09 marzo 2011

Analisi de Il fu Mattia Pascal

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, vol. 3/2 – Svevo e Pirandello. Edizione modulare (pp. 145-147)
La liberazione dalla «trappola». Mattia Pascal, che vive in un immaginario paese della Liguria, Miragno, ha ereditato dal padre una grossa fortuna, ma è ridotto in miseria da un avido e disonesto amministratore, Batta Malagna, che si impossessa a poco a poco del patrimonio, approfittando anche dell'inettitudine del giovane, scapestrato e perdigiorno. Mattia si vendica seducendo la nipote di Malagna, Romilda, e mettendola incinta. Viene costretto a sposarla, ma il matrimonio per lui si rivela ben presto un inferno, sia a causa della moglie sia a causa della suocera. Anche la misera condizione sociale pesa su di lui: dopo una giovinezza agiata e gaudente di proprietario redditiere, si deve adattare ad un impiego squallido e mortificante, quello di bibliotecario nella biblioteca del paese, situata in una vecchia chiesa sconsacrata, abbandonata da tutti, invasa dalla polvere e frequentata solo dai topi.
Mattia Pascal ri propone quindi inizialmente la fisionomia di tanti altri eroi della narrativa pirandelliana, specie delle novelle: il piccolo borghese prigioniero di una «trappola» sociale, costituita dalla famiglia oppressiva e da un lavoro frustrante, che divengono metafore di una condizione esistenziale assoluta, di una «trappola» metafisica che mortifica e spegne la mobilità della «vita». Come altri personaggi vittime, anche Mattia cerca di rompere con la fuga il meccanismo che lo imprigiona: lascia il paese di nascosto, per cercare fortuna in America. Ma due fatti fortuiti intervengono a modificare radicalmente la sua condizione: innanzitutto una clamorosa vincinta alla roulette di Montecarlo, che gli assicura un notevole patrimonio, poi la notizia della propria morte: la moglie e la suocera lo hanno infatti riconosciuto nel cadavere di un uomo annegato in uno stagno. Mattia si trova così di colpo, come miracolosamente, libero dalla duplice «trappola», che lo imprigionava: la misera condizione sociale piccolo borghese e la famiglia. Dinanzi a lui si presenta ora un campo aperto di infinite possibilità. Ma commette un errore: uscito dalla «forma» impostagli dalle istituzioni sociali, che si concretava in una precisa identità personale, Mattia non si accontenta di vivere libero da ogni «forma» limitante, immerso nel flusso continuo della vita: vuole invece foggiarsi una nuova identità. È troppo attaccato alla concezione comune dell'identità e della persona per potersene liberare veramente. Non è ancora all'altezza di elevarsi ad una superiore posizione "filosofica" e critica, non capisce che l'identità individuale è comunque una costruzione artificiosa che mortifica l'infinita ricchezza e mobilità della vita. Per questo Mattia comincia a mutare radicalmente il suo aspetto fisico, si taglia la barba, si fa crescere i capelli, maschera l'occhio strabico con lenti scure, cambia foggia del vestire, poi si trova un nuovo nome, Adriano Meis, infine completa l'opera immaginando tutto un contesto alla sua nuova personalità, una storia passata, una famiglia, una serie di memorie.

La libertà irraggiungibile. Adriano Meis, assaporando la sua nuova libertà, si dà a viaggiare per l'Italia e l'Europa, ma ben presto prova un senso di vuoto e di solitudine penosa, di precarietà. Soffre ad essere escluso dalla vita degli altri, prova una nostalgia struggente per ciò che abitualmente circonda una persona: una casa, degli affetti. Essere libero significa anche essere completamente estraniato, «forestiere della vita». Anche questo smarrimento conferma come il protagonista non sia interiormente libero, resti troppo attaccato al comune concetto di identità, e persino a quella «trappola» della famiglia e delle relazioni sociali di cui pure aveva fatta così amara esperienza.
La nuova identità è una costruzione fittizia, esattamente come la precedente, e ne presenta tutti gli svantaggi, costringendo ad indossare una maschera, a mentire di fronte agli altri; ma è ben peggiore della prima, perché non presenta i vantaggi connessi con l'identità "normale", con la forma socialmente riconosciuta: la possibilità di stabilire legami con gli altri, di assumere consistenza attraverso opere materiali, crearsi una famiglia, lavorare. Non potendo disporre di questi meccanismi di rimozione, l'identità falsa rivela in modo traumatico a Mattia la verità sull'inconsistenza dell'io, ed il personaggio non è ancora in grado di reggerla, perché resta tutto dentro alla concezione comune della persona come entità definita e solida. L'errore dell'eroe non consiste dunque nell'aver scelto la libertà assoluta da ogni «forma», piombando così inevitabilmente in un vuoto angoscioso, come interpreta taluno, ma, al contrario, nel non essere stato capace di vivere davvero la sua libertà, rifiutando definitivamente ogni identità individuale, e di essersi costruito una nuova «forma», per di più falsa, quindi ancora più costrittiva e limitante.

I legami inscindibili con l'identità personale. Adriano Meis, non resistendo più alla sua condizione di «forestiere della vita», decide di reimmergersi nel flusso vitale (o meglio, in quello che egli crede essere il flusso vitale, mentre non è che la serie delle apparenze, delle forme fittizie del vivere sociale). Si trasferisce a Roma, prendendo in affitto una stanza presso una famiglia piccolo borghese, quella di Anselmo Paleari, vecchio pensionato maniaco di spiritismo e teosofia, che ama esporre agli altri le sue bizzarre teorie. Adriano/Mattia si innamora della giovane figlia di questi, Adriana. Nuovamente il comportamento dell'eroe dimostra come egli non sia ancora capace di elevarsi alla condizione di "filosofo" estraniato dalla realtà sociale, e senta l'irresistibile richiamo della «trappola». Tuttavia scattano inesorabilmente le conseguenze dell'assunzione di una «forma» falsa, quelle che la rendono di gran lunga peggiore della «forma» corrente degli altri uomini: pur amando Adriana, l'eroe non può stabilire un legame con lei, perché socialmente non esiste. Così, derubato dal cognato disonesto della fanciulla, Papiano, non può denunciarlo alla polizia; sfidato a duello dal pittore Bernaldez, non può accettare la sfida. L'identità fittizia non gli consente di soddisfare il suo bisogno struggente di immergersi nella vita comune. Adriano Meis scopre in tutta la sua agghiacciante chiarezza la sua condizione, di essere escluso irreparabilmente da quella vita sociale a cui è rimasto così strettamente legato. Si sente come un'ombra inconsistente, che tutti possono calpestare, non una persona. Si libera quindi della falsa identità di Adriano Meis, simulando un suicidio, e riprende la vecchia identità di Mattia Pascal. La decisione gli dà un senso di sollievo e di esaltazione euforica: «Ah, tornavo ad essere vivo, a esser io, io, Mattia Pascal. Lo avrei gridato forte a tutti, ora: "Io, io, Mattia Pascal! Sono io! Non sono morto!"». La ripetizione ossessiva del nome e del pronome «io» rivela eloquentemente quanto l'eroe sia rimasto attaccato all'idea di identità personale.

Il ritorno nella «trappola» della prima identità. Tornato alla sua identità originaria, rinunciando a quella libertà della nuova forma che si era rivelata una più opprimente costrizione, Mattia Pascal decide anche di ritornare nella vecchia «trappola» della famiglia, e prende il treno per Miragno. Ma, ripresentandosi a casa, scopre di non poter rientrare nella vecchia «forma»: la moglie si è risposata col suo migliore amico, Pomino, e ne ha avuta una figlia. Ora veramente l'eroe non può più avere alcuna identità. Per necessità oggettiva assume allora quell'atteggiamento di estraniato, di «forestiere della vita», di osservatore distaccato dell'assurda commedia dell'esistere, che prima non aveva saputo sopportare, e vive «in pace», senza quelle smanie e sofferenze che l'avevano spinto a tentar di rientrare nella «trappola» originaria. Riprende il suo posto nella biblioteca, e la assume come osservatorio della vita che scorre ormai lontana da lui, dedicandosi a scrivere la propria singolare esperienza. Questo memoriale steso dal protagonista al termine della sua vicenda costituisce appunto il romanzo.
Nella pagina conclusiva l'eroe discute con l'amico don Eligio, cercando di definire l'insegnamento che si può ricavare dalla sua esperienza. Il prete propone l'interpretazione più ovvia, ispirata al piatto senso comune: «Fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere». Per lui la "morale" della vicenda di Mattia Pascal sarebbe dunque l'impossibilità di rinunciare alla nostra identità, socialmente determinata. Taluni, come Benedetto Croce, hanno ritenuto che questo fosse veramente il senso del romanzo, ma non hanno tenuto conto (oltre che del mediocre filisteismo della morale, che non poteva certo essere quella di uno scrittore lucido, corrosivo, intellettualmente eversivo come Pirandello) dell'obiezione successiva di Mattia Pascal: «Non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia». Quindi l'identità solida e coerente non è stata affatto ripristinata, anzi, è stata dissolta del tutto, appare ormai impossibile.
Si può concludere che la vicenda sia un processo di formazione che termina con una completa assunzione di consapevolezza, per cui Mattia Pascal diviene veramente l'eroecoscienza, il "filosofo" superiore, che ha compreso come l'identità non esista, sia solo una costruzione illusoria? Forse è eccessivo supporlo. Mattia Pascal si limita a rendersi conto di non essere nessuno. Un successivo eroe, Moscarda di Uno, nessuno e centomila, procederà oltre, sino a rinunciare deliberatamente all'identità e al nome che ne è l'insegna, sprofondando gioiosamente nel fluire della vita e fondendosi in ogni istante con le cose mutevoli, senza più fermarsi in nessuna «forma» («Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo [...] muoio ogni attimo, io; e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero non più in me, ma in ogni cosa fuori»). Mattia Pascal non arriva a questa soluzione "in positivo": si ferma, per così dire, al momento negativo, alla pars destruens dell’illusione di un'identità individuale, ma non va oltre, non approda ancora a questa esaltante fusione con la «vita». Sa solo ciò che non è più, non ciò che potrebbe essere. E una prima tappa del processo, quella che sgombra il terreno dei pregiudizi correnti: il momento costruttivo sarà segnato dal successivo romanzo (che Pirandello inizia a scrivere già nel 1909, anche se lo condurrà a termine vari anni dopo). Significativa è allora l'ultima frase del Fu Mattia Pascal, che ne motiva anche il titolo: «Io sono il fu Mattia Pascal». L'eroe, a differenza di Moscarda, non rinuncia totalmente al nome, segno esteriore dell'identità. Deve fare ancora riferimento ad esso: si accontenta di porgli davanti quel segno "meno", la particella «fu», ad indicare l'avvenuta negazione dell'identità, senza che soluzioni alternative vengano prospettate. Ma tali alternative sono ben presenti già sin d'ora a Pirandello: lo testimonia la «lanterninosofia» di Paleari, in cui si prospetta appunto la liberazione dai vincoli contingenti dell'io ed un'immersione nella «vita universale, eterna», da cui solo perché ci costruiamo illusoriamente un'identità ci sembra di distaccarci. Quindi Pirandello non attribuisce ancora a Mattia Pascal il suo statuto definitivo di eroe "filosofo", che ha toccato il vertice della consapevolezza: si limita a proporre un eroe provvisorio, interlocutorio, il protagonista di un semplice processo di negazione delle illusioni e delle costruzioni fittizie del vivere sociale.
Postato il 9 marzo 2011

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