17 gennaio 2011

I 150 anni tra unità e secessione: ora impariamo dagli Stati Uniti

In America si commemora la sanguinosa guerra tra Nord e Sud. Lo scontro tra "revisionisti" confederati e storici pro Lincoln è aspro
di Mario Cervi
È tempo di revisionismi, a 150 anni dal fatidico 1861. Revisionismi italiani, anzitutto. Con l’ufficialità nazionale - e un certo numero di volonterosi - impegnati a celebrare degnamente quel portento che fu la nascita del nostro Stato, con i «borbonici» intenti a raccontare che la calata dei piemontesi a sud fu peggio delle scorrerie naziste, con i militanti della Lega per i quali il federalismo e le camicie verdi sono più importante della Patria e del tricolore. Molte asprezze, nessuna certezza. Ma vale la pena di notare, mentre imperversa con toni accesi questo dibattito, che un’altra ondata commemorativa - con relativa querelle - è in corso dall’altra parte dell’Oceano, negli Stati Uniti. Nel 1861 si fece l’Italia e in contemporanea, con l’inizio della sanguinosissima guerra di secessione (600mila morti), si rischiò di disfare l’America. Dopo che nell’autunno del 1860 Abraham Lincoln era stato eletto presidente, il via alla disunione fu dato, il 20 dicembre, dal South Carolina. Il 9 gennaio 1961 fu la volta del Mississipi, il 10 gennaio della Florida, l’11 gennaio dell’Alabama, il 19 gennaio della Georgia, e poi in successione la Louisiana (26 gennaio) e il Texas (primo febbraio). Un paio di mesi dopo se ne sarebbero andati la Virginia, il Tennessee, l’Arkansas, il North Carolina. Il gigante che aveva per etichetta l’acronimo wasp (white anglo saxon protestant) ma che nel sud fondava la sua prosperità agricola sulle braccia degli schiavi, stava perdendo pezzi.
Le passioni che allora divamparono si sono spente. Ma sono in corso, qua e là nel sud degli Usa, festeggiamenti, rievocazioni e - potevano mancare? - dispute. Il tema del contendere è questo: davvero in quello scontro una parte - la parte dei repubblicani di Lincoln - si battè per l’umanità, la civiltà e il progresso e la parte opposta, i cosiddetti confederati, fu oscurantista e brutale? Si trattava, secondo questo schema, di decidere se la schiavitù, come istituzione riconosciuta e codificata, dovesse ancora esistere. Punto e basta. Molti americani - di ieri e di oggi - non sono disposti ad accettare questa semplificazione. Sostengono che essa fa torto al sud, che egoistici interessi industriali e meschine ambizioni politiche si sovrapposero al sì o no per la schiavitù. Viene sottolineato che molti sudisti non erano proprietari di schiavi, e che combatterono e morirono per difendere le loro case e le loro famiglie. Vi furono insomma motivi ideali in quel pronunciamento ribelle, non soltanto la pretesa di perpetuare una istituzione che ha accompagnato la storia degli uomini durante millenni, che fu accettata senza ripugnanza dai grandi filosofi dell’antichità, ma che oggi ispira orrore.
Proprio per non turbare le coscienze dei sudisti, le targhe ed epigrafi in memoria di quella stagione cruenta evitavano in generale d’individuare la schiavitù come nodo della questione. Ma il tabù è stato infranto. In Georgia una lapide attuale così si esprime: «La secessione cominciò come risposta all’elezione di Lincoln in novembre e con la convinzione che il partito repubblicano avesse la lotta alla schiavitù come missione e obbiettivo». Questo riconoscimento non piacerà ai revisionisti del sud che insistono sulla bontà e onestà della causa confederata. Della polemica si è occupato, sull’Herald Tribune, Jeff Jacoby. Per arrivare alla conclusione che le anime nobili non mancarono nell’esercito sudista, ma che la schiavitù ebbe in quella guerra un ruolo determinante.
Un «moderato» come Alexander Stephens - che era amico personale di Lincoln ma che fu vice presidente dei confederati - così parlò pianamente, nel marzo del 1861: «In contrasto con coloro che ritengono che la schiavitù sia sbagliata, il nostro nuovo governo è fondato sull’idea opposta. Il negro (scritto così, come in italiano) non è uguale all’uomo bianco. La schiavitù, ossia la subordinazione alla razza superiore, è la sua (del negro) normale e naturale condizione».
Le chiese cristiane si adeguarono non di rado a questi concetti, così lontani dall’insegnamento del Vangelo. Nel 1452 papa Niccolò V propose al re del Portogallo di ridurre in schiavitù tutti i musulmani dell’Africa settentrionale. Una «istruzione» di Pio IX così recitava: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento».
Il 31 gennaio 1865 il Congresso approvò l’abolizione della schiavitù, il 14 aprile Lincoln fu assassinato. L’emancipazione degli schiavi negli Usa, lo sappiamo, non segnò la fine delle discriminazioni razziali. A volte il costume evolve molto più rapidamente delle leggi, a volte molto più lentamente. La grande ferita della guerra di secessione, che non ha impedito all’America di affermarsi come superpotenza mondiale, è da tempo cicatrizzata. Forse meglio cicatrizzata, nonostante la ferocia delle battaglie, di quanto sia avvenuto in Italia per i mali del meridione e il «brigantaggio». L’America ha capito che un secolo e mezzo è un tempo lungo, è bastato per trasformare un grande Paese emergente in un Paese dominante e per decretare la fine di imperi. Ma per gli apostoli italiani del sud il tempo e la storia sono pietrificati ad allora, e vengono posti come un macigno su ogni discussione riguardanti l’oggi. Sono giuste e utili le riflessioni su remoti e meno remoti fatti della storia nazionale. Meno giusto e meno utile è il piagnisteo rancoroso.
«Il Giornale» del 17 gennaio 2011

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