24 febbraio 2011

Oggettività del bene

L'etica pubblica pretende «verità»
di Francesco D'Agostino
Le furiose polemiche sul capo del gover­no che stanno avvelenando l’Italia di­mostrano chiaramente quanto sia fragile il paradigma del liberalismo etico (non di quel­lo politico, che ha ben altra consistenza) che è dilagato nel nostro Paese negli ultimi an­ni. Nella sua formulazione più radicale (con­divisa – ahimè! – anche da alcuni politici cat­tolici) il liberalismo potrebbe essere rias­sunto nella drastica distinzione tra 'pecca­ti' e 'reati'. I primi dovrebbero essere rite­nuti da tutti (o almeno da tutti i veri libera­li) pubblicamente irrilevanti, almeno in una società pluralista che non solo riconosce, ma si compiace della irriducibile molteplicità e diversità dei singoli stili di vita e vuole tutti rispettarli. Altro discorso quello avente per oggetto i 'reati', atti da valutare, indipen­dentemente dalla moralità privata di chi li commette, come socialmente inaccettabili e meritevoli quindi di essere severamente pu­niti. Ebbene è rimarchevole come questo pa­radigma non abbia retto alla prova dal 'ca­so Berlusconi' e sia stato drasticamente mes­so da parte dai tantissimi che l’hanno per anni e anni verbosamente esaltato (al pun­to che i pochi che oggi continuano a difen­derlo riconoscono di non essere più di quat­tro gatti).
La distinzione che oggi va di moda fare non è più quella tra 'reati' e 'peccati', ma tra le azioni criminali (i 'reati'), le azioni che van­no contro la moralità privata (i 'peccati') e le azioni che vanno contro l’etica pubblica. Per chi assume questa posizione, costituisce un’indubbia difficoltà il fatto che manchi la parola adatta a designare questo tertium ge­nus: violare l’etica pubblica non è propria­mente un 'peccato' e non è nemmeno un 'reato': è però qualcosa di tanto grave, da giustificare la richiesta dell’uscita dalla sce­na politica di chi se ne renda responsabile. Ma chi sarà chiamato ad accertare questa responsabilità, se si rinuncia a ogni riferi­mento al codice penale e ai precetti etici con­solidati?
C’è un rischio che non va minimizzato: quel­lo che il giudizio sull’etica pubblica vada in definitiva affidato alla 'sensibilità' persona­le e sia di fatto ridotto a questione di mera immagine o in definitiva di 'buon gusto'. È indubbio che la sensibilità abbia il legittimo peso, ma è un peso che rileva, in un’epoca mediatica come la nostra, solo a livello di immagine (come sanno benissimo i politi­ci, che conquistano voti anche e forse so­prattutto attraverso la 'faccia' che esibisco­no in televisione). Ma se si vuole dar credito all’etica pubblica, come all’unica etica con­divisibile nelle società pluraliste, bisogna fondarla oggettivamente, perché sobrietà, o­nestà, decoro, correttezza, senso dello Stato, interesse prioritario per il bene pubblico, o – in una parola sola – esemplarità di vita, non possono ridursi ad atteggiamenti psicologi­ci o essere elaborati come valori ideologici: essi devono possedere una loro 'verità'.
Verità: e qui la parola temutissima dal libe­ralismo etico torna prepotentemente in pri­mo piano. Solo chi sia convinto che l’etica pubblica sia un’etica 'vera' può invocarne il rispetto. Altrimenti questa invocazione si trasforma in una mossa occasionale, di ca­rattere propagandistico-politico, che non merita altro se non corrispondenti contro­mosse, altrettanto occasionali e propagan­distiche.
Ecco perché l’appello all’etica pubblica non ci salverà, se non sarà radicato in una seve­ra presa di coscienza dei guasti che il relati­vismo etico libertario ha prodotto nel nostro Paese: guasti che sono stati sintetizzati nel­la durissima espressione «disastro antropo­logico », usata dal cardinal Bagnasco e ri­presa da monsignor Crociata per descrive­re il momento presente che vive l’Italia. Non abbiamo solo il compito di bonificare la no­stra classe politica, ricordandole i principi non negoziabili dell’etica pubblica, abbia­mo soprattutto il compito di rammentare a tutti, a partire dalle scuole, che il bene non coincide con i nostri desideri, ma possiede una sua dura oggettività. L’esaltazione del­l’etica senza verità indebolisce le coscien­ze e si è rivelata indifendibile. Prendiamo­ne definitivamente atto con un lodevole sforzo di onestà intellettuale: nella crisi che stiamo soffrendo, questo è l’unico, ragio­nevole e nuovo punto di partenza che pos­siamo prefiggerci.
«Avvenire» del 17 febbraio 2011

Nessun commento: