23 gennaio 2011

La Shoah ci ha convertito?

di Aharon Appelfeld
Il destino delle persone sopravvissute alla Shoah prende corpo nella loro esperienza, ma anche nelle risposte che esse hanno dovuto fornire in seguito, a se stesse e agli altri. Le domande da affrontare non erano facili e, molto spesso, il sopravvissuto si è ritrovato nella posizione dell’accusato. Capi di accusa: accecamento, impotenza, vigliaccheria. L’espressione «condotti al macello come agnelli» riassume, mi pare, tutte queste accuse. Gli accusatori sanno che tutti gli ebrei non avevano l’età per battersi. E che «non abbandonerai tuo padre e tua madre» costituisce uno dei comandamenti fondamentali dell’ebraismo. Gli accusatori sanno anche che l’Europa intera era unita in una prospettiva comune: distruggere gli ebrei. Questi fatti, conosciuti, non vengono comunque presi in considerazione. Molta gente avrebbe poi pensato che era stata una vergogna per milioni di ebrei essere stati condotti al macello senza resistenza, una vergogna e qualcosa di difficile da ammettere o sopportare. Di qui deriva la relazione complessa, fatta di sospetto e malinteso, tra il sopravvissuto e coloro che lo circondano. Ho detto questo a mo’ di introduzione perché anche ciò che dobbiamo affrontare, la Shoah e la fede religiosa, è pure fonte di malintesi. Io esaminerei, anzitutto, l’ipotesi, ancor oggi largamente ammessa, secondo la quale la Shoah ha indebolito la fede di numerose persone, se non il fatto che essa l’ha perfino distrutta. Io non so quando questa voce ha iniziato a diffondersi ma si è così ben affermata al punto da risultare un’affermazione considerata vera e mai messa in discussione. Una fede profonda non è qualcosa che si perde facilmente. Chi ha attraversato la Shoah non dimenticherà mai le urla dell’«Ascolta Israele» che fracassavano l’aria e facevano tremare la terra. Le vite degli ebrei furono loro strappate in un contesto di paura, ma talvolta anche nell’esaltazione intellettuale e in un autentico martirio. Gli orrori della Shoah non sono durati un giorno o due. Proseguirono sei anni. Penso che non si trovano nella storia ebraica sei anni così lunghi. Furono anni in cui ogni minuto, ogni secondo, ogni frazione di secondo erano caricati con qualcosa che non erano capaci di contenere. Ciascuno dei nostri sentimenti e pensieri passa attraverso la fornace raffinata della sofferenza. Noi parliamo della Shoah come di una prova fisica. Ma la prova spirituale non fu meno dura. Mentre, di fuori, ci assaliva il terrore, all’interno a sua volta soffriva lo spirito. Cos’era un uomo? Cos’era un ebreo? Nei campi di concentramento questi tormenti brucianti furono il nostro pane e acqua quotidiani. La Shoah non ha colto l’ebreo in un momento di forza della sua antica fede ma in un istante di debolezza, quando stava cercando il suo cammino. Porzioni considerevoli del popolo ebreo avevano già rotto con la loro ebraicità. I boschi e i bunker non fornivano solo un rifugio dal nemico, rivestivano il ruolo anche di luoghi di ritiro, che offrivano l’occasione di risalire alla sorgente di tutta questa sofferenza. Nei boschi e nei bunker avevano luogo veementi discussioni che si prolungavano fino all’alba. L’ebreo non affrontava solo i nazisti, ma anche la sua propria ebraicità che lo perseguitava. Il bruciore interiore non era meno vivo di quello delle fiamme esteriori. Io esito a dirlo: noi abbiamo percepito l’orrore apocalittico della Shoah come un’esperienza profondamente religiosa. Questo va detto, benché non sia facile perché talvolta non lo si riesce a spiegare, anche a se stessi. Quando parlo di esperienza religiosa, non mi riferisco all’ambito astratto della teologia, ma prima di tutto a quello che unisce l’uomo al suo simile e al mondo materiale in cui si trova. La qualità del legame e della relazione che si instauravano con l’ambiente, e con se stessi, era nuova. Si tratta di esperienze sottili e folgoranti, difficili da esprimere e definire, e dubito che sia possibile renderle probanti, benché siano state scintille di pura luce nella notte assoluta, momenti di liberazione per l’essere fisico e di fraternità ebraica al di là dell’unità tipicamente tribale. Noi abbiamo visto chiaramente, durante la Shoah, come gli ebrei praticanti elevarono i comandamenti ad un grado di purezza assoluta. Abbiamo visto come l’osservanza delle pratiche religiose, il rito della kashorut, il sabato, la preghiera nei diversi orari non costituivano solo pilastri della religione, bensì divennero le colonne di fuoco che illuminarono l’oscurità in cui si trovavano coloro che non avevano mai conosciuto prima, nella loro vita, i comandamenti dell’ebraismo. La maggioranza delle persone della mia generazione erano state straniere rispetto ai segreti della religione ebraica. Il nostro giudaismo, se ne avevamo uno, era sociale e razionalista. Era molto più una questione di routine che un’esperienza vissuta, ed ecco che al cuore dell’orrore ci fu l’incontro con la nostra ebraicità. Non fu un affare di ragione né di costrizione. Fu un fatto, per così dire, senza intermediari. La storia ebrea nella sua forma più condensata era davanti a noi, in un faccia a faccia.
La ragione umana, che l’ebreo coltivava con tanta fiducia, alla quale era così fortemente attaccato, a spese spesso dei suoi stessi valori ebraici, essa divenne ai suoi occhi un demonio. Nei campi di concentramento un uomo non era valutato secondo ciò che era, in qualche maniera, il mistero che racchiudeva in sé. Poco importava che egli considerasse questo mistero come qualcosa di reale e che faceva parte integrante della sua propria esistenza, o che se ne fosse distaccato. Le parole non possono spiegare il processo che si realizza nel profondo dell’anima. Io esito ad utilizzare concetti provenienti dalla nostra antica tradizione. Ultimamente, in Israele, l’espressione «hazara biteshouva», tradotta con «pentirsi», e che vuol dire letteralmente «ritorno» all’osservanza religiosa, ha preso una dimensione sociale, se non politica, che mette in pericolo il suo senso profondo e antico, ed è per questo che la uso con cautela. Di solito si intende questo «pentirsi» come un ritorno assoluto, la completa riconoscenza e accettazione dell’autorità divina. Non è questo il tipo di «ritorno» che la Shoah realizza, ma si tratta piuttosto di un contatto con un’atmosfera impregnata di una sorta di profondità mitica, uno strato da cui mi sembra nasca la fede. Certo, si può dire anche che il sentimento religioso emerge nel luogo più profondo della disperazione, in maniera simmetrica rispetto al nichilismo. Se sorse un sentimento religioso, ciò accadde non perché si avesse ceduto a qualche fatalismo dal momento che la vita non lasciava altra scelta. In realtà si è trattato di un «malgrado tutto» essenzialmente umano, come un obbligo verso la sofferenza e il dolore ebrei. Si può vedere questo obbligo in diversi modi, dalla reazione emotiva più semplice – il rifiuto davanti alla bestialità dell’uomo – fino a quello che culmina nell’impegno e nel dire: se il destino ha decretato che noi siamo ebrei, allora lo siamo.
I sentimenti religiosi sbocciarono da tutte le parti, nel silenzio o nella melodia dei canti e delle preghiere. Ho già evocato i sentimenti religiosi collettivi, la comunità, la privazione di ogni bene, di ogni statuto sociale e titolo, il faccia a faccia con l’esistenza, e come fummo davanti agli assassini, ma mi sembra che nella solitaria compagnia di se stessi, ciascuno nel proprio cuore, provammo questi sentimenti religiosi, o ciò che io chiamo tali, e la loro particolare intensità.
Forse dovrei dire una parola in più sulla qualità di tali sentimenti. Per la maggior parte erano momenti di «illuminazione» dopo giorni di fame, pericolo, disperazione, una sensazione di meraviglia davanti alla gente e alle cose, la ritrovata presenza dei parenti, un’autoconsolazione.
Per i bambini la cosa era forse più «primordiale» ancora – un contatto con gli alberi nella foresta, con la terra umida, la paglia, la durezza delle radici delle piante che succhiavamo per nutrirci, il cielo di notte. Questi contatti con lo spazio ostile, per noi che eravamo senza riparo né genitori, vibravano di una qualità che non consisteva nella «scoperta» o nella curiosità.
Io chiamo religiosi questi sentimenti. Sono, se si vuole, i sentimenti religiosi fondamentali, perché non pongono alcuna domanda, non hanno a che vedere con un approccio corrucciato, non hanno la portata della ricerca spirituale. Ma sono uno stupore che non riguarda altro se non se stesso, senza nessun altro scopo: siete voi e il mondo, senza separazione. Questi sentimenti sorgevano nei periodi di relativa calma, tra due deportazioni, o talvolta nei boschi, durante la bella stagione. Erano rari ma così potenti che, quando sopraggiungevano la sofferenza e il freddo, avevamo fatto una meravigliosa scorta di consolazione.
Mi è facile immaginare che si possa contestare l’idea di chiamare religiosi questi sentimenti. Le persone che hanno una concezione tradizionale della religione diranno che si tratta di un feticismo. Inoltre, molti sopravvissuti che ho incontrato non sono mai stati visitati da questi sentimenti. Essi non comprendono ciò di cui sto parlando. Mi ricordo di una volta in cui ero seduto al bordo di un ruscello, a guardare dei ramoscelli che fluttuavano in superficie, e li osservavo con una sorta di «fervore», come se non fossero dei rametti ma degli oggetti incantati che avevano percorso un lungo cammino proprio per giungere fino a me.
(traduzione di Lorenzo Fazzini)
Noi abbiamo percepito l’orrore apocalittico dell’Olocausto come un’esperienza profondamente religiosa. I praticanti elevarono i comandamenti a un grado di purezza assoluta e l’osservanza dei riti, il sabato, la preghiera divennero le colonne di fuoco per illuminare l’oscurità in cui si trovava chi non aveva conosciuto prima i precetti della Bibbia Il senso del sacro sbocciò ovunque, nel silenzio o nel canto
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L’autore: sopravvissuto e «metafisico»

È uno dei narratori contemporanei più significativi sull’Olocausto, capace – secondo Philip Roth – di «presentare la realtà più dura e la forma di sofferenza più estrema». Nato nel 1932 in Bucovina (regione divisa tra le attuali Romania e Ucraina), sopravvissuto alla Shoah – in cui ha perso la madre e i nonni – e fuggito da un campo di sterminio nazista in Ucraina grazie all’Armata Rossa, dove prestò servizio come cuoco, Aharon Appelfeld oggi vive a Gerusalemme, dove è emigrato nel 1946. È docente emerito di letteratura ebraica all’università ebraica Ben Gurion a Beersheva. Fa parte dell’American Academy of Arts and Science. I racconti di Appelfeld sono sempre incentrati sul tema della memoria e del significato «metafisico» del dramma della Shoah, come ad esempio «Badenheim 1939» (Guanda) in cui riflette sull’assimilazione incosciente dell’ebraismo europeo, incapace di comprendere il sorgere del nazismo antisemita.O, ancora, il tema dell’innocenza e del male quale affiora in «Paesaggio con bambina» o i traumi dei sopravvissuti, rievocati in «Notte dopo notte» (Giuntina). Qui presentiamo in ampi stralci il testo, inedito in italiano, di una conferenza tenuta da Appelfeld a New York nel 1991 sul tema della memoria «teologica» dello sterminio degli ebrei da parte del Terzo Reich.
«Avvenire» del 23 gennaio 2011

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