24 dicembre 2010

Test genetici in gravidanza, caccia al feto difettoso

Maternità e aborto
di Emanuela Vinai
La domanda si pone con insistenza: ma lo vogliamo far nascere, questo bambino? Quesito tutt’altro che ozioso. Non solo per l’inevitabile assonanza nata­lizia, ma perché già nella nor­malità delle cose il venire al mondo è un percorso a osta­coli, e se poi a questo si ag­giunge l’attraversamento del­la giungla dei test prenatali, per il nascituro la faccenda diventa oltremodo ostica. Secondo i dati disponibili, in Italia una donna in gravidanza su tre si sottopone a test di diagnosi pre­natale. Le motivazioni sono diverse e vanno dal raggiungimento di una determinata soglia ana­grafica (normalmente i 35 anni), alla presenza di malattie geneticamente trasmissibili, a una più generica e ormai diffusissima 'medicalizzazione della gravidanza'.
Un trend che finisce per stigmatizzare la futu­ra mamma che non si sottoponga a tutti gli esami disponibili per 'la salute del bambino' e che, pur nelle migliori intenzioni, finisce per scivolare in un’inarrestabile 'caccia all’anomalia'. «Il problema dello screening prenatale è la fina­lità con cui lo si effettua», afferma Licinio Contu, genetista, presidente della Federazione italiana A­doces (Associazione italiana donatori cellule sta­minali) e dell’Admo (Associazione donatori mi­dollo osseo): «Il test ha senso se si esegue, come si farebbe con un adulto, con la prospettiva di fornire tempestivamente una diagnosi di un’e­ventuale anomalia così da predisporre una tera­pia adeguata. Se invece l’unica 'cura' prospetta­ta è l’aborto non possiamo che parlare di euge­netica, perché avviene inevitabilmente una selezione».
Contu è particolarmente duro con la 'celo­centesi', l’ultimo ritrovato in fatto di test pre­natali, che, senza ricorrere alla villocentesi, consente di diagnosticare la talassemia già al se­condo mese di gestazione. Anticipare i risultati consente, come dichiarato nel recente comunica­to stampa di presentazione del test, di «ricorrere all’Ivg e non all’aborto terapeutico con un bene­ficio della donna sia fisico sia emotivo». «Nel ca­so della talassemia è assurdo – ribatte il genetista – perché se i bambini talassemici sono avviati al trapianto in tempo utile le percentuali di guarigione che abbiamo riscontrato sono del 98%». L’uso indiscriminato dei test prenatali e la re­sponsabilità in capo ai sanitari di interpretare cor­rettamente i risultati porta, più o meno inconsa­pevolmente, all’introduzione surrettizia di un con­cetto che va contro ogni logica medica: l’aborto diventa prevenzione di una malattia. «La cura che si propone è l’eliminazione del malato – conclu­de Contu – ma cosa succederebbe se questa so­luzione venisse applicata anche nelle corsie degli ospedali?».
Per ovviare all’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita, il 16 dicembre il Ministero della Salute ha pubblicato le «Linee guida sul­la gravidanza fisiologica». Attraverso un sistema Pdi quesiti e raccomandazioni, il documento diviene strumento per «la predisposizione di protocolli operativi dei differenti punti na­scita, oltre che strumento di rife­rimento per la presa in carico e la continuità assistenziale della donna in gravidanza». Il vade­mecum analizza tutto il pianeta maternità: dagli stili di vita al­l’informazione, dal timing delle visite indispensabili per un corretto monitoraggio agli esami cli­nici adeguati per la salute della mamma. Una sezione delle linee guida è espressamente dedicata allo «screening per anomalie strut­turali fetali» e la «diagnosi prena­tale della Sindrome di Down».
L’intento di ridurre l’estensio­ne acritica degli esami pre­natali si traduce però nell’ampliamento della platea dei de­stinatari, come evidenzia Lucio Romano, ginecologo e presiden­te dell’Associazione Scienza & Vi­ta: «L’articolazione delle linee gui­da dà una risposta compiuta e ag­giornata sulle varie tematiche i­nerenti la gravidanza fisiologica. Una particolare attenzione viene rivolta all’informazione della ge­stante, alle indagini di laboratorio e strumentali cui poter accedere e si evidenzia uno speciale im­pegno nella individuazione tempestiva di feti af­fetti dalla Sindrome di Down attraverso un ca­pillare percorso finalizzato alla diagnosi prenatale della sindrome, da offrire a tutte le donne entro la 13ma settimana più 6 giorni di gravidanza». Ciò significa «un’estensione massiva dell’esame a tut­te le gestanti e non più solo per i soggetti a ri­schio, come le donne in età fertile avanzata».
I rischi? «Il dato che preoccupa – continua Ro­mano – è il sottile propagarsi di una cultura eu­genetica selettiva derivante dalla sovradiffusio­ne di screening prenatali. Infatti, come riportato nelle Linee guida, in Danimarca attraverso l’in­troduzione della valutazione del rischio utiliz­zando il 'test combinato', si è dimezzato il numero di nati con sindrome di Down. In al­tri termini, si è raddoppiato il ricorso all’a­borto».
La possibile soluzione è già delineata nel va­demecum ministeriale, ma va correttamente applicata: «Laddove viene garantita la possi­bilità di accedere rapidamente a una consu­lenza con professionisti esperti e con capacità comunicative – conclude Romano – l’auspicio è che non ci si limiti a una mera informazio­ne sulle procedure ma si valuti con la gestan­te il rilievo di una vita umana».
«Avvenire» del 22 dicembre 2010

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