02 febbraio 2011

Storia d’Israele, Battista contro i preconcetti

di Cesare Cavalleri
Piace, nella Lettera a un amico antisionista di Pierluigi Battista (Rizzoli, pagine 120, euro 17,50), la foga con cui l’autore argomenta la propria tesi: finalmente uno scrittore che proclama le proprie convinzioni senza le cautele dialettiche con cui solitamente i commentatori si allestiscono una confortevole via di fuga.
Piace la foga, anche se l’argomentazione non sempre è convincente. Non è chiaro, innanzitutto, a chi si rivolge Battista: nella Lettera, infatti, egli passa indifferentemente dal tu al voi, dunque non si rivolge a un tipo specifico di antisionista, ma a una massa indifferenziata che va da Ahmadinejad e certi giornalisti occidentali, e include magari i lettori occasionali della Lettera
che finiscono per sentirsi colpevolizzare. Perché la tesi fondamentale di Pierluigi Battista è che il confine tra antisionismo e antisemitismo è talmente sottile che tende a scomparire, mentre la controtesi (nostra e del Battista nei momenti migliori) è che solo difendendo quel confine si può ragionare seriamente su quello che è avvenuto dal 1947 in poi nel tormentato lembo di terra bagnato dal Giordano. Battista, che l’anno scorso ha pubblicato un bel libro sull’insignificanza degli intellettuali (I conformisti, Rizzoli), sostiene la necessità di «desacralizzare la storia del sionismo e di Israele»; esorta a considerarla, «semplicemente, una storia normale. Una storia nella Storia, e non nel Divino».
Sarebbe giusto così, ma non si possono ignorare i risvolti teologici dello Stato di Israele, e infatti Battista confessa la sua «debolezza sentimentale» di «laico non ebreo che può solo immaginare lo stupore festoso e inebriante di un bambino ebreo rievocato da Gad Lerner nel suo Scintille, quando vide la commozione dei soldati israeliani al comando di Moshe Dayan che si scioglievano in lacrime toccando le pietre del Muro del Pianto». La storia non si fa con pregiudizio antisionista e/o antisemita, ma neppure con pregiudizio filosionista e/o filosemita.
L’argomentazione con cui Battista rimprovera chi denuncia certi misfatti israeliani, ma non si indigna per mille altri orrori, non regge: come diceva Flaubert, non si può piangere per tutti, bisogna scegliere. Ognuno si indigna liberamente come vuole e fin dove può. Almeno due, comunque, sono i punti fermi: lo Stato di Israele ha il sacrosanto diritto di esistere (accanto a uno Stato palestinese), diritto invece negato dall’Iran e da altri Paesi arabi confinanti; inoltre, la responsabilità storica di aver fatto fallire i negoziati di Camp David nel 2000, quando l’intesa fra israeliani e palestinesi era a portata di mano, è tutta e solo del criminale Arafat. Dunque, rivendichiamo il diritto di separare l’antisionismo dall’antisemitismo, diritto che lo stesso Battista esercita quando non risparmia critiche ad alcune scelte dei governi israeliani. Ma, appunto, senza pregiudizi e senza concessioni letterarie. Nelle ultime pagine, infatti, l’autore cita Philip Roth: «L’ostilità contro Israele è quasi universale fra le persone con cui ho a che fare». E Battista commenta: «Sì, 'quasi universale'. Lo può constatare anche un non ebreo filosionista come me». Io non so che gente frequentino Philip Roth e Pierluigi Battista: la gente che frequento io è prevalentemente filoisraeliana, e Israele è il Paese pur sempre protetto dagli Stati Uniti che è tuttora il Paese più potente del mondo.
Niente pregiudizi, dunque, e niente propensioni sentimentali, altrimenti si cade, come dice Checco Zalone, «nel relativismo scevro».
«Avvenire» del 2 febbraio 2011

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