è confermato dall’ultima immagine di Angiolina: «Quanta forza e quanta grazia unite in quelle movenze sicure come quelle di un felino». Anche qui Angiolina è vista con gli occhi di Emilio, la sua figura è filtrata dall’ottica soggettiva dell’eroe. La frase è un vero discorso indiretto libero, che riporta i pensieri di Emilio mentre contempla la ragazza che si allontana. Ma estremamente rivelatrici sono le movenze «sicure come quelle di un felino». Sapremo più avanti che l’eroina del romanzo giovanile di Emilio è «un misto di donna e di tigre» ed ha appunto le movenze «del felino»; ma anche nel romanzo che poi Emilio si pone a scrivere sulla sua avventura con Angiolina la protagonista ha «qualcosa della donna-tigre del primo romanzo». Quella della donna tigre, felinamente sinuosa e ammaliatrice, è un’immagine abusata dalla letteratura decadente fin de siècle, di un dannunzianesimo di seconda mano. Qui Emilio, che percepisce sempre il reale attraverso schemi letterari (tra l’altro attardati e di second’ordine), applica meccanicamente anche alla donna appena conosciuta le immagini tanto radicate nel suo bagaglio culturale da divenire una seconda natura. L’eroe filtra attraverso stereotipi letterari la realtà non solo quando scrive, ma anche quando vive.
Postato il 23 marzo 2011

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