22 gennaio 2011

Un malinteso giovanilismo

Le colpe che i vecchi non hanno
di Giuseppe De Rita
Nelle ultime settimane si è accentuata la già alta e preoccupata attenzione sul futuro dei nostri giovani, anche con un inizio di istruttoria di colpevolezza. Così sono stati additati via via come colpevoli i vecchi che non lasciano il campo; i quaranta-cinquantenni che non hanno saputo gestire lo sviluppo attuale e futuro; le famiglie che, fra calore materno ed ausilio nonnesco, non rendono autonomi i loro figli e nipoti; la sovrastante offerta di beni e servizi che rende i giovani incapaci di desiderare alcunché; la stessa società, che non riesce a dar senso collettivo alle vite individuali; ed anche gli stessi giovani, poco propensi a rischiare avventure e responsabilità personalizzate.
Tanti colpevoli, nessun vero colpevole, verrebbe da dire. È utile invece un esame di coscienza che eviti il rimpallo circolare delle responsabilità e dei vittimismi e metta a fuoco quali meccanismi e processi culturali e sociali ognuna delle categorie citate mette in campo.
Cominciamo dai vecchi, la categoria che ha trascorso tutta la vita in questa società e che quindi più profondamente la conosce e ne interpreta i movimenti. Le accuse sono note: diffondono un’immagine quasi visiva dell’invecchiamento; esprimono con evidenza la rinuncia a progettare il futuro; espandono crescenti macchie di egoismo individuale e di gruppo; instillano germi di scetticismo e di cinismo; si rintanano in finora inusuali modi del vivere quotidiano (la residenza in piccoli borghi tranquilli o la breve passeggiatina con la badante). Vecchi e produttori del vecchio? In verità, se penso ai tanti amici coetanei che ancora lavorano oltre i 70 anni avverto in essi la determinazione a far sì che il loro vissuto possa avere un senso nel futuro di altri. C’è il vecchio monaco che continua a piantare filari di tigli perché chi seguirà possa goderne l’ombra e l’odore (metafora di più profondi filari di fede e di speranza); c’è il vecchio direttore di giornale che continua a credere in un messaggio patriottico anche rudimentale; c’è il vecchio presidente di grande banca che continua a riproporre il nesso fra etica, responsabilità, efficienza aziendale; ci sono la vecchia attrice e il vecchio attore (in questo periodo a Roma) che continuano a proporre una ironia ed una comicità lontane dalla guazza parolacciara oggi di moda; c’è il vecchio dirigente Rai che continua a trasmettere cultura contadina; c’è il vecchio giornalista televisivo che scrive un libro su Casanova (e ne discute con un vecchio regista) per dimostrare che il libertinismo è cosa più seria di quanto voglia far oggi credere uno scadente giornalismo gossip; c’è il vecchio ricercatore sociale che continua a proporre alla nostra società momenti ed occasioni di autocoscienza collettiva; c’è anche il presidente della Repubblica che continua a delineare e proporre gli assi di giusta progressione del sistema.
In tante decisive componenti della nostra vita associata, i vecchi allora funzionano. E non in termini di puro potere mandarino. Chi abbia infatti decifrato i personaggi sopra anonimamente citati avrà colto che in essi ci sono alcune componenti comuni, di profondo significato per i giovani che «si affacciano alla vita»: una componente di vocazione (hanno emotivamente scelto il proprio campo di impegno); una componente di fedeltà all’oggetto (hanno fatto solo un lavoro, senza troppo saltabeccare); una componente di tenacia, quasi di testardaggine nell’andare sempre nella stessa direzione; una componente di serena continuità («continuano » è il termine volutamente sopra ripetuto).
Si ricordino i giovani che senza queste quattro componenti non si fanno passi in avanti: nella classe dirigente, nel lavoro manuale, nella stessa uscita dal precariato e dall’incertezza. Ma i vecchi non hanno avuto solo virtù, ma anche fortuna, multipla e sfacciata; visto che sono riusciti a scampare a tutta la retorica del nuovo e della discontinuità che ha imperato per anni in Italia; non hanno dovuto partecipare a competizioni elettorali e meno ancora alle cosiddette primarie; non hanno perso tempo nei meccanismi di rilevazione e valutazione «del merito» scolastico e universitario (anche nelle lotterie dei concorsi); non sono stati parte (attiva o passiva) del demenziale spoil-system che ha distrutto ogni processo di continuativa evoluzione della macchina pubblica; non hanno ceduto alla tentazione di farsi rottamatori; non hanno per affermarsi dovuto o voluto partecipare a qualsivoglia talk show televisivo. Hanno respirato libertà rispetto alla cultura regnante del periodo. In conclusione la categoria non sembra aver colpe gravi verso le giovani generazioni; ma avendo nel tempo constatato quanto male abbiano fatto le malintese e «moderne» opzioni di nuovismo, discontinuità e giovanilismo, ai vecchi va il rimprovero e forse la condanna di non averle contrastate.
«Corriere della Sera» del 22 gennaio 2011

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