17 dicembre 2010

"Narrazione", l’aria fritta cucinata dalla sinistra

Da Vendola a Luttazzi, da Maltese a Vieni via con me: così una parola molto seria diventa uno slogan del nulla. Ogni discorsino è "racconto collettivo". Basta non fare capire di che si parla
di Massimiliano Parente
Quasi fosse un enorme sedere adiposo in una televendita di vibromassaggiatori si rileva che «la narrazione berlusconiana è piena di smagliature». Così sostiene Nichi Vendola, mentre al contrario, va da sé, «la sinistra è la nuova narrazione del paese». Comunque la pensiate riguardo alle smagliature non so se avete fatto caso: va di moda «la narrazione», narrazione di qua, narrazione di là, narrazione di sopra, narrazione di sotto. Non passa giorno che non ci sia una narrazione da annunciare, da dichiarare, da analizzare, sulla quale riflettere. Esempi tratti dai giornali degli ultimi giorni: «la narrazione dei media», «la narrazione berlusconiana», «la narrazione della società italiana attuale», «Berlusconi comunica col proprio elettorato non facendo ricorso a dati oggettivi reali, ma piuttosto secondo una continua e permanente narrazione», facendo attenzione a «non imporre il proprio discorso e la propria narrazione su quella altrui» (sembra un comandamento, quindi immagino non si debba mai neppure desiderare la narrazione d’altri né rubarla, come ha fatto Gianfranco Fini con il Saint-Exupéry citato da Veltroni).
Non è la narrazione studiata dai formalisti russi, da scomporre in fabula e intreccio, né la narrazione di Gérard Genette, suddivisa in anteriore, ulteriore, simultanea e intercalata, né c’entra il cronotopo di Bachtin ma almeno si potrebbero mandare i nostri politici a ripetizione da Umberto Eco per sapere se questa narrazione sempre nominata sia intradiegetica o extradiegetica, e se il narratore sia esterno, intradiegetico, omodiegetico o onnisciente (l’ultimo si capisce subito, se è onnisciente è Berlusconi). E soprattutto, all’interno della narrazione: opera aperta o opera chiusa? Tanto per togliersi i terribili dubbi che prendono forma nella debole mente degli italiani, come quella di Bersani: «La narrazione di Vendola prende forma di una responsabilità di governo?». Già, e nel caso quale forma? Cosa è la forma? E il contenuto? E intanto, nel mezzo del cammin della nostra narrazione, arriva la mazzata di Luttazzi: «La narrazione del Pd è inadeguata», tenuto conto che Curzio Maltese è perfino più tranchant, perché «i partiti sono la narrazione di un capo», e dunque la narrazione è un partito. Si potrebbe narrare le narrazioni all’infinito, farne un elenco che sarebbe andato benissimo per Vieni via con me, la trasmissione di Fazio e Saviano dove, non dimentichiamo, ha preso forma una bella «narrazione di grandi e piccole storie del paese», nella quale Fini e Bersani «hanno arricchito la narrazione a più voci dell’Italia di oggi». Con molte polemiche per consentire al ministro Maroni di replicare, perché «non c’entra con la narrazione».
Certo, viene da chiedersi, parleranno così anche a casa? Amore, mi hai davvero rotto le narrazioni? Guarda quella che gambe, davvero gran bel pezzo di narrazione? Tesoro, che narrazione c’è oggi da mangiare? Una notte di fuoco, non ti dico che narrazione! A cui magari rispondere: lascia perdere, io preferisco l’autofiction? No, qui sono altre storie, le narrazioni che contano sono appunto in genere «a più voci», dopo i profeti biblici e gli evangelisti ma prima di Saviano ce lo insegnarono già i Wu Ming, gruppo di autori Einaudi produttori di «narrazioni collettive, mitopoiesi, guerriglia comunicativa, psicosfera», nel cui blog discutono con i lettori che a loro volta si interrogano spesso sul tema della narrazione («Cambiare la narrazione, sì: ma dove, come e quando? Di certo non a scuola», infatti a scuola come riforma di sinistra bisognerebbe sostituire il tema e il compito in classe con la «narrazione in classe», almeno questo). Si faccia caso che la narrazione di cui si parla è sempre declinata politicamente: la narrazione del Paese, la narrazione della classe politica, la narrazione della società, con un’accezione positiva se proferita a sinistra, o riferita alla sinistra, e negativa se riferita alla destra.
Sicché la matrice del vizietto, senza scomodare Propp, Genette o Shklowskij, sarà da cercarsi lì nei paraggi, o meglio nella congiunzione di due carriere: quella narrativa e quella politica. Non sarebbe una novità: una certa sinistra culturale ha sempre scambiato la cultura con la politica, teorizzando per decenni che non c’è cultura senza impegno (e di conseguenza non c’è scrittura che non sia racconto collettivo, partecipazione corale), e da lì la narrazione è rigorosamente popolare, morale, civile. Era fisiologico tuttavia che avvenisse presto anche il contrario: se la cultura è politica, la politica è cultura e ogni discorsino sarà chic chiamarlo narrazione, anche per non far capire bene di cosa si sta parlando. Narrazione è una parola bella, che riempie anche se non dice niente. Non per altro i due più illustri rappresentanti sono Walter Veltroni e Nichi Vendola in versione 2.0, il vendolismo come upgrading on the road del vecchio veltronismo, un racconto più cablato, dove al Sudamerica senza Patricio si sostituisce il Sud d’Italia con le pale eoliche, una narrazione bellissima, dotata di «una connessione con il popolo pugliese, parlando della vita e della morte, dell’ambiente, della salute, del lavoro».
Infatti Bersani teme la narrazione di Vendola più delle rottamazioni di Renzi, e un giorno ha sbottato: «La narrazione? Favole» e solo perché è emiliano, fosse stato romano avrebbe detto: la narrazione? Stikazzi.
«Il Giornale» del 17 dicembre 2010

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