16 dicembre 2010

Figli miei, figli nostri non ci cascate

La violenza che incombe. Come un déjà vu
di Marina Corradi
Come in un déjà vu. Il fuoco e il fumo nero. La cortina dei lacrimogeni, gli autoblindo incendiati, le facce coperte dai passamontagna, le spranghe. Fissi con angoscia le immagini di Roma: un film già visto, un brutto film che sembra tornato dal passato, martedì pomeriggio, in piazza del Popolo e non solo.
Sono passati oltre trent’anni. Ma la cronaca da Roma potrebbe essere un filmato anni Settanta: la guerriglia e una rabbia che spacca, sfascia, frantuma, picchia. Chi ha cinquant’anni, ricorda. Anche allora sulle autoblindo c’erano giovani poliziotti, chiamati con disprezzo 'celerini'. A Milano, erano tutti figli di immigrati dal Sud; e tuttavia i 'proletari' erano gli altri, i figli dei borghesi. Io ero molto giovane: rivedo le cariche della polizia, risento l’odore acre dei lacrimogeni che bruciava gli occhi. Un odio che si allargava. Rivedo poi una scena muta: la folla al funerale del commissario Calabresi, lungo corteo nero e silenzioso. L’odio aveva fatto un altro morto a Milano.
Pochi anni dopo, al liceo, gli autoblindo davanti al portone. E c’erano due sole possibilità: o compagni, o fascisti. Non ti davano nemmeno il tempo di scegliere. Figlia di un giornalista del Giornale di Montanelli, io ero naturalmente considerata 'fascista'. I compagni, in quel liceo Parini anni Settanta, alzavano rabbiosi il pugno, ma al polso avevano spesso un Rolex.
E la realtà tutta, sempre, o bianca o nera. Il male, sempre ed esclusivamente da una parte sola – quella degli altri. Se una foto inchiodava un manifestante con la spranga in mano, quello, ovvio, era un provocatore infiltrato. Rivedo l’inquietudine di mio padre, quando si trovò la casa devastata, la Olivetti Lettera 32 per terra. A Montanelli, a Tobagi spararono davvero: l’odio delle parole di certi salotti della Milano bene, si era alla fine condensato in piombo.
Non può essere che quel tempo ritorni, ti dici. Ma allora come è stato, cosa è stato a Roma, come un corteo di studenti ha generato la guerriglia? E leggi di black bloc, di professionisti organizzati ed estranei alla massa pacifica. Poi però nelle cronache dei miei colleghi e di altri cronisti dalla piazza avverti che la distinzione non è così netta; il 'Corriere' scrive che a quelli col passamontagna si sono aggiunti ragazzi diciottenni – come contagiati e sedotti dall’aria stessa di piazza del Popolo. All’assemblea alla Sapienza,a sera, nessuna condanna delle violenze, registra 'Repubblica'. Il cronista de 'Il Fatto' afferma che l’atmosfera in piazza è cambiata nell’istante in cui Berlusconi ha ottenuto la fiducia: cambiata «all’improvviso, come per un ordine preciso», scrive, e ora comandano i 'black book', studenti con un libro di polistirolo come scudo, i volti coperti.
Cosa è stato? Agitatori di mestiere, 'antagonisti' di professione, d’accordo. 'Infiltrati, provocatori', senti dire, e anche questa reazione l’hai sentita, uguale, trent’ anni fa. Ma, e gli altri? La folla che applaudiva al primo indietreggiare della polizia, in piazza del Popolo? Non forse ragazzi come gli altri, figli nostri, che l’altra mattina, magari solo a livello di tacito consenso, hanno perso la memoria del confine tra protesta legittima e violenza?
Quel confine radicale, per qualche ora violato.
Attorno al Parlamento, che non rappresenta Berlusconi, ma gli italiani. Del resto, non è sorprendente che dopo mesi e anni di odio verbale spuntino le spranghe. Non stupisce poi tanto, se in realtà, secondo quanto ha scritto ieri Marco Travaglio, Montecitorio è «il regno dei morti», e la questione martedì non era rovesciare un governo, ma «un regime». Già, la storia insegna che i regimi non si rovesciano con le buone maniere. Occorre il sangue. Ma, davvero questo governo pieno di difetti ma democraticamente eletto è un regime? Oggi come trent’anni fa, le parole hanno un peso grave.
All’apparenza sono solo segni sulla carta, ma poi germinano, producono, deflagrano. È un film già visto, un brutto film di paura e di morti. Che i nostri figli non ci credano, che non ci caschino, come i padri – nelle foto di allora in piazza con i caschi, e le spranghe. E poi, un giorno, con le pistole.
«Avvenire» del 16 dicembre 2010

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