23 gennaio 2011

A cosa serve oggi celebrare il giorno della memoria?

di Giorgio Pressburger
Certi giorni dell’anno, sono scelti da una parte dell’umanità per ricordare grandi e piccoli avvenimenti, a volte tristi e dolorosi, a volte gioiosi e degni di momenti di allegria. Questi ultimi si chiamano feste, ma oggi con quella parola si intendono commemorare anche tragedie. L’umanità vive da millenni di questi momenti di ricordo. Religioni, grandi movimenti storici e spirituali si basano su queste periodiche ripetizioni di memoria. La crocefissione di Gesù, la morte di Maometto, l’uscita dalla schiavitù in Egitto per gli ebrei; oppure la vittoria per gli italiani, nella Prima Guerra Mondiale; persino i giorni della settimana o i mesi ricorrono, nella mente legati al nome di una divinità o a un culto particolare (la luna, il culto di Marte, di Venere, di Mercurio, o per gli inglesi e i tedeschi il sole (sunday, Sonntag): in queste ricorrenze si conservano tracce della Storia degli ultimi due o tre millenni.
In questa lista è entrata da pochi anni il Giorno della memoria. Memoria di che cosa? Dell’eccidio che voleva cancellare dalla Terra un popolo intero, e in parte ci è anche riuscito. Anche figli di altri popoli sono morti in quelle stragi, le prime progettate scientificamente, adoperando il sapere per essere efficaci nell’azione di morte. A dire il vero l’uomo l’ha fatto da tempo immemorabile. Appunto, da tempo immemorabile. E l’assenza di memoria ha permesso un’evoluzione terribile di tale atteggiamento, prerogativa dell’essere umano, tra tutti gli esseri della Terra.
Ma la memoria, l’acquisizione permanente di esperienze cattive da parte del cervello, è servita mai a evitare nuove esperienze cattive private e collettive? Mai. Una parte rilevante degli esseri umani è ancora in preda a turbe emotive che prevalgono su qualsiasi ragionamento, qualunque previsione, e anche su qualsiasi senso della compassione. La società umana si è costruita in gran parte per impedire il dilagare degli effetti di questa pessima emotività omicida.
E invece questa si conserva e si rafforza. Ora le guerre le fanno anche bambini di otto­dieci anni uccidendo con le armi più moderne e più micidiali.
Allora serve il Giorno della memoria? Serve a ricordare e imprimere nelle menti le sofferenze atroci inflitte a milioni di persone chiuse in baracche in attesa della morte e sfruttate fino all’ultima goccia di sangue, costrette a lavori pesantissimi, senza cibo, fino allo sfinimento mortale, torturate, umiliate, squartate, ingannate (la storia orrenda delle finte docce dalle quali usciva il gas velenoso).
Già i nostri figli hanno soltanto un’idea molto vaga di tutto questo (e forse è meglio così), già alcuni fanatici o alcuni criminali del tutto cinici dicono che non è successo niente, che sono tutte menzogne. Con questo strafogamento di immagini, notizie, stimoli violenti, suoni, fuochi, a poco a poco comincia a esistere soltanto il presente, l’istante attuale in cui non c’è memoria se non del desiderio più recente, da rinnovare e soddisfare subito. Quel modello terribile di orgia omicida che ora commemoriamo è stato imitato, da allora (da settant’anni fa) in molte occasioni, in molte parti del mondo, da potenze evolute e da quelle meno evolute, se possiamo chiamare evoluta la nostra civiltà occidentale. La consapevolezza di avere a disposizione mezzi sempre più efficaci per uccidere anche grandi masse di uomini ha dilagato sempre di più, istigando a nuove malefatte. Come dilaga l’omicidio più primitivo, attuato per esempio con il machete, per togliere la vita a un milione di persone (i tutsi) in poche settimane. L’odio per gli ebrei non cessa, anche se si presenta in vesti completamente diverse. E lo stesso succede per i rom, per gli zingari e per molte altre popolazioni.
Qualcuno afferma allora che è meglio non ricordare, che è meglio trovare altri mezzi per imbrigliare la parte più terrificante dell’animo umano. Che le fedi in un Dio, in una qualunque divinità o semplicemente nella compassione per gli altri, non sono più utili all’uomo. Arrivare a questa disperazione equivale ad approvare i delitti. Siamo forzati a credere, ad avere fede. A ricordare ad ogni costo. E siccome questo può essere pesante, faticoso, e richiede un’onestà totale, una sincerità totale con se stessi e con tutti, dobbiamo accettare questa che Emanuele Lévinas chiama «difficile libertà».
«Avvenire» del 23 gennaio 2011

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