05 gennaio 2011

Se il potere si nasconde ci salveranno i filosofi

Nel mondo delle idee c’è chi apre varchi nel clima malinconico e disfattista che ha dominato la fine del '900
di Marco Belpoliti
Il 12 dicembre il New York Times riportava la notizia che il terzo mercoledì di ogni mese nove banchieri, i capi delle più importanti banche del mondo, si riuniscono in segreto per governare il mercato dei derivati: molti trilioni di dollari di prodotti finanziari che sfuggono al controllo della Borse. Sembra l’inizio di un romanzo di fantafinanza, ma anche la conferma che il turbocapitalismo ha trovato la sua stanza di compensazione, il cerchio magico attraverso cui dirigere le incerte economie mondiali. La scoperta fa balzare in primo piano un decisivo problema del XXI secolo: chi comanda nel mondo? Oggi che l’economia finanziaria non è più legata ad alcuno Stato o nazione, a nessuna legge ordinaria, che non ha più un territorio preciso, su cosa si fonda il suo comando?
Quello che il Nyt racconta non è solo la prova di un perfetto teorema complottistico, ma pone una questione teorica su cui i pensatori del nuovo secolo si stanno interrogando: cosa contrapporre a un potere sempre più invasivo, che si sottrae al controllo dei governi e ignora nel contempo i cittadini, svuotando di significato la stessa democrazia su cui si fonda il consenso sociale?
Negli ultimi anni due filosofi hanno tenuto il campo: Peter Sloterdijk, saggista e filosofo tedesco, con Non siamo ancora stati salvati (Bompiani), Il mondo dentro il capitale (Meltemi) e Sfere (solo in parte tradotto da Meltemi); e Slavoj Žižek, sloveno, filosofo militante, autore di molteplici volumi, in particolare: Il godimento come fattore politico (Cortina), L’epidemia dell’immaginario (Meltemi), e il recente Dalla Tragedia alla Farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo (Ponte alle Grazie). Dietro di loro, come numi tutelari, si stagliano Michel Foucault e Gilles Deleuze, figure intellettuali che dagli anni Settanta non sembrano mai aver perso d’interesse sia negli studi universitari sia nelle discussioni teoriche. Ma da qualche tempo, come ha evidenziato un libro appena apparso di Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana (Einaudi), ci sono pensatori italiani di spicco che hanno cominciato a lavorare intorno al tema.
Il primo si chiama Paolo Virno, insegna all’Università di Roma e in passato è stato accusato di far parte dei movimenti terroristici degli Anni Settanta; arrestato, processato e poi assolto, oggi è uno dei filosofi italiani più tradotti in area anglosassone. Il suo ultimo libro, E così via, all’infinito (Bollati Boringhieri), affronta un problema decisivo della politica moderna: perché dobbiamo obbedire? Su cosa si fonda la legge che regola la nostra vita collettiva? Attraverso un ragionamento stringente, legato a un’antropologia naturalistica e al dispositivo logico chiamato «regresso all’infinito» (la legge si fonda su una legge che impone di obbedire, che a sua volta è fondata su un’altra legge dell’obbedienza, e così via all’infinito), Virno mostra come l’animale uomo abbia come propria capacità intrinseca il linguaggio, la cultura, ovvero l’artificio stesso. In questo modo l’uomo è in grado di interrompere la catena della regressione all’infinito con una facoltà: tagliar corto, decidere.
Di fronte a uno dei capisaldi della modernità, che impone lo Stato moderno come depositario dell’ordine, amministratore della violenza, capace di addomesticare la ferinità degli uomini, come mostrano i filosofi da Hobbes a Carl Schmitt, Virno argomenta come a decidere per natura oggi non sia uno solo - il Capo, lo Stato -, bensì la moltitudine. E questo è sempre più vero in una fase storica come la nostra in cui la riproduzione della specie non è più solo un fatto materiale, ma è affidata al linguaggio, a quell’artificio proprio dell’animale uomo; per questa ragione occorrono nuove istituzioni che diano forma a questo passaggio dal mondo materiale al mondo immateriale.
L’altro autore che ha scandagliato i medesimi problemi è Massimo De Carolis dell’Università di Salerno. Due suoi libri si sono imposti all’attenzione non solo degli specialisti, per quanto di non facile lettura: La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri) e Il paradosso antropologico (Quodlibet). De Carolis lavora su un terreno che Michel Foucault definiva «ontologia del presente»: individuare, da un lato, quello che è da sempre proprio dell’uomo per ragioni biologiche e, dall’altro, ciò che appartiene alla contingenza del presente, ai problemi che abbiamo davanti. Ricostruendo le potenzialità creative dell’uomo, il filosofo mostra come dal mondo arcaico al postmoderno esista una vera e propria antropologia pluralista che neutralizza la tirannia dello Stato e della Politica, oltre che dell’Io.
Tutto, o almeno molto, è sempre possibile, ci dice De Carolis, nel processo di emancipazione dell’uomo. Si tratta di ragionamenti che sembrano aprire dei varchi nel mood malinconico e disfattista che ha dominato la fine del XX secolo, per pensare una nuova idea rivoluzionaria che non è più legata alla lotta di classe, all’egemonia di un gruppo o di un ceto sociale, ma alla natura stessa dell’uomo, alla sua prerogativa di essere artificiale. Pensare il futuro, e agire di conseguenza il cambiamento, è sempre più una questione di pensieri impensati.
«La Stampa» del 31 dicembre 2011

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