06 novembre 2010

Ma quale legge 40, meglio il Far West. E gli affari

Risuona periodicamente la grancassa ideologica
di Assuntina Morresi
Ha ripreso fiato la grancassa ideologica contro la legge 40, che regola la procreazione assistita: ancora i soliti slogan e quei luoghi comuni duri a morire, che non rendono conto dell’impatto della legge e dei suoi risultati, ma ne danno una percezione distorta e negativa che non ha ragion d’essere.
I fatti recenti sono noti: due tribunali civili hanno chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità del divieto di fecondazione eterologa, cioè sul divieto di utilizzare in vitro gameti esterni alla coppia che poi crescerà il bambino. È subito partito il coro mediatico con il primo ritornello: i giudici stanno smontando pezzo dopo pezzo la legge 40.
Falso: la Consulta, già chiamata a pronunciarsi sulla legge, l’ha lasciata sostanzialmente intatta, e sulle due richieste recenti si deve ancora esprimere.
Ad oggi valgono i divieti di soppressione e di crioconservazione degli embrioni, che devono continuare ad essere creati in numero «strettamente necessario», un numero che, dopo la sentenza della Corte, deve essere stabilito, caso per caso, dal medico, e che non ha più il valore massimo di tre fissato nel testo originale.
È invariato l’accesso alle tecniche di fecondazione in vitro, riservato solo alle coppie infertili, e non a quelle portatrici di malattie genetiche: la legge 40 è pensata per dare alle coppie infertili pari opportunità rispetto a quelle fertili, e non per scegliere gli embrioni "migliori", i sani, e scartare quelli "peggiori", i malati. Vale ancora il divieto di selezione eugenetica degli embrioni: le poche sentenze "creative" di alcuni tribunali civili che ne hanno consentito la diagnosi preimpianto riguardano solo le coppie che a quei giudici si sono rivolte, e non hanno certo modificato il testo di legge.
Il secondo ritornello dei detrattori della 40 ripete, invece, che le coppie italiane ne sono state danneggiate: sarebbero diminuiti i nati, è stata messo a rischio la salute delle donne, e c’è il "turismo procreativo".
Ma non è così. Innanzitutto, solo con la legge 40 è stata istituita una raccolta dati obbligatoria, con un registro a cui i centri di procreazione assistita comunicano la loro attività: coppie trattate, embrioni formati, bambini nati. I dati prima della legge coprivano un numero limitato di centri, che li fornivano su base volontaria: non ci sono quindi i numeri per un paragone diretto prima e dopo la 40, a livello nazionale.
Il registro, invece, ci dice che negli anni di applicazione della legge sono aumentate le coppie trattate e i bambini nati; che è crollato il numero delle complicanze da sindrome da iperstimolazione ovarica e che le gravidanze trigemine dipendono da come la 40 viene applicata: in diversi centri la loro media è molto inferiore a quella europea, mentre in altri è in percentuali inaccettabili. C’è da aggiungere che nei Paesi dove le trigemine sono meno che da noi, si pratica la riduzione embrionaria, cioè un aborto precoce e selettivo. Il divieto di eterologa ci ha poi messo al riparo dal commercio degli ovociti, che colpisce le donne più fragili, quelle giovani o povere: un problema grave, oggetto pure di una risoluzione del parlamento europeo che ha cercato, inutilmente, di arginare il fenomeno.
Per quanto riguarda il turismo riproduttivo, bisognerebbe verificare eventuali collegamenti economici fra cliniche italiane e straniere. Va poi ricordato che il flusso maggiore c’è dagli Usa, dove tutto è permesso, all’India, dove tutto costa meno. Da ultimo, visto che questo "turismo" esiste sempre nel momento in cui si pone un divieto, per risolvere il problema basta eliminare ogni legge, e lasciare i centri di fecondazione assistita liberi di fare quel che ritengono più utile. Ma allora lo si dica chiaramente: altro che modificare la 40. La si vorrebbe abolire, per tornare alla deregulation di prima, e che decida il mercato: è questa la posta in gioco, il vero obiettivo della battaglia.
«Avvenire» del 28 ottobre 2010

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