18 gennaio 2011

Gli ambasciatori del Duce dentro l'inferno di Hitler

Un saggio di Gianluca Falanga racconta i quindici anni di rapporti (poco) diplomatici tra il Reich e l'Italia fascista. Vittorio Cerruti capì subito che i nazisti avrebbero trionfato e agì di conseguenza
di Francesco Perfetti
Mentre, sul far della sera, il 30 gennaio 1933, a Berlino imponenti cortei si dirigevano verso il palazzo del governo per festeggiare la «presa del potere» da parte dei nazionalsocialisti, l’ambasciatore italiano in Germania, Vittorio Cerruti, affidava a un messaggio diretto a Benito Mussolini le sue impressioni a caldo. Le parole del diplomatico, giunte sul tavolo del presidente del Consiglio italiano una mezz’ora dopo la mezzanotte, sottolineavano la sorpresa generale di gran parte degli ambienti politici tedeschi per la collaborazione fra Hitler e Hindenburg. In realtà, il meno sorpreso fra i diplomatici accreditati a Berlino era proprio Cerruti, il quale, da qualche tempo, si era reso conto che il movimento hitleriano avesse più concrete possibilità di giungere al potere di quante non ne avessero gli ambienti conservatori tradizionali. Aveva quindi espresso su di esso valutazioni positive. Ciò aveva avuto come conseguenza un intensificarsi di contatti del movimento di Hitler con il fascismo che, fino a qualche tempo prima, aveva preferito guardare con attenzione, anche servendosi di una «diplomazia parallela», soprattutto al mondo composito della destra tedesca di tradizione militare e conservatrice. Non a caso il caustico ambasciatore francese André François-Poncet lo aveva definito il «Lord Protettore del Reich».
Tuttavia, Cerruti presto divenne un personaggio scomodo per Hitler: dalle iniziali simpatie per il nuovo regime egli finì per assumere, a partire già dall’autunno 1933, posizioni fortemente critiche soprattutto in conseguenza dell’avvio della campagna antisemita e del tentativo di Anschluss del 1934. Sempre più pesanti divennero i suoi contrasti, oltre che con le gerarchie nazionalsocialiste, con quello strano personaggio che fu Giuseppe Renzetti, espressione della «diplomazia parallela» di Mussolini presso le destre tedesche, prima, e i nazionalsocialisti, poi. Fatto sta che Cerruti venne richiamato da Berlino nell’estate del 1935 e inviato come ambasciatore a Londra.
Un attento studioso, Gianluca Falanga, nel volume L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler. La politica italiana a Berlino (1933-1945), edito originariamente in Germania e ora pubblicato anche da noi (Marco Tropea Editore, pagg. 512, euro 23; in libreria da domani), osserva che Cerruti si era adoperato molto, e presto, per tenere l’Italia lontana da Hitler, tanto che non è privo di significato il fatto che quando il diplomatico italiano lasciò il suolo tedesco, nessun membro del governo o del partito, per esplicito desiderio del Führer, venne a porgergli il saluto protocollare.
A Cerruti succedette Bernardo Attolico, già ambasciatore a Mosca, burbero di modi, ma apprezzato per la sua intelligenza vivace e per la sua capacità organizzativa nel lavoro. Nel primo incontro con Hitler, il nuovo ambasciatore, per ordine di Mussolini, accennò alla «straordinaria importanza che i rapporti italo-tedeschi avevano per l’equilibrio delle nazioni» e auspicò che essi potessero in futuro «crescere ancora di più». In effetti durante i quattro anni e mezzo durante i quali Attolico rappresentò l’Italia a Berlino maturarono le fasi più significative dell’avvicinamento fra Germania e Italia culminate con la stipula del Patto d’Acciaio nel maggio 1939. Eppure, come ben osserva Falanga nel suo saggio, durante quei fatali quattro anni e mezzo, l’ambasciatore italiano subirà una metamorfosi profonda, una evoluzione simile a quella del suo predecessore, trasformandosi da strenuo fautore di una salda amicizia collaborazione fra Roma e Berlino in strenuo avversario del nazionalsocialismo e della «alleanza tra i fascismi». L’iniziale attivismo filotedesco di Attolico a sostegno del «revisionismo radicale» di Hitler divenne ben presto un vero e proprio braccio di ferro per cercare di contrastare in qualche modo i programmi espansionistici e di destabilizzazione internazionale portati avanti dal nazismo. Hitler, in persona e attraverso von Ribbentrop, fece pressioni per ottenere che Attolico venisse allontanato dalla capitale tedesca. Il che avvenne alla fine di aprile del 1940, poco prima che l’Italia entrasse in guerra. Ad Attolico venne assegnata una nuova sede, il Vaticano, e il suo commento fu laconico: «Dal diavolo all’acqua santa».
Che Hitler fosse, a dir poco, seccato dal comportamento, percepito come antitedesco, dei nostri ambasciatori a Berlino, lo dimostra il fatto che egli fece pervenire a Mussolini, per il tramite dell’ambasciatore tedesco a Roma, l’indicazione di almeno due nomi di suo gradimento: Roberto Farinacci e Dino Alfieri, entrambi non erano diplomatici di professione, ma esponenti del partito fin dalla prima ora. La scelta cadde su Alfieri che resse l’ambasciata berlinese fino a quando, dopo l’armistizio, la sede diplomatica venne abbandonata, ingloriosamente e in tutta fretta, e i documenti e i cifrari furono bruciati.
Poi fu la volta di un altro diplomatico fascista, Filippo Anfuso, ex capo di gabinetto di Ciano, ma noto come finissimo letterato, che si ritrovo a rappresentare solo una parte d’Italia, quella che aveva seguito Mussolini nell’avventura della Repubblica Sociale. Nelle sue memorie, Anfuso sintetizzo la sua esperienza in poche intense e drammatiche parole: «La storia dei miei venti mesi di Ambasciata a Berlino non è di questo mondo: essa appartiene a un universo scomposto dalle fiamme e dominato da una sicura e crescente demenza. Non riesco a separare, da quel soggiorno, i primi dagli ultimi giorni, ed ho la sola impressione di aver cominciato dalla fine».
L’attività dei quattro ambasciatori italiani succedutisi nella Germania nazionalsocialista, ma anche le loro idee e i loro turbamenti sono ricostruiti nel bel volume di Falanga, che attraverso un esame attento della documentazione italiana e tedesca, oltre che della letteratura storiografica e della memorialistica dei diplomatici italiani presenta un’immagine dei rapporti italo-tedeschi in profondo contrasto con lo stereotipo della «comunanza dei destini» e del Patto d’Acciaio. Una immagine molto più vicina alla realtà dei fatti.
«Il Giornale» del 18 gennaio 2011

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