19 gennaio 2011

Mario Martone, Noi credevamo

La recensione al film visto lunedì 17 gennaio
di Glaudio Siniscalchi
SCHEDA FILM
Paese: italia
Anno: 2009
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Giancarlo De Cataldo, Mario Martone
Produzione: Carlo degli Espositi, Conchita Airoldi, Giorgio Matgiulo per Palomar, Les Films d'ICI con Rai Cinema e Rai Fiction
Durata: 204'
Interpreti: Francesca Inaudi, Toni Servillo, Luigi Lo Cascio, Guido Caprino, Valerio Binasco
Plot: Domenico, Salvatore e Angelo, tre ragazzi del Sud Italia testimoni della feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828, decidono di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Le loro esistenze, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche, si svolgeranno sullo sfondo della più sconosciuta storia dell'Unità d'Italia e verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari
Valori e Disvalori: prevale il volto rivoluzionario e terrorista del Risiorgimento, di chi cerca di organizzare attentati a re e a capi di governo
Giudizio tecnico: il lavoro di Martone è elegante, ben confezionato, intelligente, persino coraggioso
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"Noi credevamo” di Mario Martone è un film mazziniano. Del resto se andiamo alle origini dell’interpretazione del Risorgimento da parte degli intellettuali italiani, la linea di Giuseppe Mazzini ha avuto una fortuna straordinaria, nella sinistra come nella destra, per una semplice ragione: agli occhi del fondatore della Giovane Italia, dell’inflessibile cospiratore, il Risorgimento è stato frutto di un tradimento. Mazzini scrisse nel 1861: «lavorammo, combattemmo e versammo sangue per l’Italia». Cavour e la monarchia piemontese fecero altro, di molto meno nobile. Insomma, la contestazione al Risorgimento partì da subito: tradimento e inganno divennero le chiavi interpretative usate per denunciare la piega sbagliata assunta dall’unità italiana.
Dopo le quasi quattro ore di proiezione di “Noi credevamo” di Mario Martone si prova la stessa sensazione: la sensazione di aver assistito all’ennesima ripetizione di una esplicita, accorata delusione. Eppure il lavoro di Martone è elegante, ben confezionato, intelligente, persino coraggioso. Nel romanzo omonimo di Anna Banti al quale Martone si è ispirato molto liberamente in “Noi credevamo”, il regista napoletano individua l’essenza di una storia che ruota attorno alla dicotomia conquista sabauda/rivoluzione mancata. Il film storico, per sua natura, è sì un’operazione messa in piedi per far rivivere il tempo passato, ma è sempre, immancabilmente, uno sguardo sul presente.
Dove si annidano i vizi dell’oggi? Nel passato, nell’atto stesso della fondazione nazionale. Quindi se la nazione è nata su basi sbagliate, il resto del tempo è servito solo ad aggiungere errori ad errori, accumulare vizi senza guadagnare virtù.
Il film di Martone, per sin troppo esplicita somiglianza, richiama alla memoria un prodotto che qualche anno fa ebbe grandissimo successo: La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana. Noi credevano è la premessa, La meglio gioventù la conclusione sino ad oggi: resta solo il buco del fascismo.
A guardarci così come siamo, ci credevamo migliori. E in realtà potevamo (possiamo) essere migliori; ma forze superiori hanno tagliato le ali all’entusiasmo, hanno spento per sempre i sogni di una generazione (la “meglio gioventù” ottocentesca) dilaniata tra azione e disillusione, come Martone stesso ha ricordato. Tre giovani del Cilento interpretano l’irrefrenabile passione per l’Italia. Uno è un povero contadino, gli altri due nobili. Su questi ultimi il film sviluppa il racconto: uno prenderà la strada della concretezza (da repubblicano convinto si addomesticherà, come Francesco Crispi, al disegno monarchico sabaudo); l’altro estremizzerà le sue posizioni, sino ad arrivare al terrorismo.
L’interessante film di Martone pone però un’altra questione. Il cinema italiano del secondo dopoguerra ha preferito sorvolare sul Risorgimento. Il fascismo, per motivi strumentali, ne aveva dato una lettura estremamente positiva. Il Garibaldi di 1860 (1934) di Alessandro Blasetti ne è la massima riprova. In sintonia con la storiografia di Gioacchino Volpe, il Risorgimento altro non era che la premessa issata sulle baionette delle camicie rosse e conclusa dalle baionette delle camice nere. Non a caso Blasetti concludeva il film con un cinegiornale di incontro e amicizia (fatto sparire successivamente) tra garibaldini e fascisti. Questa retorica con il nuovo corso repubblicano andava dimenticata. Ci pensò Luchino Visconti a fissare l’immagine del Risorgimento decadente, vile, trasformista, accomodante, gattopardesco, in opere di grande rigore stilistico, Senso (1954) e Il Gattopardo (1963). Poi il nulla.
Eppure il cinema italiano era stato tenuto a battesimo dalla rappresentazione del Risorgimento. Il primo film a soggetto è La presa di Roma di Filoteo Alberini del 1905. L’apoteosi delle baionette issate sulle canne dei fucili dei bersaglieri in corsa a Porta Pia, si conclude con il ritratto dei padri della Patria: il Re, Garibaldi, Cavour e Crispi. Mazzini, repubblicano, è irrappresentabile: meglio Crispi ormai sabaudo e primo ministro. Da subito l’occhio del regista si accomoda sull’attualità, pur narrando di storie passate. Così come accade a Mario Martone.
Dopo avergli riconosciuto indubbio talento e notevoli capacità professionali, e il sacrosanto diritto di girare cosa gli pare, del Risorgimento come di ogni altro argomento, occorre ricordare che la sua lettura della storia è vecchia, figlia della cultura di una sinistra sempre pronta a cadere nelle trappole dell’ideologia. Perché i registi italiani non hanno mai raccontato (e difficilmente lo faranno), ad esempio, la battaglia di Curtatone e Montanara, combattuta il 28 maggio 1848? A difendere la Lombardia e il Piemonte accorsero studenti e professori universitari da Pisa, Livorno, Prato e da altre parti della Toscana. Combatterono eroicamente contro gli austriaci. La guerra del 1848 vide fra i giovani patrioti ardimentosi (e magari successivamente disillusi), né più né meno dei loro coetanei del Cilento, Carlo Signorini, che sarebbe diventato Collodi, autore di Pinocchio. La retorica risorgimentale esagerò un po’ sul merito militare degli studenti, che comunque morirono in gran numero e in gran numero furono fatti prigionieri. I sabaudi subirono l’ennesima sconfitta: ma si trattò di una sconfitta eroica. Il Risorgimento fu anche questo. Manca forse qualcosa di emozionante, nazionale e giovanile, in questa pagina risorgimentale per trarne un film? Collodi non è parte integrante della “meglio gioventù” ottocentesca?
Postato il 19 gennaio 2011

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