27 febbraio 2011

L'errore di Napolitano (che può rimediare)

di Giuliano Ferrara
Ho l'onore di conoscere il presidente Napolitano da molti anni. Quand'ero adolescente, venne a Roma da Napoli come capo della sezione culturale del Partito comunista. Era stimato fin da allora per la sua pignoleria e per il suo aplomb istituzionale. L'intellighenzia borghese del Pci, che era piuttosto sorniona nonostante il suo plumbeo stalinismo togliattiano, lo chiamava «il Prefetto» e ridacchiava della sua somiglianza con Umberto II. Lui tirava diritto, freddo e flemmatico com'è.
Nessuna storia personale è senza macchia, nessuna carriera senza errori, ma Napolitano è il tipo ideale del galantuomo meridionale. Quando Berlusconi vinse a sorpresa le drammatiche elezioni del 1994, l'allora capogruppo del maggior partito di opposizione tenne alla Camera un discorso aperto e responsabile, freddo in mezzo alle passioni scatenate. Il Cav. scese dal banco del governo, attraversò l'emiciclo e gli strinse la mano, gesto significativo e poco protocollare. Fece sensazione. Qualche tempo dopo proposi al presidente del Consiglio di mandare Napolitano a Bruxelles come commissario europeo, insieme con Mario Monti. Se ne discusse seriamente, eravamo arrivati al punto, ma alla fine quel magnifico tipaccio di Cesare Previti irruppe in una riunione di ministri, a Palazzo Chigi, e con impeto da centurione disse rombante la sua: «Napolitano no». «Perché?», domandai. «Perché è comunista», fu la sua risposta. Chiusa lì. Andò la Bonino, che non ho mai capito bene che cosa sia.
Cesarone sbagliava. Il peccato originale di Napolitano non è il suo comunismo all'italiana, che è ovviamente anche parte di una tragedia mondiale da me condivisa in gioventù, ma l'articolo 68 della Costituzione. Tra il febbraio e l'ottobre del 1993, anno del Grande Terrore giustizialista, quando l'uso barbarico della carcerazione preventiva assicurò alla galera un certo numero di ladri, ma distrusse con ferocia selettiva (i sommersi e i salvati si conoscono) le basi della Repubblica costituzionale, Napolitano contribuì da presidente della Camera allo smantellamento coatto di un pilastro della politica democratica, garanzia della divisione dei poteri. I padri costituenti avevano scritto queste parole: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale».
I padri, gente del calibro di Moro, Togliatti, La Malfa, Nenni, Andreotti, Terracini, Dossetti, Meuccio Ruini, De Gasperi e molti altri che potrei citare, non erano stupidi. Sapevano che questo scudo non avrebbe soltanto difeso i parlamentari dall'inquisizione e dal pregiudizio politico, ma potenzialmente anche da curiosità inerenti i loro comportamenti, privati e pubblici, segnati dall'illegalità. Tuttavia vollero che quelle parole così esplicite fossero iscritte nella Carta fondamentale, perché la politica può essere sporca, meschina, truffaldina, ma niente è più sporco, meschino e truffaldino della giustizia politica, dell'uso politico della giustizia. L'articolo 68 fu cancellato in un Paese stremato dalla delusione per il cattivo uso dell'immunità da parte delle Camere, e inferocito oltre ogni misura di misericordia e di equilibrio contro i responsabili di un declino del prestigio e della salute delle istituzioni, ma le conseguenze di quella decisione, presa sotto la ferula dei magistrati d'assalto, che si preparavano a correre per il potere candidandosi e formando nuovi partiti, sono state disastrose.
Da quasi vent'anni il Paese non respira più, vive in una perpetua apnea giudiziaria. Che voti per Berlusconi (...)
(...) o per Prodi, i governi dipendono dal comportamento dell'ordine giudiziario trasformatosi in potere autonomo e insindacabile in mano a una minoranza attivistica. Reggono o cadono, i governi eletti dal popolo, a seconda della loro forza di resistenza all'iniziativa blindata di alcuni magistrati che affettano di credere in una missione purificatrice di sradicamento del male, ma stringono nel loro mirino il «nemico assoluto» che secondo loro ha corrotto il popolo, intendono correggere o annichilire il giudizio sovrano degli italiani sulla politica. Questa missione reazionaria, codina, antidemocratica, che ha un costo inaudito per l'economia e per la pace civile, è assolta in forme militanti, passando da una indagine a un talk show dei più facinorosi, da una sentenza a una pressione vociferante e intimidente sul legislatore, sbaraccando lo stato di diritto, la privacy dei cittadini, mettendo in discussione tutto e minacciando tutti con la sola riserva, quando gli riesce, di selezionare gli avversari e risparmiarne alcuni, pur sempre ammonendoli e impaurendoli, allo scopo di ottenerne l'appoggio politico.
Il presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, ma della Costituzione è custode. Questa non è una questione costituzionale, non riguarda i sondaggi e la volubilità dell'opinione pubblica, la lotta tra i partiti. Questo passaggio lo riguarda direttamente, perché riguarda il tradimento consumato di una Carta in nome della quale si celebrano centocinquant'anni di Italia unita. Napolitano può dare un grande contributo di persuasione morale e di intelligenza critica alla storia di questo Paese, entrandovi a pieno diritto come un galantuomo al di sopra delle parti: predicare apertamente, a vent'anni dal tradimento, la necessità di ripristinare il testo mutilato della legge fondamentale dello Stato, e del suo principio cardinale di divisione dei poteri.
«Il Giornale» del 27 febbraio 2011

Le quote rosa non fanno bene a donne e imprese

di Alessandro De Nicola
In Germania le quote rosa vengono chiamate Frauenquote: il suono è magnifico perché alle orecchie di un italiano dà quel senso d'imperatività, inflessibilità e indocilità che sono le caratteristiche, per l'appunto, delle riserve indiane destinate alle signore.
Il dibattito de' noantri ha preso una piega piuttosto bizzarra: da una parte donne che disinteressatamente combattono per giusti diritti spalleggiate da maschi redenti e aperturisti che sì, certo, anche nelle loro aziende vorrebbero tanti consiglieri donna, salvo non averne finora messa nessuna o quasi.
In mezzo prudenti gradualisti che anche loro, per carità, son convinti che le Frauenquote siano wunderbar, ma implorano che almeno vengano introdotte lentamente e con sanzioni meno severe. Infine, uno stravagante gruppo di donne e uomini che dicono di no punto e basta, per motivi di libertà, dignità ed efficienza economica.
Proviamo a riassumerli? Le Frauenquote (anche nella versione temporanea proposta in Italia) sono un attentato alla libertà personale e d'impresa (e ledono il principio costituzionale di eguaglianza, ma non voglio farne una questione giuridica). Le aziende sono proprietà degli azionisti i quali scelgono per governarle chi pare a loro. Sono prigionieri di pregiudizi? Peccato: la performance delle loro società sarà peggiore delle altre. Non è questione di poco conto: la libertà viene intaccata poco per volta sempre per i più nobili motivi, finché, pezzetto per pezzetto, non ne rimane più.
Dignità. È l'argomento che viene sollevato più spesso dalle donne contrarie alle Frauenquote (mi ha divertito un articolo sui blog del Sole 24 Ore di Rosanna Santonocito che le ha paragonate alla legge Porcellum). L'essere delle raccomandate farà emergere una piccola casta di super-gettonate "gonne dorate" (come in Norvegia) o di parenti e amiche che avranno effetti devastanti verso le veramente brave: quando all'interno di un gruppo mi è difficile distinguere tra chi è capace e chi no, per andare sul sicuro considero tutti inaffidabili (George Akerlof ci ha vinto un Nobel applicando la teoria ai venditori di macchine usate). Accade anche per gli uomini, si ribatte. Quindi per rimediare a un male ne creiamo un altro?
Efficienza: qui le accademiche sfornano studi che dimostrano come team misti uomini e donne siano più produttivi di quelli a lugubre prevalenza maschile. A parte il fatto che per quel che riguarda la presenza nei consigli d'amministrazione le evidenze sono miste (si veda l'ottima rassegna della fondazione Friedrich Ebert, peraltro favorevole alle quote rosa), sfugge alle studiose che i risultati positivi sono frutto di una cooperazione volontaria. Ripeto: vo-lon-ta-ria. La quota imposta, come in Norvegia, non ha portato alcun beneficio alle società quotate: la performance della Borsa norvegese, nonostante gli ottimi fondamentali del paese, è di molto peggiore alla media. Non è capziosità: non dico che è colpa delle donne; certamente diventa difficile affermare che il loro ingresso forzato è automaticamente benefico. Gli studi, peraltro, mostrano inequivocabilmente che in Italia in tutti i posti di responsabilità (compresi amministratori delegati e direttori generali) le trenta-quarantenni sono presenti almeno tre volte di più delle ultra sessantenni: la società - strano eh? - si evolve, anche senza il Leviatano.
Infine l'ingestibilità: giustamente i benpensanti s'infuriano quando la Lega vuole quote di padani nella pubblica amministrazione o nell'assegnazione di case popolari. Eppure, credeteci o meno, anche loro si sentono discriminati. Così come pensano di esserlo (a volte a ragione) minoranze etniche (neri o asiatici o nordafricani o slavi), gay, lesbiche, transessuali, minoranze religiose (musulmani, buddisti, testimoni di Geova), obesi, nani, brutti eccetera. Cosa si fa, alle minoranze niente e alle donne che sono maggioranza la quota? E se un legislatore pazzo prescrivesse consigli-arlecchino (con situazioni assurde visto che in molti appartengono a varie categorie), questo aumenterebbe o diminuirebbe la ricchezza del paese e la possibilità di far fiorire il merito?
«Il Sole 24 Ore» del 25 febbraio 2011

Twitter e Facebook non sono stati i fucili

di Moisés Naím
Quella di Tunisi è stata la "Rivoluzione di WikiLeaks", quella egiziana la "Rivoluzione Facebook". WikiLeaks ha permesso ai tunisini di conoscere il contenuto di un dispaccio in cui l'ambasciatore Usa rivelava l'incredibile livello di corruzione del dittatore e della sua famiglia. In Egitto sono stati i giovani, stanchi di Mubarak e del suo regime, a incontrarsi e organizzarsi attraverso internet. Facebook e Twitter hanno reso finalmente possibile il coinvolgimento del popolo e il suo riversarsi per le strade. Il resto è storia.
In realtà non è andata proprio così. Questa non è stata né è storia. Non c'è dubbio che i social network o le notizie filtrate attraverso WikiLeaks hanno qualcosa a che fare con le insurrezioni popolari. Qualcosa. Ma questa visione non ci spiega ad esempio il perché la Libia, un paese con una bassissima diffusione di internet, o lo Yemen, con percentuali di utilizzo ancora più ridotte, siano stati i paesi più scossi dalle rivolte.
Una delle sorprese delle proteste di piazza in Egitto è stata la loro diversità sociale, religiosa, generazionale e regionale. E nonostante in Egitto vi siano in proporzione più utenti internet che nel resto della regione, si può supporre che una notevole percentuale di coloro che hanno partecipato alle proteste non ha un profilo su Facebook né utilizza Twitter per comunicare; e con molta probabilità neppure utilizza internet abitualmente.
È evidente che, una volta emerso un gruppo di leader che si organizza grazie a internet e che riesce a mobilitare un alto numero di sostenitori, a questi si uniscono molti altri, informati attraverso canali diversi da internet, che condividono le stesse esigenze e desideri di cambiamento. Il concetto chiave è il fatto «che condividono le stesse esigenze e desideri di cambiamento». La motivazione per riversarsi nelle strade risiede in questa frustrazione generalizzata, prodotto di decenni di cattive politiche economiche, combinate con frequente corruzione, disuguaglianza crescente e disillusione diffusa. E vedere in tv che in altri paesi queste azioni portano a un risultato e che il popolo uscito per strada riesce ad abbattere un tiranno diventa una potente fonte di mobilitazione. Da questo punto di vista, i canali di news via satellite in lingua araba diffusi hanno giocato un ruolo molto più importante dello stesso internet.
Forse la cosa più importante da sottolineare è che il fascino giocato dal ruolo delle nuove tecnologie all'interno dei cambiamenti politici nel mondo arabo ha offuscato l'importanza rivestita in passato da un'altra tecnologia: i fucili. L'operato delle forze armate in Tunisia o Egitto è stato altrettanto se non più determinante di Facebook. In questi paesi i militari hanno privato del proprio appoggio i rispettivi dittatori, cui non è rimasta altra scelta che andarsene. Come ho già scritto in altri articoli, sono i militari a stabilire il "quando" e il "come" della fine di una dittatura. Cosa ha a che vedere internet con tutto ciò? Molto meno di ciò che stiamo leggendo e ascoltando nelle notizie di questi giorni.
Riconoscere la realtà delle cose aiuta a far luce sul futuro politico dei paesi scossi da tali rivolte popolari. In Egitto, per esempio, a meno di assistere a una continuazione della pressione popolare, che obbligherebbe i militari ad accettare riforme più profonde, la rivoluzione sarà servita soltanto a rimpiazzare una piccola élite corrotta con un'altra. I militari egiziani rappresentano un importante fattore economico e ottengono enormi benefici da quelle cattive politiche che continuano a lasciare migliaia di giovani egiziani senza lavoro e futuro. E togliere i privilegi al corpo militare sicuramente richiederà molto più che aprire una pagina su Facebook o una denuncia su Twitter.
(traduzione di Graziella Filipuzzi)
«Il Sole 24 Ore» del 27 febbraio 2011

26 febbraio 2011

Ci insegnò a parlare e a guardare

L'Accademia Galileiana di Padova ospita, dal 24 al 26 febbraio, il seminario internazionale "Pietro Bembo e le arti". Uno degli organizzatori dell'incontro, che è anche tra i relatori, ha scritto per il nostro giornale questo articolo introduttivo alla conoscenza del cardinale che fu scrittore e grande umanista
di Guido Beltramini
(Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza)
Sembra fosse di corporatura minuta. Due grandi pittori ne ritraggono lo sguardo penetrante e il naso aquilino, da rapace. Giovanni Bellini ci mostra Pietro Bembo intorno ai trent'anni, vestito di nero, con i lunghi capelli biondi, un giovane intellettuale che guarda assorto il paesaggio del Veneto che canterà negli Asolani. Tiziano lo dipinge quarant'anni più tardi, severo nella sontuosa veste di cardinale, con una folta barba bianca, principe della Chiesa e autorevole arbitro della cultura italiana. Nei due dipinti è tracciata la parabola della vita di Pietro Bembo, che dagli studi letterari giunge alla porpora, tra il Veneto e Roma. Nato a Venezia nel 1470, sul finire del secolo Pietro, con Aldo Manuzio, rivoluziona il concetto di libro, curando volumi di classici di piccolo formato privi di commento, da leggere al di fuori delle aule universitarie. Nei suoi Asolani, stampati presso Manuzio nel 1505, diede per primo spazio letterario ai moti dell'animo. Fu Storiografo e Bibliotecario della Repubblica Veneta e a sessantanove anni fu nominato cardinale da Paolo III, si trasferì a Roma, dove si spense nel gennaio del 1547.
È a Bembo che si deve l'italiano che usiamo ancora oggi. Nel 1525 pubblica la Prose della volgar lingua, dove codifica l'italiano come lingua nazionale, fondata sugli scritti di Petrarca e Boccaccio. Il successo è enorme, e il suo influsso è normativo per la cultura letteraria del tempo. Ma nei dieci anni precedenti, a Roma in qualità di segretario di Papa Leone X, Bembo aveva assistito all'affermarsi di un'altra rivoluzione, con Michelangelo e Raffaello creatori di un'arte nuova, ma basata sulla eccellenza di quella romana antica: la perfezione senza tempo, e senza inflessioni regionali, di opere che sono i fondamenti di quello che oggi chiamiamo l'arte del rinascimento. I tre si conoscevano bene. Raffaello aveva ritratto Bembo quando erano giovani alla corte di Urbino, e Pietro, in una lettera del 1516, riferisce di una gita insieme a Tivoli sulle rovine di villa Adriana. Con Michelangelo Bembo condivise amicizie, e attraverso Vittoria Colonna, nell'ultimo decennio di vita, anche afflati spirituali. Nel terzo libro delle Prose della volgar lingua Bembo indica in Michelangelo e Raffaello i protagonisti della nuova arte rinascimentale, quasi fossero i modelli di una lingua italiana "per figure".
Il problema storiografico dei rapporti fra Bembo, le arti e gli artisti è affrontato a Padova in un grande convegno internazionale, con specialisti di Europa e Stati Uniti, invitati dal Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. "Bembo e le arti" è nodo complesso, da dipanare seguendo diversi fili. Certamente le frequentazioni personali di Bembo con gli artisti, dato che abbiamo notizia di rapporti diretti anche con Bellini, Jacopo Sansovino, Benvenuto Cellini, Sebastiano del Piombo, Valerio Belli. Un altro filo è quello delle committenze dirette di Pietro, come il ritratto di Navagero e Beazzano ottenuto da Raffaello, la medaglia ritratto di Valerio Belli o la splendida testa di Cristo in marmo del misterioso Pirgotele, oggi al museo del Bargello. Una ulteriore linea d'indagine sono le collaborazioni di Bembo a progetti artistici, come la stesura dei testi per le iscrizioni monumentali sulla facciata villa Imperiale a Pesaro o per le iscrizioni sulle tombe di Castiglione e Raffaello, o ancora i consigli per la decorazione pittorica nella sala dei Giganti a Padova. La trama che regge l'intreccio è la celebre collezione che Bembo riunì nella propria residenza padovana ottenuta nel 1532, un vero e proprio museo di oggetti d'arte, di storia, di scienza. I dipinti, provenienti anche dalla collezione del padre Bernardo, erano di Raffaello, Giovanni Bellini, Mantegna, Tiziano, Memling. Le statue erano alcuni fra i pezzi antichi più belli noti del rinascimento, come la testa di Antinoo oggi nelle collezioni Farnese di Napoli, accanto a sculture moderne di Pietro Lombardo, a bronzetti e ad argenti cesellati da Benvenuto Cellini. Vi erano gemme antiche incise, che erano appartenute a Lorenzo il Magnifico, antiche monete e medaglie contemporanee di Valerio Belli. Non mancavano pezzi insoliti, come la Mensa Isiaca, una grande lastra da altare in bronzo e argento con geroglifici egizi incisi, il primo oggetto del genere mai comparso in una collezione rinascimentale. E ancora vi erano codici antichissimi, come il Virgilio Vaticano (IV-V secolo dell'era cristiana) o Le Commedie di Terenzio, accanto a manoscritti miniati della grande scuola padovana di Bartolomeo Sanvito.
L'unicità del Museo Bembo consisteva nel non essere solo frutto del gusto del proprietario, ma piuttosto, essere in larga parte, il suo strumento di indagine sul mondo. Bembo è uno studioso, e nel compulsare gli autori antichi, come già fece Petrarca, utilizza le testimonianze materiali del mondo romano per approfondire la sua conoscenza dei testi. In questo senso, iscrizioni contengono preziose indicazioni sul diritto romano, monete possono suggerire la corretta scrittura di un termine, mirabilia naturali possono aiutare a comprendere Plinio il vecchio. La stessa casa padovana di Bembo, dove era conservata la collezione, evocava le residenze degli antichi romani, con ampi giardini, statue, padiglioni, piante rare.
Nel Cinquecento il prestigio di Pietro Bembo era enorme, e la fama del Museo Bembo lo rendeva un luogo di pellegrinaggio per intellettuali e artisti, un baricentro culturale tanto che - come scrisse nel 1549 Pietro Aretino - "pare che la stessa Roma si sia trasferita in Padova". Ci pensarono gli eredi di Bembo a disperdere rapidamente la collezione dopo la morte del cardinale. Con il convegno padovano ha inizio un progetto di ricerca per costituire la base di conoscenza di mostra prevista per il 2013, che punta a riportare a Padova i capolavori presenti nella collezione di Bembo, che nei secoli successivi sono diventati parte delle collezioni dei grandi musei internazionali.
«L'Osservatore Romano» del 25 febbraio 2011

25 febbraio 2011

Il significato storico della congiura di Catilina

Fino a che punto sono valide le testimonianze di Sallustio e di Cicerone sulla congiura di Catilina?Catilina fu davvero un rivoluzionario popolare?
di Martino Menghi e Massimo Gori
Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 23 – 24
Il giudizio di Cicerone e di Sallustio
Catilina ebbe la sfortuna di imbattersi in un console, Cicerone, che non solo ne rivelò le trame e le annientò, ma che nelle Catilinarie lo dipinse con le tinte più cupe dell’oratoria politica romana. La sua sfortuna fu aggravata dal fatto che Sallustio, lo storico che ne narrò la celebre congiura, lo presentò come esempio del degrado morale e politico a cui la superbia della nobilitas aveva condotto Roma. I veementi attacchi dell’oratore insistono con ostinazione sul dissidio tra legalità e illegalità, tra il comportamento suo e del senato e quello dei seguaci di Catilina, mentre lo storico vede nella congiura l’esito più tragico della lotta dei populares contro gli optimates e un momento esemplare nella crisi morale dello stato. Benché Cicerone e Sallustio militassero in due fronti politici contrapposti, il loro moralismo mostra una significativa convergenza verso gli ideali di moderazione dei boni cives, il ceto dei possidenti, interessati a una risoluzione pacifica delle lotte civili e al ripristino della legalità.

La congiura al di là di Sallustio
Analisi moderne dipingono invece la congiura di Catilina come uno dei tanti episodi di violenza politica della storia romana dai Gracchi in poi: l’alto numero di processi de vi (la violenza politica) lo testimonia; Catilina non è l’unico ad aver sfruttato per fini personali la presenza in Roma di vere e proprie squadracce di facinorosi. Personaggi come Clodio, il celebre nemico di Cicerone negli anni cinquanta del secolo, il fratellastro della Lesbia di Catullo, non dovettero essere troppo dissimili da Catilina: lo provano la stessa nobiltà dei natali, una carriera politica all’ombra di un potente (per Clodio è Cesare), l’oscillazione tra legalità e illegalità, l’insofferenza per i costumi tradizionali e infine la tragica morte.
Anche la visione di un Catilina rivoluzionario popolare va ridimensionata: sulla scorta di Sallustio (De Catilinae coniuratione, 33) alcuni storici si sono spinti a parlare di una conversione del nobilissimo Catilina alla causa dei populares, con il relativo e coerente programma di tabulae novae (abolizione dei debiti), di leggi agrarie, di dittatura, di riscatto dei miseri. In realtà la semplice dinamica della lotta tra populares e optimates si rivela insufficiente a capire quegli interessi personali e quei fermenti politici e sociali che emergono in tutta la loro forza nell’assenza di un potere militare forte (sono gli anni in cui Pompeo è impegnato nelle guerre in Oriente) e dei quali la congiura è lo specchio.
Più che la conversione "popolare" di Catilina è opportuno mettere in rilievo altri fatti. Il primo è che fu proprio la nobilitas a impedire almeno due volte e con mezzi disinvolti a un suo esponente di accedere al consolato e che quindi solo dopo le candidature legali Catilina si decise per il colpo di stato; ancora più importante è che in occasione di un processo de repetundis (concussione) nel 65 a.C., vale a dire solo due anni prima della congiura, Catilina era ancora legato all’aristocrazia, era difeso da Cicerone in persona, ma comunque veniva assolto dal "popolare" Cesare che presiedeva la giuria. Anche l’alleanza elettorale per le elezioni del 64 a.C. con Gaio Antonio Hybrida (poi collega di Cicerone nel famoso consolato del 63 a.C.), sillano, aristocratico e nelle stesse critiche condizioni di Catilina, non sembra coincidere con un programma popolare. Quel che emerge da questi dati è insomma l’esistenza di più di un partito all’interno del senato stesso e di legami ambigui, si direbbe oggi "trasversali", tra esponenti delle due fazioni dei popolari e degli ottimati. In questa ambiguità che la congiura risalisse al 64 a.C. (come fa credere Sallustio), o che, come pensano i moderni (Syme in testa), sia stata innescata nel 63 a.C. dopo l’ennesima sconfitta nelle elezioni poco importa. Fu solo infatti nel 63 a.C. che confluirono intorno a Catilina degli elementi sovversivi provenienti dal proletariato rurale indebitato e dalle fila dei nobili in rovina, lontani questi ultimi dai populares stessi, ma a ogni modo nemici giurati di ogni creditore e possidente. La famosa seduta in senato del 5 dicembre del 63 a.C. (De Catilinae coniuratione L-LIV), nella quale si dibatté della condanna a morte dei catilinari, mostra nelle sue differenti opinioni la presenza di più correnti all’interno dell’aristocrazia non riconducibili a programmi politici ben definiti. La politica dell’età della rivoluzione romana si rivela al solito come un insieme complicato di istanze sociali ed economiche di ceti contrapposti, di rivalità tra ordini, ma soprattutto di ambizioni, di interessi personali, di demagogia e di gelosie o amicitiae tra nobili: l’assenza in Catilina di un programma popolare preciso, l’oscillazione tra le amicizie aristocratiche (Crasso e Cesare) e la disperazione estrema del suo colpo di stato stanno a testimoniarlo.
Postato il 25 febbraio 2011

Il discorso e il ritratto in Sallustio

Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 145 - 151)/em>
di Martino Menghi e Massimo Gori
Tra II e I secolo a.C. i limiti del modello storiografico annalistico per quel che riguarda l’interpretazione dei fatti portano alla nascita di forme nuove del racconto storico: le res gestae, la monografia, il commentario. Tuttavia la particolarità della situazione politica e sociale di Roma conduce gli storici a inquadrare il proprio discorso in finalità di giustificazione e di edificazione civile e a denunciare o a esaltare gli uomini che minano o rafforzano le fondamenta dello stato e della tradizione repubblicana: i due strumenti tradizionali del discorso e del ritratto sono appunto funzionali a questo scopo.

COSTRUZIONE DEL DOSSIER
1. I limiti del modello annalistico e le forme storiografiche nuove I a.Gli annali e i loro limiti
1 b. La necessità dell’interpretazione, di un giudizio politico e di una forma letteraria nei nuovi generi
2. Il discorso e il ritratto come strumenti di interpretazione, di accusa e di obolo. io
2a. Il discorso: critica e interpretazione
2b. Il ritratto "paradossale"

1. I LIMITI DEL MODELLO ANNALISTICO E LE FORME STORIOGRAFICHE NUOVE
1a. Gli annali e i loro limiti
Gli annali sono una forma di registrazione "storica" che ritroviamo in parecchie città-stato del mondo classico. Da parte delle gerarchie sacerdotali venivano messi per iscritto gli avvenimenti più importanti dell’anno, a cominciare dal nome dei magistrati eponimi (dai quali l’anno prendeva nome), riservando una particolare attenzione per i fatti atmosferici, i prodigi o le vicende belliche: la pratica evidentemente rientrava nella sfera del sapere sacro del quale i sacerdoti avevano il monopolio. Queste registrazioni assumevano carattere di ufficialità, venivano esposte in pubblico su delle tavole (a Roma la famosa tabula dealbata, la tavola bianca) e potevano essere raccolte in volumi: a Roma questa documentazione prese il nome di Annales maximi, che vennero pubblicati a opera del pontefice massimo Muzio Scevola intorno al 130 a.C.
La documentazione degli Annales ha influenzato a tal punto la successiva produzione storiografica che essi non solo hanno rappresentato una fonte sfruttata da tutti gli autori che si occuparono di storia ab urbe condita, ma hanno anche fornito un modello di narrazione "anno per anno" che contraddistingue in modo originale la storiografia romana; di contro, il predominio in essi delle tendenze all’edificazione morale o alla giustificazione dell’operato dei magistrati, proprie di una storiografia "ufficiale", fa sì che gli autori romani prendano a prestito dai greci il metodo di indagine sulle cause e le strutture retoriche.

Si considerino le seguenti testimonianze: la prima è di Cicerone, che nel De oratore riserva una particolare attenzione alla storia nella formazione del perfetto oratore; la seconda è un frammento dagli Annali che Fabio Pittore scrisse in greco nella seconda metà del III secolo a.C. (forse per scopi apologetici di fronte alla storiografia greca filocartaginese) e che nella sua concisione può dare un’idea della natura delle scarne registrazioni degli annali arcaici.

CICERONE
La storia infatti non era altro che la compilazione di annali. Per conservare il ricordo degli avvenimenti pubblici dall’inizio della storia di Roma fino al pontificato di P. Muzio Scevola, il pontefice massimo metteva per iscritto i fatti di ciascun anno, li trascriveva sopra una tavola bianca e la esponeva in casa sua, affinché il popolo li potesse conoscere: queste registrazioni anche oggi sono chiamate Annales maximi. Hanno seguito questo modo di scrivere in molti, che ora hanno lasciato senza alcun orpello letterario solo i nomi dei tempi, degli uomini, dei luoghi e delle imprese.
(De re publica Il, 52-53; trad. M. Sartori)
FABIO PITTORE
Perciò allora per la prima volta uno dei due P consoli fu nominato tra la plebe, ventidue anni dopo che i galli presero Roma.
(Annali fr. 23 Chassignet; trad. E. Narducci)


1b. La necessità dell’interpretazione, di un giudizio politico e di una forma letteraria nei nuovi generi
È probabile che già i volumi degli Annales maximi, per non parlare dei primi annalisti, si staccassero dalle nude registrazioni degli eventi propri delle tavole dei pontefici. Viene cioè percepita tutta la debolezza di un modo di raccontare la storia non più adatto a una società diversificata socialmente, in via di rapida espansione e soprattutto già laica, pronta a risolvere i propri problemi con la politica e non con il sapere religioso tradizionale. La storiografia del II secolo a.C. si sforza dunque di superare il modello annalistico tradizionale per una forma di narrazione più distesa e più ricca; in questo senso la polemica di Catone il Censore contro l’annalistica è sintomatica di una utilizzazione politica della storiografia, che in effetti nasce come prodotto del ceto dirigente e come supporto all’attività pubblica, di gran lunga preferibile per un cittadino romano.
Nelle Origines (scritte fino alla data del sua morte, 149 a.C.) Catone riprende modelli ellenistici sulla storiografia delle fondazioni di città (ktìseis), ma romanizza per così dire la trattazione partendo dalla venuta di Enea in Italia per giungere a vicende a lui contemporanee e prescindendo volutamente da qualsiasi elemento di esaltazione personale dei condottieri; la storia è ancora opera collettiva del senato e del popolo di Roma (negli annali non si nominavano i generali vincitori). Catone amplia tuttavia l’orizzonte della storia di Roma all’Italia e dimostra una certa insofferenza per i limiti contenutistici del modello annalistico.

CATONE
Non mi va di scrivere ciò che figura sull’albo del pontefice massimo, quante volte il prezzo delle derrate è rincarato, quante volte l’ombra o qualcos’altro ha fatto schermo alla luce della luna o del sole.
(Origines fr. IV 1 Chassignet; trad. E. Narducci).

La critica all’annalistica tuttavia va oltre l’aspetto puramente contenutistico per investire questioni di metodo e di narrazione letteraria dei fatti. Una società in cui i valori collettivi vengono meno - primo fra tutti il mos maiorum - ha bisogno in storiografia di forme letterarie nuove e di una narrazione che metta in primo piano l’individuo e la sua coscienza di sé. Il carattere dell’edificazione morale o politica e della giustificazione storica non viene meno, ma si adatta alle nuove aspirazioni carismatiche dei nobili (militanti sia tra gli optimates sia tra i populares) e recepisce forme ed elementi letterari dalla storiografia "tragica" ellenistica e dalla biografia. Ecco allora che si affermano, su modello greco, nuovi generi storiografici come la monografia, le res gestae, il commentario; non solo, ma queste innovazioni si accompagnano ad accresciute esigenze letterarie e al formarsi di una coscienza critica più matura. All’inizio del I secolo a.C. lo storico Sempronio Asellione sente il bisogno, sul modello del razionalismo polibiano, di una più matura scienza delle cause come carattere che distingue le res gestae dai vecchi annales, che vengono tacciati di puerilità. Qualche anno prima Celio Antipatro aveva invece dato un taglio netto all’uso tradizionale di partire ab urbe condita nella narrazione, e si era concentrato, non evitando peraltro il ricorso al fantastico, sulla storia della seconda guerra punita: meritò per il suo stile a effetto le lodi di Cicerone e aprì la strada alle monografie di Sallustio. Nello stesso secolo alcuni dei maggiori esponenti del mondo politico romano, da Silla a Cicerone, da Cesare ad Augusto, scrivono commentari apologetici nei quali narrano le proprie vicende illuminandole di una luce tale che possano rispondere alle accuse loro indirizzate: si tratta sempre della difesa della dignitas del magistrato romano che nelle intenzioni partigiane di questi uomini coincide con la dignitas dello stato. La veste letteraria, dissimulata, è invece funzionale a questo scopo.
Leggiamo dunque il passo di Sempronio Asellione di cui abbiamo parlato e una orgogliosa affermazione di Sallustio sull’importanza del lavoro dello storico.

SEMPRONIO ASELLIONE
Ma tra coloro che hanno voluto lasciare degli annali e coloro che hanno cercato di scrivere compiutamente una storia romana, questa è la differenza capitale. I libri "annali" si limitavano a esporre i fatti e la loro cronologia, alla stregua, più o meno, di chi scrive un diario, quello cioè che i greci chiamano "efemeride". Io osservo invece che a noi sta bene non solo riferire i fatti, ma anche le intenzioni e i moventi delle imprese. Infatti i libri annali non riescono per nulla a suscitare alacrità nella difesa dello stato o a imporre remore alla sovversione. Scrivere sotto quale console cominciò la guerra e sotto quale finì e chi fece il suo ingresso trionfale, ma non mettere in evidenza lo svolgimento della guerra né i decreti nel frattempo emanati dal senato o le leggi e le rogazioni votate, e non riferire le intenzioni che promossero gli avvenimenti, tutto ciò è contar favole ai bambini, non scrivere storia [res gestae].
(Rerum gestarum libri fr. 1 e 2 Peter; trad. G. Bernardi Perini)
SALLUSTIO
Lodevol cosa è tornar utili allo stato con l’azione, ma è cosa altrettanto egregia illustrarne le imprese con la parola; si può meritar fama in pace o in guerra, e fra quanti operarono e quanti narrarono le imprese altrui, molti si procurano lodi.
(De Catilinae coniuratione III, 1; trad. P. Frassinetti).

2. IL DISCORSO E IL RITRATTO COME STRUMENTI DI INTERPRETAZIONE, DI ACCUSA E DI APOLOGIA
2a. Il discorso: critica e interpretazione
L’uso dei discorsi è un elemento caratterizzante, costitutivo si potrebbe dire, della storiografia classica fin dalle sue origini. Se infatti la storiografia rappresenta un tentativo di salvare «le imprese meritevoli di memoria» (Sallustio, De Catilinae coniuratione IV, 2), «perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose [...] non restino senza fama» (Erodoto, Storie I, 1), e in questo senso lo scopo coincide con quello dell’epica, essa deve anche trovare forme letterarie per narrare i fatti e sopperire alla mancanza di archivi e di fonti orali o scritte che sostituiscano la visione personale, e nel contempo criteri di razionalità per distinguere il vero dal falso. Il discorso è lo strumento che consente di aderire alla realtà e di interpretarla nel suo senso generale e nello stesso tempo, essendo la modalità comunicativa più usata nella politica antica, di riprodurre in forma dialettica due o più idee contrapposte. In quanto strumento letterario e poiché in genere pone dei problemi di veridicità, ecco tuttavia che gli storici lo usano con grande accortezza collocando i discorsi in punti cruciali della vicenda e in svolte significative. Naturalmente la storiografia moderna ha ripudiato questo mezzo di espressione perché non giustificabile di fronte alla critica delle fonti, ma così ha certamente perso uno strumento di rappresentazione sintetico ed efficace, e soprattutto adatto alla concezione della storia come opera letteraria.

Il passo che segue è la famosa teorizzazione tucididea dell’utilizzazione dei discorsi; nell’opera dello storico greco queste parole vengono dopo la sezione "archeologica" della Guerra del Peloponneso, nella quale egli ha potuto ricostruire la storia greca dell’età arcaica soltanto con la speculazione razionale; la stessa esigenza di razionalità presiede alla scelta di uno strumento retorico come l’orazione, facendone una chiave di interpretazione delle differenti posizioni politiche del tutto "naturale" per l’uomo antico.

TUCIDIDE
Per quanto riguarda i discorsi che ciascuno r pronunciò, o mentre si preparava la guerra o durante la guerra stessa, era difficile ricordare con esattezza le parole quali erano state dette, sia per quello che io stesso avevo udito, sia per coloro che, da una parte e dall’altra, a me le riferivano. Ma sono state riportate così come mi sembrava che ciascuno avesse potuto dire, di volta in volta secondo le circostanze che si presentavano, le cose più opportune, tenendomi il più vicino possibile al concetto generale dei discorsi veramente pronunciati. Riguardo invece ai fatti verificatisi durante la guerra, non ho creduto opportuno descriverli per informazioni desunte dal primo venuto, né a mio talento; ma ho ritenuto di dover scrivere i fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri , esaminandoli, però, con esattezza a uno a uno, per quanto era possibile.
(La guerra del Peloponneso I, 22; trad. L. Annibaletto)

Si può mettere ora a confronto il testo tucidideo con le parole che in Sallustio precedono due celebri discorsi, quello di Cesare e quello di Memmio, e le parole che precedono e commentano un altrettanto celebre discorso di Catilina.

SALLUSTIO
Ma Cesare, giunto il suo turno, richiesto dal console di esporre il suo parere, tenne press’a poco questo discorso: [...]
(De Catilinae coniuratione L, 5; trad. P. Frassinetti)

Ma poiché a quei tempi era in Roma notissima e influente l’eloquenza di Memmio, ho ritenuto doveroso riferire una delle tante sue orazioni, e precisamente riporterò ciò che egli, dopo il ritorno di Bestia, espose nell’adunanza press’a poco con queste parole.
(Bellum Iugurthinum XXX, 4; trad. P. Frassinetti)
Condusse [i congiurati] in un luogo appartato della sua casa e quivi, allontanato ogni testimone, tenne loro un discorso di questo tenore: [...]. Taluni ritenevano che questo particolare 1 e molti altri ancora fossero frutto di invenzione da parte di coloro che, con l’atrocità scellerata del delitto, di cui i congiurati avevano pagato il fio, tendevano a placare l’odiosità sorta più tardi contro Cicerone. A me personalmente un fatto così grave non risulta sufficientemente provato.
(De Catilinae coniuratione XX, 1; XXII, 3; trad. P. Frassinetti)
1 questo particolare: dopo il discorso i congiurati avrebbero bevuto sangue umano.
2b. Il ritratto "paradossale"
Sallustio, così come i suoi contemporanei Cesare e il biografo Cornelio Nepote (De viris illustribus), ha lasciato parecchie pagine che si possono definire veri e propri ritratti dei protagonisti delle vicende narrate. La tecnica del ritratto viene elaborata nel IV secolo a.C. dalla storiografia "tragica" seguendo da un lato modelli retorici isocratei, dall’altro i canoni e le schematizzazioni morali che la scuola peripatetica andò costruendo e di cui i Caratteri di Teofrasto (IV-III secolo a.C.) sono l’esemplare. Il genere della biografia, che gli antichi distinguevano dalla storia, trae origine proprio da queste esperienze culturali; a Roma i modelli biografici greci giungono nel II secolo a.C. e si innestano su una tradizione indigena legata al culto familiare degli antenati e fondata sul rispetto delle virtù del mos maiorum. Questo confluire di modelli rese immediatamente spendibili le biografie anche sul piano politico.

Ecco come Plutarco (50-120 circa d.C.), autore della più celebre raccolta di biografie dell’antichità, le Vite parallele di condottieri greci e romani, esplica le ragioni di fondo della scelta del genere biografico.

PLUTARCO
Io non scrivo storia, ma biografia; e non è che nei fatti più celebrati ci sia sempre una manifestazione di virtù odi vizio, ma spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito, dà un’idea del carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti d’eserciti, assedi di città. Come dunque i pittori colgono le somiglianze dei soggetti dal volto e dall’espressione degli occhi, nei quali si avverte il carattere, e pochissimo si curano delle altre parti, così mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese.
(Vita di Alessandro I, 2-3; trad. D. Magnino)

Segui ora nelle parole di uno storico della letteratura moderno come il modello greco della biografia condotta secondo schemi precostituiti di vizi e virtù si incontri con la tradizione della ritrattistica romana e dia luogo, prima in senso aristocratico ma poi come arma polemica su entrambi i fronti della lotta politica, a una vivace produzione di ritratti fisici e morali.

FEDELI
A Roma il ritratto compare ben presto nei rituali del patriziato: durante il corteo funebre il nobile veniva accompagnato dalle imagines degli antenati. Ciò costituiva un diritto che era esclusivamente riservato alle famiglie gentilizie, a quelle cioè che potevano vantare alti magistrati fra i propri antenati [...]. Di qualunque
corrente artistica i ritratti risentissero [...] essi furono fin dall’inizio realistici. L’interesse preminente degli artisti era rivolto, oltre che alla somiglianza, a dare un effetto globale di austerità, di gravitas, di orgoglio e di ponderazione, in breve a rendere con l’immagine un’idea di moralità e di compostezza di costumi.
(Letteratura latina, Napoli 1990, p.111)

Leggi queste parole dell’autoritratto di Mario - un altro leader dei populares -: nel suo discorso, egli elenca le virtù che dice di aver ereditato dai padri e ponile accanto a quelle di Catone - uno dei capi della fazione della nobilitas. Nota che le virtù dell’homo novus vengono a coincidere con quelle del vir romanus della tradizione.

SALLUSTIO
Per contro ho approfondito quelle conoscenze che sono di gran lunga più utili allo stato: colpire il nemico, montar la guardia, nulla temere se non il disonore, sopportare parimenti ilfreddo e il caldo, dormire sulla nuda terra, tollerare fame e fatica insieme [... ]. Mi definiscono rozzo e ineducato perché ignoro l’arte di imbandire la mensa e non possiedo alcun attore né cuoco che valga più del mio fattore [...]. È vero, o Quiriti, e lo ammetto volentieri. Il fatto è che mio padre ed altri personaggi integerrimi mi hanno insegnato che la raffinatezza si addice alle donne e la fatica agli uomini; che ogni galantuomo deve poter vantare più gloria che ricchezza; che le armi, non i mobili, sono il suo ornamento [...] lascino a noi, che le preferiamo ai loro festini, sudore polvere e altre cose del genere [... ].
(Bellum Iugurthinum LXXXV, 33; 39-41; trad. 1 Frassinetti)

Uno dei passi più celebri di Sallustio è il ritratto di Catilina, come egli lo descrive nel cap. V della sua monografia. Si tratta di un classico caso di ritratto paradossale, vale a dire la descrizione "ambigua", che oscilla tra l’ammirazione e la condanna morale di un personaggio storico, tra l’elogio della sua energia e il rimpianto perché tale energia è sostegno della sua scelleratezza. Tale ambiguità serve all’autore per dare maggiore incisività e più numerose sfaccettature al ritratto letterario del personaggio, ma nel contempo vuole indicare, anche solo per estendere le accuse ad altri, che la realtà non è così semplice come un ritratto a una sola faccia dimostrerebbe: come disse ironicamente Cicerone: «questo genere di virtù [quelle degli antichi romani] non solo non si trovano più nei nostri costumi, ma nemmeno nei nostri libri» (Pro Caelio 40). Per esempio proprio nel testo citato su Catilina lo storico vuole sottintendere che l’erompere dei vizi del capo della congiura, e dei suoi accoliti, è stato prodotto da una situazione sociale ed economica in via di degenerazione per la crisi morale della classe dirigente romana. Un ritratto paradossale altrettanto famoso è quello di Petronio sul punto di suicidarsi (Tacito, Annales XVI, 18), dove la mollezza e la raffinatezza della vita si fondono con il vigore dimostrato nell’espletamento delle sue funzioni pubbliche e con la dignità con cui affronta la morte. Si potrebbero aggiungere i nomi di Sallustio minore, nipote e figlio adottivo dello storico (Annales III, 30), sostituto di Mecenate come consigliere di Augusto, oppure di Mecenate stesso e di Sciano, il potente prefetto di Tiberio (Velleio Patercolo, Storia romana II, 82, 2 e II, 127, 3 e ss.).

Per l’età repubblicana confronta e sottolinea la paradossalità dei ritratti di Silla in Sallustio e di Catilina stesso in Cicerone, il quale rimarca il fascino che questo personaggio esercitò anche sui suoi nemici.

SALLUSTIO
Silla dunque era di nobile stirpe patrizia, ma di un ramo ormai quasi completamente decaduto per l’indolenza degli antenati: ugualmente erudito, e con estrema raffinatezza, nelle lettere greche e latine: d’animo insaziabile, avido di piaceri ma più avido di gloria: benché dissoluto nei periodi d’ozio, il piacere non lo distolse mai dalle pubbliche occupazioni, eccettuato il fatto che, nei legami coniugali, avrebbe potuto comportarsi più decorosamente; efficace nel dire, astuto, condiscendente verso gli amici; incredibile la profondità della mente nel celare i suoi disegni; prodigo di molte cose e in particolare di denaro.
(Bellum Iugurthinum XCV, 2-4; trad. P. Frassinetti)

CICERONE
In Catilina erano non già chiaramente espressi, ma appena accennati numerosissimi indizi delle più nobili virtù. Aveva rapporti con molti scellerati, ma pure fingeva di essere devoto a dei gran galantuomini; vivere accanto a lui era un continuo incentivo al vizio, ma vi erano pure degli stimoli all’attività e al lavoro; portava con sé il fuoco di passioni viziose: ma vivo era pure il suo interesse per la vita militare. A mio parere non è mai esistito sulla terra un portento di tal fatta, una tale mescolanza di passioni e appetiti innati così contrari, opposti e contraddittori.
(Pro Caelio 12; trad. G. Bellardi).
Postato il 25 febbraio 2011

La concezione storico-politica di Sallustio

La crisi della repubblica e la risposta di Sallustio e Cicerone
di Martino Menghi e Massimo Gori
Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 136 – 145
Lo storico Sallustio e l’oratore Cicerone producono due reazioni in apparenza diverse, ma in realtà più vicine di quanto non faccia pensare la loro militanza nei due campi avversi dei populares e degli optimates. Entrambi estranei per provenienza familiare ai centri del potere aristocratico, l’uno, Sallustio, si rifugia nella torre d’avorio della ricerca storica, del moralismo e della moderazione politica del benpensante; l’altro, Cicerone, propone un impegno diretto e generoso dei boni cives per giungere a quell’allargamento di fatto della base del potere che per paradosso si verificherà sotto il regime monarchico di Augusto.

COSTRUZIONE DEL DOSSIER
1. Il moralismo di Sallustio
1a. La retrospettiva storica di Sallustio
1b. Il legame tra politica estera e politica interna visto in chiave moralistica
1c. La posizione politica di Sallustio come si desume dai suoi giudizi storici
2. La posizione di Cicerone nella crisi
2a. La concordia ordinum, il consensus omnium bonorum nella proposta di Cicerone
2b. La delusione e la fuga verso l’ideale nel De re publica e in Sallustio
3. Un’ideologia per i ceti medi: la novitas e la concordia

1.IL MORALISMO DI SALLUSTIO
1a. La retrospettiva storica di Sallustio
Tucidide, il grande storico ateniese del V secolo a.C., collocò in apertura della Guerra del Peloponneso una digressione sulla storia greca arcaica, nella quale, in assenza di documenti scritti, dispiega tutto il proprio acume critico e il proprio razionalismo per smontare dalle fondamenta l’impalcatura grandiosa delle costruzioni mitiche. Lo scopo dell"`archeologia" dello storico greco è quello di dimostrare, a scapito delle vicende del passato, l’importanza eccezionale del conflitto in atto tra Sparta e Atene. Anche Sallustio, dopo il proemio del De Catilinae coniuratione e il celebre ritratto del protagonista, apre una retrospettiva sulla storia di Roma: è stato osservato che il fine dello storico romano è del tutto opposto a quello del suo modello greco, in quanto l’esigenza della critica del passato cede nettamente il passo al bisogno di una sua idealizzazione. Entrambi i testi dunque offrono in apertura di libro la chiave di interpretazione dell’opera stessa e sono indice di due tendenze per un certo aspetto divergenti, il pragmatismo razionalista dello storico greco e il moralismo del romano come condizione alla critica etico-politica del presente.

Si può leggere il seguente passo di Tucidide e alcuni capitoli dell’excursus sallustiano sulla storia di Roma dalle origini a Silla.

TUCIDIDE
Anche secondo i poemi di Omero, se pur si deve anche qui prestar fede, dato che essendo poeta è naturale che abbia abbellita e ingrandita l’impresa, pur tuttavia anche così, appare di proporzioni piuttosto limitate [...]. Facendo dunque una media tra le navi più grandi e quelle più piccole, si conclude che non erano molti quelli che andarono a Troia, se si pensa che furono mandati in comune da tutta la Grecia. E questo non già perché mancassero gli uomini, ma perché erano scarsi di mezzi. Per difficoltà di vettovagliamento i capitani condussero un contingente inferiore alle loro possibilità: soltanto quel numero che, speravano, avrebbe trovato di che vivere là sul luogo stesso nel quale guerreggiavano.
(La guerra del Peloponneso I, 10-11; trad. L. Annibaletto)

SALLUSTIO
Si raccolsero entro le stesse mura [...]; così in poco tempo, una moltitudine eterogenea ed errante con la concordia si era fatta città [...]. Ma i romani, sempre vigili in pace e in guerra, non esitavano, si organizzavano, si esortavano l’un l’altro, muovevano contro i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Poi, quando avevano col loro valore respinto i pericoli, recavano aiuto ad alleati e ad amici, e si procuravano amicizie più col recar benefici che col riceverne.
(De Catilinae coniuratione VI, 2; 4; trad. P. Frassinetti)
Quindi in pace e in guerra coltivavano i buoni costumi; massima era la concordia, minima l’avidità. Presso di loro la giustizia e la morale prosperavano più per naturale inclinazione che per forza di leggi. Alterchi, discordie, rivalità, li esercitavano contro i nemici; i cittadini gareggiavano tra loro in virtù. Splendidi nel culto degli dei, erano parsimoniosi nella vita privata, leali verso gli amici.
(De Catilinae coniuratione IX, 1-2; trad. P. Frassinetti)

Pertanto [dopo la distruzione di Cartagine] P crebbe dapprima la bramosia di denaro, poi l’ambizione di potere; e queste due passionifurono l’origine di tutti i mali. Infatti la cupidigia sovvertì la lealtà, la probità e ogni altra virtù, e in loro vece insegnò la tracotanza, la crudeltà, la trascuratezza verso gli dei, l’opinione di una venalità universale. L’ambizione indusse molti uomini a divenire ingannatori, a celare nell ‘intimo una cosa e l’altra ad esprimere con le labbra, a considerare le amicizie e le inimicizie non secondo giustizia ma in base al proprio interesse, ad aver buono più l’aspetto che l’animo. Mali che dapprima si svilupparono lentamente, e talvolta vennero anche puniti: ma in seguito, quando il contagio dilagò come una pestilenza, la città ne fu trasformata e il governo, da giustissimo e virtuosissimo, divenne crudele e intollerabile.
(De Catilinae coniuratione X, 3-6; trad. P Frassinetti)


1b. Il legame tra politica estera e politica interna visto in chiave moralistica
Il moralismo dei maggiori storici latini, Sallustio, Livio e Tacito, non è certo un elemento connaturato con il presunto "spirito pratico" del "genio latino", contrapposto al rigore e alla scientificità della storiografia greca: esso è in realtà il portato di una ben precisa ideologia di matrice aristocratica che vede nel mos maiorum il collante dell’intero edificio della società romana, la causa dei suoi successi politici e militari, il fondamento di ogni consenso alla linea politica decisa dai vertici: come si è sottolineato nel punto precedente anche uno storico di parte popolare come Sallustio è fatalmente indotto a vedere nella crisi del mos maiorum l’inizio del declino della società romana. Ma perché questi valori morali fatalmente sfociano nei vizi loro contrari? Proprio per i suoi limiti di impostazione lo storico non va oltre una risposta assai superficiale e deludente: la fortuna con la sua crudeltà «prese a infuriare e a sconvolgere ogni cosa» dopo che dal mondo allora conosciuto venne spazzata via l’unica potenza rivale di Roma, Cartagine. La cessazione del metus hostilis, o metus Punicus, come banco di prova della virtù dell’uomo ha ingenerato la crisi. In questo giudizio lo storico mostra i limiti dovuti al suo moralismo e anche una contraddizione: la virtù degli antichi ha portato all’impero, ma è lo stesso impero, la sua sicurezza, l’eliminazione di ogni nemico, con le ricchezze che ha introdotto in Roma, a generare la crisi morale. Altra conseguenza di questo modo di vedere è che la politica estera e le relazioni con gli altri stati sono giudicati dal punto di vista del potere e della sua gestione in Roma; Sallustio è storico della crisi di un ceto dirigente e non si pone certo il problema dell’imperium di Roma e del modo di governarlo: quando lo fa riconduce immediatamente il discorso alle tematiche morali o alla polemica politica.

Verifichiamo queste idee ripercorrendo alcuni passi di Sallustio; si potrà notare come in entrambe le monografie la politica estera viene riportata ai problemi interni e alla critica della nobilitar al potere: del resto è questa la ragione profonda della scelta dei due argomenti da svolgere, la congiura di Catilina e la guerra in Africa.

SALLUSTIO
Quando però la repubblica si fu incrementata con l’operosità e la giustizia; e potenti refurono sopraffatti in guerra; e genti barbare e popolazioni ingenti furono sottomesse con la guerra; e Cartagine, la rivale della potenza romana, fu distrutta dalle fondamenta; e tutti i mari e tutte le terre si aprivano a Roma, allora la fortuna prese ad infuriare e a sconvolgere ogni cosa. Quegli uomini che avevano saputo sopportare facilmente pericoli, incertezze, avversità, proprio ad essi le ricchezza e la tranquillità, beni desiderabili in altre circostanze, riuscirono gravi e perniciosi.
(De Catilinae coniuratione X, 1-3; trad. P. Frassinetti)

Per la verità questo deplorevole costume dei partiti popolari e delle fazioni dei nobili e, in seguito, di ogni genere di depravazione era iniziato a Roma pochi anni addietro, in seguito all’inerzia e all’abbondanza di quegli agi che gli uomini stimano più importanti di tutto. Infatti prima della distruzione di Cartagine il popolo e il senato romano amministravano insieme la repubblica con la concordia e la moderazione, e tra i cittadini non esisteva antagonismo di prestigio e di potere: il timore dei nemici [metus hostilis] tratteneva i cittadini nel rispetto della virtù.
(Bellum Iugurthinum XLI, 1-3; trad. P. Frassinetti)

Sallustio è ancora più esplicito nei due passi che seguono, in cui il problema dell’amministrazione dell’impero è ricondotto a responsabilità politiche interne ben precise.

SALLUSTIO
Inoltre Lucio Silla, per assicurarsi la fedeltà dell’esercito che aveva comandato in Asia, contrariamente al costume dei padri [contra morem maiorum], gli aveva concesso di vivere nei piaceri e in una eccessiva licenza [...]. Così quei soldati, dopo aver conseguito la vittoria, nulla lasciarono ai vinti. Infatti la propizia fortuna snerva anche l’animo dei saggi; figuriamoci se uomini di così corrotti costumi potevano serbare moderazione nella vittoria!
(De Catilinae coniuratione XI, 5-8; trad. P. Frassinetti)

Mentre quelli [gli antenati] ornavano i templi degli dei col sentimento religioso, le loro case con la gloria, e ai vinti nulla toglievano al di fuori della possibilità di nuocere. Questi, al contrario, esseri sommamente iniqui, rubano agli alleati [sociis] ciò che uomini di grande valore, dopo la vittoria, avevano lasciato ai vinti; come se commettere ingiustizie fosse il solo modo per esercitare il potere.
(De Catilinae coniuratione XII, 4-5; trad. P. Frassinetti)

1c. La posizione politica di Sallustio come si desume dai suoi giudizi storici
Il moralismo di Sallustio sfocia in apparenza in una posizione isolata, disincantata, di constatazione acre e severa dei vizi del presente. A questo sembrano indirizzarlo i proemi delle due monografie, specie della giugurtina, dove il ritrarsi dalla vita pubblica sembra essere il necessario requisito dell’imparzialità e del ruolo importante della storiografia; non sono mancate interpretazioni in questo senso. In realtà la posizione politica di Sallustio è chiara. Da un lato, scontata, la recisa e mai attenuata condanna della nobilitas, il ceto di nobili di nascita che traggono dalla tradizione di governo senatorio e consolare i motivi del loro privilegio; dall’altro una altrettanto decisa insofferenza verso l’illegalità della parte popolare e di tutti coloro che, per reazione alle ingiustizie degli ottimati o per ambizione e cupidigia personali, hanno tentato con le armi di sovvertire i fondamenti dello stato repubblicano. Tutto ciò si trasforma in giudizi storici improntati a moderazione e rivolti a criticare uomini politici e personaggi importanti della storia di Roma; emerge anche, in positivo, una proposta politica moderata volta a limitare le pretese dei ceti inferiori e a valorizzare quei gruppi di possidenti italici, di cavalieri, di uomini nuovi interessati a entrare nel governo dello stato a fianco della nobiltà.
Si può seguire lo storico nei suoi giudizi su Mario, sui Gracchi e sulla plebe di Roma. Non si deve dimenticare che la congiura di Catilina viene attribuita alla degenerazione dei costumi introdotta dall’arbitrio dei nobili, mentre si omettono le compromissioni degli esponenti più in vista dei popolari.

SALLUSTIO
Nel frattempo egli stesso [Mario] arruola i soldati non secondo il costume degli antenati [more maiorum] né per classi, ma secondo la libera adesione di ognuno, in maggioranza proletari. Alcuni andavano dicendo che ciò accadeva per penuria di uomini valenti, altri per la brama del console di guadagnarsi il favore della plebe, poiché da quella gente era stato esaltato e innalzato, e all’uomo in cerca di potere torna quanto mai opportuno chi è più bisognoso; giacché a chi nulla possiede, nulla sta a cuore, e gli pare onesto tutto ciò che offre occasione di guadagno.
(Bellum Iugurthinum LXXXVI, 2-3; trad. P Frassinetti)

E ammettiamo pure che i Gracchi, per bramosia di vittoria, non abbiano serbata la misura. Ma, per l’uomo probo, è preferibile essere vinto combattendo con armi oneste che trionfare delle offese con la violenza.
(Bellum Iugurthinum XLII, 3; trad. P Frassinetti)

E non soltanto i complici della congiura ebbero la mente tanto sconvolta, ma tutta la plebaglia in massa, avida di pubblici rivolgimenti, favoriva l’iniziativa di Catilina. In questo, appunto, pareva conformarsi al suo costume. In uno stato, infatti, coloro che nulla possiedono, guardano sempre con invidia i facoltosi, esaltano i malvagi, odiano l’antico, aspirano al nuovo; per insofferenza della propria condizione desiderano vivamente sovvertire ogni cosa, si nutrono senza discernimento di torbidi e di sedizioni, poiché la povertà si può facilmente conservare senza pericolo.
(De Catilinae coniuratione XXXVII, I-3; trad. P. Frassinetti)

2. LA POSIZIONE DI CICERONE NELLA CRISI
2a. La concordia ordinum, il consensus omnium bonorum nella proposta di Cicerone
Si è dunque compreso dai giudizi storici sallustiani, anche in negativo, che lo storico è fautore di una svolta moderata nella vita politica di Roma; i moderati, che si identificano tradizionalmente con i boni, i possidenti, devono emarginare i faziosi, i violenti, i demagoghi, a qualsiasi partito appartengano, devono tenere a freno coloro quibus opes nullae sunt, devono ispirarsi alla concordia di un tempo e al mos maiorum secondo le sane tradizioni italiche già esposte da Catone il Censore. Quasi per paradosso è possibile trovare alcune di queste idee, forse in forma meno idealizzata, nelle orazioni ciceroniane degli anni sessanta e cinquanta del secolo nell’ambito di un progetto politico sempre di segno moderato nato dalle prime lotte politiche alle quali l’oratore partecipò e soprattutto dall’esperienza capitale del consolato nel 63 a.C., l’anno della congiura di Catilina; vale la pena di ricordare che nonostante le sue origini equestri e le distanze che in qualche occasione prese dalla nobilitas, Cicerone restò comunque saldamente ancorato alla parte degli ottimati e che quindi anche tra i nobiles si sentiva la necessità di porre fine alle guerre civili e all’illegalità. I cardini di questa proposta politica sono prima la concordia ordinum, cioè l’alleanza tra l’ordine senatorio e quello equestre dopo le loro contese dell’età graccana e sillana e con un primo allargamento della base del potere; in seguito al fallimento della prima proposta per le continue rivalità tra gruppi di potere Cicerone penserà al consensus omnium bonorum (I Catilinaria 32, ma soprattutto a partire dalla Pro Sextio, del 56 a.C.) e all’estensione - che noi diremmo trasversale - della partecipazione alla vita pubblica a tutti i benpensanti, i possidenti a qualsiasi ceto appartengano, come supporto all’operato tradizionalmente "saggio" del senato. Ricorda peraltro che l’ideologia della concordia ha una lunga storia e risale a concezioni aristocratiche greche volte a conferire stabilità a stati in perenne agitazione per rivalità tra nobili o aspirazioni sociali ed economiche; in Roma poi era stata ampiamente sfruttata nei secoli delle lotte fra patrizi e plebei e Furio Camillo le dedicò un tempio nel 367 a.C. Cicerone le conferisce un aspetto più dinamico, di cooptazione di nuovi ceti al governo dello stato.

Si può seguire ora in alcuni passi ciceroniani il progetto di allargare il consenso alla tradizionale concezione classista e aristocratica della politica per allontanare la prospettiva violenta delle guerre civili e il pericolo di soluzioni autoritarie. Si deve ricordare che tra il primo e il secondo testo intercorre un lasso di tempo di sette anni: nella Catilinaria è evidente l’accentuazione istituzionale sugli ordines, mentre nella Pro Sextio si chiamano ottimati addirittura i liberti. Segue poi un passo del discorso del tribuno Memmio, di parte popularis, riportato nel Bellum Iugurthinum: egli mette in guardia la plebe contro le seduzioni della concordia, dimostrandone così la matrice aristocratica.

CICERONE
Devo qui ricordare i cavalieri romani? Essi vi [a voi senatori] cedono il primo posto come ordine e per autorità per gareggiare con voi in amor di patria; separati da tanti anni dal nostro ordine, ritornano alla concordia e all’unione: questo giorno e questa causa fanno di loro i vostri alleati. Se questa alleanza consolidata sotto il mio consolato si manterrà in eterno, vi garantisco che nessuna crisi civile e domestica potrà mai più colpire parte alcuna della repubblica.
(IV Catilinaria XV)

«Chi sono dunque gli ottimati di cui parli?» Il loro numero, se vuoi saperlo, è innumerevole: ché altrimenti lo stato non potrebbe reggersi. Sono ottimati i più autorevoli membri del senato e i loro seguaci, lo sono gli appartenenti alle classi più elevate, cui è aperto l’accesso al senato, lo sono cittadini romani dei municipi e delle campagne, lo sono uomini d’affari, lo sono anche dei liberti [...]: sono ottimati tutti coloro che non sono malfattori né malvagi per natura né scalmanati né inceppati da guai familiari. Ne deriva quindi che coloro che tu hai chiamato "casta" sono i cittadini irreprensibili, assennati e benestanti.
(Pro Sextio 97, trad. G. Bellardi)

L’unica via che porta, credetemi, alla fama, al prestigio e agli onori è l’apprezzamento e l’affetto degli uomini onesti, saggi e dotati da natura di buone qualità, è la conoscenza dell’ordinamento costituzionale dello stato, opera della grande saggezza dei nostri antenati.
(Pro Sextio 137; trad. G. Bellardi)

SALLUSTIO
Quale speranza può esservi infatti di lealtà e di concordia? Spadroneggiare essi vogliono, voi essere liberi. Commettere ingiustizie loro: voi impedirle [...].Può forse, in così disparate concezioni, sussistere tra voi e loro pace o amicizia?
(Bellum Iugurthinum XXXI, 23; trad. P. Frassinetti)

2b. La delusione e la fuga verso l’ideale nel De re pubica e in Sallustio
Che queste proposte fossero irrealizzabili senza il sostegno delle armi è dimostrato dalla fuga verso soluzioni quasi utopistiche, o contemplative, che accomunano il Cicerone posto di fronte al regime triumvirale e all’ultima fase delle guerre civili, al Sallustio che si ritira dalla politica per dedicarsi alla storia; in Cicerone il ricorso alla dimensione ideale vede il ritorno all’epoca aurea dello stato romano, quando splendevano la saggezza e il valore di Scipione Emiliano, e quindi a quella sorta di deus ex machina che è il princeps del De re publica (54-51 a.C.), interprete dei più alti ideali di un ceto che li aveva smarriti: costui dovrà essere rector, gubernator, moderator, tutor, procurator, dovrà quindi reggere il timone dello stato, supplire e sostenere i boni cives e il senato, sostituirsi talvolta a loro, sempre nel rispetto della costituzione tradizionale. Al buon cittadino resta l’otium cum dignitate, una forma di libertà individuale che salvi la pace dello stato e il prestigio della posizione sociale. Non è un caso ancora che in forma più malinconica anche Sallustio si faccia interprete della impossibilità di realizzare il progetto politico moderato, del ritorno al passato, della ricerca di libertà personale al di fuori della vita pubblica.

Il primo testo che proponiamo è tratto dal VI libro del De re publica, il celebre Somnium Scipionis, nel quale Scipione Emiliano racconta dell’apparizione in sogno dell’avo, Scipione Africano, eroe delle guerre puniche, che lo conduce in cielo, nella Via Lattea, e gli mostra la sorte dell’anima dopo la morte: è il suggello platonico all’opera politica nell’indicare come la vera vita sia quella dei cieli che si può raggiungere solo con la virtù. Il secondo testo proviene dalla celebre introduzione al Bellum Iugurthinum, dove Sallustio espone i motivi personali che l’hanno allontanato dalla politica.

CICERONE
Guarda se vorrai guardare in alto e osservare questa sede eterna, non lasciarti limitare dai discorsi del volgo e non riporre le tue speranze in premi terreni; bisogna che la virtù di per sé stessa con le sue attrattive ti volga alla vera gloria [...]; gli impegni più nobili sono infatti quelli che riguardano il bene della patria.
(De re publica VI, 25; 29)

SALLUSTIO
Fra queste attività tuttavia le magistrature e i comandi militari e in genere ogni carica politica non sembrano affatto desiderabili in questi frangenti, poiché gli onori non vengono assegnati ai meritevoli né coloro che raggiunsero il potere con intrighi sono per questo più al sicuro o più onorati [...]. Spesso infatti ho sentito dire che Quinto Massimo [il Temporeggiatore], Publio Scipione [l’Africano] e inoltre molti altri uomini illustri della nostra città erano soliti affermare questo: quando guardavano i ritratti degli antenati l’animo loro si accendeva di ardente amore per la virtù. E chiaro che né quella cera né quelle figure racchiudevano in sé tanto potere, ma quella fiamma si sviluppava in petto a quegli uomini egregi alla memoria delle loro imprese e non si estingueva prima che la loro stessa virtù si fosse adeguata alla fama e alla gloria di quelli.
(Bellum Iugurthinum III, 1; IV55-7; trad. P Frassinetti)

3. UN’IDEOLOGIA PER I CETI MEDI: LA NOVITAS E LA CONCORDIA
Qual è il punto che può accomunare nella prassi politica Cicerone e Sallustio? Come si devono concretamente realizzare i loro ideali? Uno storico francese, il Nicolet, ha indicato nell’apertura alla carriera senatoria agli homines novi soprattutti di provenienza italica la via concreta per promuovere quella mobilità sociale verticale, ma soprattutto orizzontale, italica, nella quale lo storico e l’oratore vedevano la possibilità di pacificazione e di riscatto: era la maniera di premiare il me rito individuale e di incanalare le ambizioni personali al servizio dello stato. L’ideale della concordia invece assunse i contorni di una proposta politica concreti solo in Cicerone, mentre Sallustio è perfettamente conscio che si tratta di un termine dalle chiare connotazioni ideologiche in senso aristocratico (vedi punto 2a.); tuttavia non rinuncia a inserirlo come chiave di volta delle sue descrizion idealizzate del passato e a imputare ai nobiles ma anche ai populares estremisti la sua scomparsa dallo stato romano. È un ennesimo invito alla moderazione.

Si può confrontare il celebre discorso di Mario nel Bellum Iugurthinum con il quale i generale elenca i valori a cui si ispira la novitas con quanto lo storico Ettore Lepore dice del ruolo dell’homo novus negli ideali politici ciceroniani. Può essere utile rileggere il giudizio di Sallustio sull’arruolamento dei proletari (Bellum Iugurthinum LXXXVI, 2-3, al punto lc.), con le osservazioni su rapporto tra i generali e la plebe arruolata, a cui Lepore si riferisce in conclusione del brano.

LEPORE
Il consensus omnium bonorum rappresenta in fondo appunto il tentativo di legare in un moto di sentimento e di opinione unitaria, oltre che di interessi, gli homines novi e gli strati di medi e piccoli "borghesi", gli omnes boni di tutta Italia, al di fuori ormai degli ordines tradizionali e delle clientele personali [...]. Spetta all’homo novus che dell’optimus civis è il modello, e con gli omnes boni ha in comune le qualità fondamentali della bonitas, virtus, integritas, innocentia, ingenium, frugalitas, modestia, la direzione dell’opinione organizzata dei ceti italici, da cui in generale proviene e che particolarmente contano nell’assemblea centuriata; l’exercitus omnium bonorum et satis bonorum dovrà esercitare una pacifica e non ufficiale pressione sul governo, assicurando la sicurezza e l’esercizio normale delle funzioni politiche, la vitalità della res publica, prescindendo dalle consorterie oligarchiche come dalle clientele armate dei potenti.
(Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1954, p. 199).
Postato il 25 febbraio 2011

Sallustio e la monografia

Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 9–10
di Martino Menghi e Massimo Gori
La scelta monografica in un’opera storica vincola l’autore a circoscrivere l’argomento a un periodo limitato di tempo, per lo più vicino, e a farlo ruotare intorno a un personaggio, a un fatto giudicato epocale, a una guerra particolarmente importante. Questo non significa che non si possano avere sezioni di "archeologia" (si chiamano così i capitoli I-XIX del I libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide, in cui il grande storico greco, che scrive di una guerra a lui contemporanea e alla quale partecipò, traccia un profilo magistrale del mondo greco arcaico) oppure brevi digressioni per arricchire la materia e introdurre variazioni letterarie, o che addirittura la monografia stessa sia digressione e approfondimento di un’opera che copre un numero di anni più esteso (la Germania di Tacito è per alcuni una digressione etnografica nella storia del I secolo d.C. che l’autore tratta nelle Historiae).
Le opere di Sallustio De Catilinae coniuratione e Bellum Iugurthinum, le prime monografie trasmesseci in misura integrale, non mancano delle caratteristiche sopra elencate: coprono uno spazio di tempo piuttosto breve (dal 64 al 63 a. C. la congiura di Catilina, dal 111 al 105 a. C. la guerra contro Giugurta), ruotano intorno alle imprese di un eroe (o meglio di un antieroe), presentano sezioni archeologiche di storia romana (nel De Catilinae coniuratione i capp. VI-XIII) e degli excursus (per esempio in Bellum Iugurthinum XVII-XIX una digressione etnografica sull’Africa, peraltro piuttosto deludente; in XLI-XLII una panoramica sulla storia delle discordie civili e infine una digressione sui leptitani in LXXVII-LXXIX, excursus posti tutti in posizioni studiate ad arte prima delle tre fasi delle ostilità), e infine la forma letteraria è nella sua concisione assai curata e strettamente legata al contenuto proprio per la brevità delle vicende narrate; Sallustio dichiara di voler «narrare compiutamente, per monografie (carptim, alla lettera "cogliendone alcune parti") le imprese del popolo romano, secondo che parevano meritevoli di memoria» (De Catilinae coniuratione IV, 2). Tuttavia la somma di queste proprietà contenutistiche e formali non basta a dare una definizione completa e soddisfacente del genere. In effetti si fa risalire la prima stesura di un testo storico monografico nella letteratura latina all’opera di Celio Antipatro, che alla fine del II secolo a.C. sviluppò in questa forma le vicende della seconda guerra punica, invece di rifarsi seguendo la tradizione annalistica alla storia di Roma ab urbe condita; tuttavia le dimensioni dell’opera (sette libri) e l’attenzione alle peripezie e all’elemento fantastico per compiacere il pubblico collocano i frammenti di quest’opera piuttosto lontano dall’aridità narrativa dei primi storici di Roma, gli annalisti, ma anche da quella stretta interazione di forma stilistica, scelta di contenuto e interpretazione storica che è propria delle due monografie sallustiane. Non è sufficiente quindi la scelta monografica di un fatto epocale, come nel caso di Celio Antipatro la guerra contro Annibale, per trovare dei precursori a Sallustio e per definire i caratteri del genere: del resto il passaggio alla monografia si era già compiuto, anche se in forme letterarie ufficialmente differenti, nella storiografia greca di età ellenistica, quando alcuni storici che avevano prodotto storie "continue" ne avevano riservato alcuni libri (gli ultimi, pubblicati anche a parte) alla trattazione della storia di un personaggio importante o affascinante (Agatocle, Pirro, Annibale, la cui vita era già l’oggetto di monografie "antiromane" in greco) che veniva a coincidere con quella del conflitto in cui era stato impegnato. Anche Polibio, il grande storico greco che visse a Roma nel II secolo a.C., autore di una Storia "continua", vera e propria chiave di volta dello sviluppo della storiografia romana, aveva fatto coincidere per larga parte la trattazione della guerra punica con la biografia di Annibale (libri III-XV) e tutto sommato anche Tucidide, il modello di Sallustio, aveva compiuto una scelta monografica isolando per importanza, tra tutti i fatti dei greci, la guerra del Peloponneso. Del resto, quale che sia la forma letteraria prescelta, è stato notato (Musti) che tutta la storiografia romana di età repubblicana, fino a Tito Livio, ruota necessariamente intorno alla svolta epocale della seconda guerra punica e in un modo o nell’altro vi è connessa.
Per definire meglio la monografia sallustiana occorre pensare a due elementi. Il primo, di carattere generale, è la tendenza a una più serrata e corretta ricerca delle cause secondo i criteri messi a punto da Polibio e trasferiti nella storiografia romana, come dimostra la celebre distinzione tra annales e res gestae di Sempronio Asellione – un annalista vissuto alla tra II e I secolo a.C. – per il quale scrivere storia, le res gestae, significa spiegare i motivi delle decisioni e le considerazioni che le hanno prodotte e non limitarsi a elencare dei fatti bellici. Anche Sallustio, nella sua ultima opera, presenterà un seguito di cause di una certa ampiezza cronologica (dal 78 al 67 circa a.C. in cinque libri) organizzandole secondo una ricerca approfondita e un coerente disegno d’insieme, però chiamerà quest’opera Historiae. In realtà si può osservare che la congiura di Catilina non è inseritile in un contesto di cause, non è a sua volta causa di nulla, semmai è sintomo, esempio di una serie di eventi che si identificano con la crisi dello stato romano. In effetti al di là dell’idea di una storia come ricerca scaltrita delle cause, la monografia sallustiana presenta come tratto suo proprio non tanto la consequenzialità quanto piuttosto l’esemplarità, il particolare significato di un evento in un processo causale, il portare alle estreme conseguenze quel criterio di scelta dei fatti particolarmente interessanti che ritroviamo all’origine della storiografia greca e occidentale nei proemi dei due storici che ne hanno inventato le strutture: Erodoto e Tucidide. E la conseguenza più semplice, la strada più agevole per uno storico romano che aveva in mente un sistema di valori quasi determinato geneticamente dal mos maiorum, è cercare questa esemplarità in fatti di ordine prettamente morale. Quando Sallustio si trova a giustificare la scelta di un argomento come la guerra giugurtina – tutto sommato poco interessante per i lettori dell’epoca seguita alla morte di Cesare, quando l’interesse era rivolto all’oriente greco per i progetti di Antonio e di Ottaviano di campagne militari contro i parti – riesce a connettersi con la problematica recente delle guerre civili dichiarando apertamente che questa guerra fu il primo momento, il primo esempio, di opposizione alla superbia della nobilitas (Bellum Iugurthinum V, 1). Dunque così come l’attività di scrivere la storia si trasforma nell’orgogliosa rivendicazione di un virtuoso isolamento (vedi la prefazione al Bellum Iugurthinum), la storia stessa diventa antitesi tra vizi e virtù che si alternano quasi a creare o a disfare le fortune degli stati; è un’operazione forse di semplificazione rispetto alla coerenza razionalistica dei modelli greci, Tucidide e Polibio più di ogni altro, ma segna il collegamento ideale tra Sallustio e la struttura profonda di giustificazione e di edificazione morale collettiva che nutrì sempre la coscienza storica dei romani. Sallustio in questo senso si ricollega idealmente al suo conterraneo Catone il Censore e a una visione della storia come celebrazione della grandezza di Roma e come polemica forte contro qualsiasi elemento di disgregazione di quel vero e proprio capolavoro collettivo che è lo stato romano (si può notare che nella digressione archeologica sulla storia di Roma del De Catilinae coniuratione le virtù dei romani sono virtù collettive, come già venivano descritte nelle Origines di Catone): il ricorso sistematico all’arcaismo sintattico e lessicale, che conferisce alle pagine dello storico sabino quel colore particolare e la loro ben nota forza di rappresentazione, non è un artificio gratuito, bensì un richiamo voluto allo stile catoniano nel solco di una tradizione storica di austero moralismo della quale proprio questo modo di scrivere diventa il marchio.
Postato il 25 febbraio 2011

24 febbraio 2011

Pascoli era massone, il Grande Oriente ora ha la prova

Comperata all’asta l’affiliazione del poeta in loggia, siglata da una «promessa rituale» nel 1882
di Cristina Taglietti
Il Fanciullino torna al «Grande Oriente». La stessa Loggia massonica, che tiene molto ai suoi «testimonial eccellenti», ha annunciato di essere entrata in possesso del documento che attesta inequivocabilmente l’affiliazione del poeta alla Libera Muratoria, nella Loggia «Rizzoli» di Bologna, il 22 settembre 1882. Il documento, ritrovato nel 2002 da Gian Luigi Ruggio, curatore della casa del poeta a Castelvecchio, tra le carte dell’archivio dell’avvocato Ugo Lenzi di Bologna, massone di spicco della città, è una promessa rituale scritta di pugno dallo stesso Pascoli, la cui calligrafia è stata autenticata da una perizia. Il foglio, firmato dal poeta, riporta la dicitura «Bologna 22 settembre 1882», anno in cui il ventisettenne Pascoli si laureò sotto la guida di un altro massone eccellente, Giosuè Carducci. Sul foglio è riportato il disegno di un triangolo marcato da un segno nero. Ciascuno dei tre vertici del triangolo riporta le tre domande poste per tradizione al «profano» prima dell’iniziazione e le relative risposte vergate a mano da Pascoli. «Che cosa deve l’uomo alla patria?» è la prima domanda, a cui Pascoli risponde «La vita». La risposta alla seconda domanda «Quali sono i doveri dell’uomo verso l’umanità?» è «Di amarla». Infine a «Quali sono i doveri degli uomini verso se stessi?» Pascoli risponde «Di rispettarsi». Il documento è stato acquistato all’asta bandita mercoledì a Roma dalla casa Bloombsbury. Prezzo: 2.500 euro
«Corriere della sera» del 22 giugno 2007

Croce, fascio e martello? Tutti infilzati

Un saggio per scoprire la storia di tutte le icone dei partiti. E il loro presente
di Eugenio Di Rienzo
Il volume curato da Francesco Benigno e Luca Scuccimarra (Simboli della politica, Viella, pagg. 264, euro 28) costituisce un’affascinante panoramica delle rappresentazioni iconografiche che hanno accompagnato e guidato i processi di aggregazione e di contrapposizione politica della società occidentale dal Medio Evo fino ai nostri giorni.
Alcune come il Fascio littorio, la Falce e il Martello, la Croce di Lorena (segno di identificazione della resistenza gaullista durante la Seconda Guerra mondiale) hanno contrassegnato profondamente il nostro Novecento. Altre come il Biscione lombardo o i Quattro mori sardi costituirono per secoli l’espressione di una specifica identità regionale, mentre la Donna turrita è stata l’icona di un organismo nazionale, l’Italia, sempre difficile da rappresentare nei suoi tratti identitari. Altre ancora, come il Berretto della libertà, divennero l’effigie della resistenza alla tirannia e della rivendicazione dei diritti popolari: dalla rivolta di Masaniello, al movimento di opposizione dei radicali britannici durante il XVIII secolo, alla Rivoluzione francese. Tutte, ad ogni modo, sono state, oggetto di amore e odio.
Terminato il periodo delle grandi contrapposizioni ideologiche novecentesche, molti di questi simboli hanno perso la loro tradizionale capacità di attrazione. Uno soltanto, invece, è tornato prepotentemente sulla ribalta politica e ha conosciuto una nuova, impetuosa vitalità. È il caso del Guerriero di Pontida: l’immagine del mitico Alberto da Giussano che, il 29 maggio 1176, guidò la lotta dei Comuni lombardi contro Federico Barbarossa nella battaglia di Legnano. Questa rappresentazione, di cui ci parla diffusamente il saggio di Andrea Spiriti, è divenuta, da simbolo risorgimentale dell’unità nazionale contro lo straniero, il segno di riconoscimento dell’autonomismo locale dalla Lega Nord.
L’iconografia leghista è l’espressione di un processo di mitizzazione, profondamente diverso da quello compiuto dagli altri partiti che, nel 1994, diedero vita al Polo della Libertà e del Buon Governo. Il bagaglio ideologico di Forza Italia si fondava sull’adozione di elementi neo-liberali e neo-democristiani provenienti dall’esperienza del «grande centro» degasperiano, amalgamati da un generico e rassicurante simbolismo cromatico (gli «azzurri»). Quello di Alleanza nazionale, attento alla presa di distanza dalle sue radici fasciste (frettolosamente e malamente rinnegate), risultava privo di una valida rappresentazione visiva a causa della rimozione del precedente e fin troppo articolato bagaglio iconografico «repubblichino» del Movimento sociale. Al contrario, il movimento leghista spiccava, già dai suoi esordi, per ricchezza di rimandi figurativi provenienti dal filone della mitologia celtica e pre-romana: il culto di Eridano (antico nome del fiume Po), il pellegrinaggio alle sue sorgenti, l’ampolla versata alla sua foce.
Su tutti questi simboli ha prevalso, comunque, l’immagine di Alberto da Giussano. Il Guerriero di Pontida incarna, da un lato, il capo sanguigno, popolare, che conosce la sua gente e ne impersona al meglio caratteristiche e virtù. Dall’altro, questo simbolo evoca la guida ascetica, superiore ai limiti comuni, per il suo disinteresse dei beni materiali, per la sua capacità di patire fino all’estremo sacrificio per la vittoria della causa.
L’immagine del cavaliere lombardo consente questa duplicità di lettura. Vincitore, e dunque uomo d’azione, egli è anche immobile nel gesto del trionfo e quindi, in qualche misura, è separato dalla contingenza temporale, tanto assumere le fattezze di un profeta. Questa stessa staticità si combina, però, con un altro tratto distintivo dell’immaginario leghista, quello della virilità. Al di là della voluta grossolanità del vocabolario della Lega - frutto di una precisa strategia di contrapposizione linguistica al «politichese» del Palazzo romano - nel suo patrimonio culturale ritroviamo un frequente rimando alla mascolinità, in un nesso quasi obbligato con la potenza bellica, che si evidenzia nella spada sguainata del Guerriero di Pontida. Sotto questo aspetto, la logica simbolica leghista è tuttavia profondamente diversa da quella presente nella tavola dei valori del fascismo. In quest’ultimo caso, l’energia sessuale del capo (Mussolini) era una componente del mito del «superuomo fascista». Nell’universo mentale della Lega Nord, invece, il rimando all’energia virile è la metafora della resistenza, della pazienza, dell’ostinata volontà di superare gli ostacoli che costituiscono il capitale politico di un movimento, proiettato nel futuro, ma mai dimentico delle sue radici contadine.
«Il Giornale» del 24 febbraio 2011

Il delirio di Umberto Eco: "Berlusconi come Hitler"

di Vittorio Macioce
Diventato l'intellettuale di riferimento del popolo viola, il professore sceglie un palco internazionale come Gerusalemme per lanciare l'ennesimo insulto al Cav Berlusconi come Hi­tler? La sfiga di Umberto Eco è che lui spara cavo­late e tutti lo prendono sul serio. La colpa è della ma­schera. L’etichetta da se­miologo, i baciamano di quelli come Fazio, la capa­cit­à di dire castronerie sen­za sorridere. Ci ha provato a cambiare faccia. Via la barba da professorone e spuntano i baffetti da poli­ziotto belga, in stile Du­pont& Dupont. Inutile. Quella di Eco resta una vo­cazione frustrata: voleva fare il barzellettiere. Solo che i suoi giochi intellet­tuali sono così raffinati che pochi li capiscono. So­no paradossi della logica, freddure estetiche, orga­smi metalinguistici. Il vol­go purtroppo non ride, ma comincia a interrogar­si sui ragionamenti del grande intellettuale ultra­settantenne. Lo intervista­no. Lo chiamano maestro. Lo invitano a rodomonti­che manifestazioni politi­che dove lui gigioneggia convinto che prima o poi qualcuno riconoscerà ar­guzie e facezie. E invece niente. Saviano lo guarda, fa la faccia seria, si mortifi­ca, gli sanguina il costato per tutto lo sporco del mondo e a quel punto Umberto non ha il coraggio di dire la ve­rità: guarda che stavo buffo­neggiando. Così di nuovo è co­­stretto a indossare gli abiti del maestro del pensiero. Eco, in­somma, è vittima di un pregiu­dizio. E con gli anni peggiora. Come se un vecchio non aves­se il diritto di dire scempiaggi­ni per divertirsi un po’. Povero briccone. Non sa che ultima­mente perfino i suoi amici di cena e sciarade lo prendono sul serio.
L’ultima, per esempio, non l’ha capita proprio nessuno. Ecco cosa ha raccontato, que­sta volta perfino sorridendo per sottolineare la battuta, lo scrittore quasi Nobel? (A pro­posito, perché l’hanno dato a quel serioso di Pamuk e a quel tragico commediante di Dario Fo?). Alla Fiera di Gerusa­lemme arriva da una spalla compiacente la domanda buo­na per raccontare una sottile barzelletta: «Berlusconi è para­gonabile a Gheddafi e Muba­rak?». Eco fa l’occhiolino,sorri­de e risponde serio ( l’ironia na­sce dalla contraddizione sceni­ca): «No, il paragone, intellet­tualmente parlando potrebbe essere fatto con Hitler. Anche lui giunse al potere con libere elezioni. Berlusconi ha vinto con il supporto di una grande maggioranza degli italiani. È piuttosto triste ma è così». Si aspettava la risata, almeno fin­ta, tipo quelle da sit-com. Nien­te. Tutti di corsa a scrivere la notizia.
Eco sa che il paragone riabili­ta Hitler. Il peccato del Führer non si chiama propriamente bunga-bunga. E non è una bar­­zelletta. La sera prima infatti ri­muginava sul caso di dirla o meno questa battuta. Chissà se qui in Israele si offendono? Eco sa anche, intellettualmen­te parlando, che la sua bouta­de non regge. Hitler ha preso il potere con il voto, ma poi ha blindato la Germania, con tan­to di cristalli e lunghi coltelli. Berlusconi ha vinto ed è stato sconfitto. Per due volte ha la­sciato Palazzo Chigi a Prodi. E il professore bolognese non è stato fatto fuori da un golpe, ma dai traffici di Veltroni, D’Alema e compagnia.Insom­ma, se Berlusconi fosse davve­ro Hitler quegli altri sono una banda di incoscienti, bugiardi e masochisti. È per questo che la barzelletta del semiologo non funziona. È sbagliata. Non rispetta la grammatica della logica. Purtroppo non fa ridere. Le intenzioni magari erano buone. La provocazio­ne di Eco aveva un senso. Era un modo per graffiare il popo­lo Viola, Moretti, Di Pietro, gli amici di Micromega che osses­sionati dal Cav continuano a sparare paragoni assurdi e sciocchi: Mubarak, Gheddafi, Saddam, Mussolini. Mancava solo Hitler. E, zac, ci ha pensa­to Eco. Vogliamo fare a chi la spara più grossa? Serviti. All Inn. Il piatto è suo.
Il guaio è che i barzellettieri devono amare il prossimo. Eco davvero invece disprezza gli italiani. Non li sopporta. È carico di astio. Quando dice e scrive in Francia o in Germa­nia, in America o in Nuova Gui­nea che gl­i italiani non si meri­tano nulla non bluffa. È quello che pensa veramente. Ma Ber­lusconi non c’entra nulla. Eco è incazzato perché nessuno ri­de alle sue battute. È la trage­dia di ogni grande comico.
«Il Giornale» del 24 febbraio 2011

Com'è falso il paradosso delle due verità

di Andrea Lavazza
Una caratteristica della filosofia, che la differenzia dalla scienza empirica, è data dal fatto che essa non può esibire un progresso lineare, in cui (almeno alcuni) problemi conoscitivi vengono affrontati, risolti e superati in quanto problemi. Ad esempio, certi paradossi logici che sfociano in un’apparente contraddizione continuano a essere veri rompicapo per i pensatori da almeno 2.500 anni e, ogni tanto, vengono riportati d’attualità dalle nuove soluzioni escogitate. Il filosofo cretese Epimenide ideò il seguente dilemma, noto come paradosso del mentitore: «Se affermo di mentire sto dicendo la verità? Se sì, sto mentendo, e quindi l’affermazione è falsa; ma se non sto dicendo la verità, sto mentendo, e dunque sto dicendo la verità. L’affermazione quindi è sia vera sia falsa». Ma da Aristotele in poi uno dei più rocciosi capisaldi del corretto ragionare è il principio di non contraddizione: non può essere vero x e il contrario di x. Inoltre, secondo la legge di Duns Scoto, «ex absurdo sequitur quodlibet»; ovvero, assumendo una contraddizione, se ne può dedurre qualsiasi cosa. Se allora non è accettabile il paradosso del mentitore, qualcosa non deve funzionare nel modo in cui è costruito. Ed è quello che logici e filosofi hanno tentato di dimostrare per secoli. Più di recente (ma non così di recente come ha sostenuto un articolo del «New York Times» ripreso in Italia da «Internazionale»), è stata avanzata un’altra proposta. La prospettiva nota come 'dialeteismo' (cioè la coesistenza di due verità, dal greco «di» –due – e «aletheia» – verità) intende affermare la possibilità che entrambi i termini di una contraddizione siano veri. E che il paradosso del mentitore rientri in questa classe. Secondo Graham Priest, principale esponente di questa prospettiva, non va rifiutata la logica classica, ma bisogna ammettere che esistano alcuni casi speciali di contraddizioni vere. L’argomentazione utilizza dimostrazioni formali di alta complessità, che attualmente, però, sono ben lontane dal risultare convincenti per molti logici professionali, i quali continuano a ritenere vero e falso mutuamente esclusivi. In particolare, le assunzioni del dialeteismo sembrano ancora più paradossali del problema che cercano di affrontare, facendo violenza alle nozioni diffuse di verità e falsità. La famiglia più vasta delle logiche paraconsistenti è comunque in espansione da alcuni decenni, a partire da situazioni in cui si debbono trarre inferenze deduttive attendibili da informazioni contraddittorie (ad esempio, un verdetto di tribunale da testimonianze che vanno una contro l’altra). Il filone principale ha preso il via dai lavori dell’argentino Asenjo, del brasiliano da Costa e di altri studiosi latinoamericani, per poi attirare l’attenzione più generale. Nel 2008 si è svolto a Melbourne il quarto congresso mondiale. Ciò che accomuna i vari fronti ricompresi sotto questa etichetta è il loro carattere non esplosivo, cioè il rifiutare il principio di Duns Scoto senza essere costretti ad ammettere qualunque conseguenza, e il trarre conclusioni informative da un’incoerenza. La loro rilevanza è crescente nei campi dell’informatica e della linguistica. Sul tema è disponibile in italiano un’utile antologia curata da F. Altea e F. Berto, «Scenari dell’impossibile. La contraddizione nel pensiero contemporaneo» (il Poligrafo, Padova).
«Avvenire» del 24 febbraio 2011