24 novembre 2010

Gli adoratori del verbo

di Tim Parks
Siamo fin troppo abituati a sentire gli scrittori lodare la parola: «Sì, la lingua è sempre stata la mia passione; ogni frase dev'essere limata alla perfezione». Troppo abituati anche a sentir parlare del potere positivo della letteratura: «Magari avesse letto qualche romanzo serio, almeno il tradimento del marito non sarebbe stato così traumatico». E addirittura della sua importanza politica: «Se gli israeliani leggessero i romanzi dei palestinesi e viceversa – sostiene Amos Oz – si potrebbe abbassare il livello della tensione».
«Se gli americani traducessero di più – crede la traduttrice Edith Grossman – la politica estera statunitense sarebbe più comprensiva». «La camorra si può sconfiggere – insiste Saviano – con la parola!». E poi, come dimenticarlo, proprio al cuore della nostra religione c'è l'annuncio perentorio e assieme bizzarro «In principio era il verbo», quasi che quanto sta al di fuori della lingua fosse secondario e insignificante.
E se invece parola, lingua e letteratura stessero più dalla parte del problema che non della soluzione?
Riflettiamo. Inventate, inesistenti nel mondo naturale, le parole ci riempiono le orecchie non appena usciamo dal grembo materno. La testa piena, cominciamo a ripeterle. I suoni giusti nelle sequenze giuste fanno sì che otteniamo quello che vogliamo. Ben presto queste formule ci sembrano naturali quanto il respiro. Il famoso flusso di coscienza non è altro che un flusso di parole.
Abbiamo appena imparato a camminare, ed ecco che ci mettono un libro tra le mani. I suoni sono diventati segni. Dobbiamo leggerli silenziosamente, sottratti ormai dagli scambi di cibo e di affetto, rimossi dal contesto immediato. Sola, appartata, la mente pullula di parole che non hanno nessuna esistenza materiale.
Leggendo in silenzio impariamo a muoverci in un sistema a parte. L'abitudine ci è congeniale? Le parole accelerano. L'occhio corre in avanti. La pagina gira ancor prima che abbiamo digerito le ultime righe di quella precedente. Le altre percezioni – il rumore di una tosatrice, i profumi della cucina – vengono smorzate, allontanate. Il mondo concreto viene meno. La macchina vorticosa delle parole si solleva dalle pesanti superfici del suolo, del cemento, della pelle. Mente e corpo si separano.
È qui che comincia il danno. La "creatività" è complice. Se tutto ciò che vediamo nel mondo ha una sua parola, un suo nome, si possono anche inventare parole per le cose che non vediamo: angeli, anime, spiriti, fantasmi, dio, paradiso; questa dimensione esiste, nelle parole.
Uno dei termini che abbiamo inventato è "io". Senza sosta, nella testa, adoperando le parole che ci hanno insegnato, fabbrichiamo un'entità che chiamiamo "io"; è una creatura con passato e futuro, proprio come le frasi e i racconti che leggiamo e scriviamo hanno tutti un inizio e una fine. Per rassicurarci sulla sua esistenza abbiamo inventato un'altra parola, identità. E un'altra, carattere, e un'altra ancora, personalità. Quante più parole ci sono per descriverlo, tanto più esso esiste.
L'io è una storia che si riversa dalla mente in un flusso di parole governate da precise regole grammaticali.
C'è chi sfrutta questa situazione per inventare racconti, romanzi, scrivendo migliaia e migliaia di segni silenziosi, imitando il modo in cui le persone inventano la propria vita. Così la narrativa scritta è intimamente legata alla costruzione dell'io di ogni lettore. Più pensiamo alla vita come narrativa, più intrecciamo la nostra trama, più siamo sicuri di essere... io.
Necessariamente la società preferisce quei libri che non interferiscono con le sacre regole dalle quali dipende la nostra identità, quegli scrittori che trattano la sintassi e il lessico standard come se fossero naturali e inevitabili, quasi che il cervello fosse composto di parole fin dalla nascita, parole italiane manco a dirlo.
«Jim» chiede Huckleberry Finn «mettiamo che un uomo ti venisse incontro e dicesse Polly-voo-franzy, tu che penseresti?». «Non penserei a nulla Huck; gli darei una botta in testa e basta».
Le lingue straniere ci turbano, ci fanno ricordare quanto le nostre costruzioni mentali siano arbitrarie. Meglio tradurle subito e far finta che dicano solo cose che si dicono benissimo anche in italiano.
Ma il silenzio è ancora peggio. Quando cerchiamo di immaginare la coscienza senza le parole, quando pensiamo a un giorno, anche solo a un'ora senza parole in testa, siamo sopraffatti da un senso di vertigine. L'io viene meno. Come quando pensiamo alla morte.
Così un chiacchiericcio di libri ci torna comodo. Rafforza l'io, che è indirizzato a quel paradiso che abbiamo inventato proprio per lui, con le parole.
Ma, ahimè, di tanto in tanto deve pur succedere: qualche guastafeste non si accontenta più della parola. Le parole non dicono più quello che lui, in qualche profondità mentale priva di parole, crede di sentire. Le parole non corrispondono alla verità, per lui. Uno scrittore che si trovi in questa difficoltà comincerà a sconvolgere le sacre sequenze sulle quali è costruito il nostro sistema linguistico. A un certo punto del suo romanzo Watt, Beckett inizia a invertire l'ordine delle lettere nella parola, delle parole nella frase, delle frasi nel paragrafo.
«Otal a otal, inimou eud. Onroig li ottut, etton alled etrap».
È pericoloso fare cose del genere. D'un tratto siamo messi davanti alla precarietà del nostro pensiero, delle nostre idee. Nella mappa fatta di parole abbiamo compiuto progressi impressionanti; ma, ahimè, una mappa non è il territorio.
Perché uno scrittore farebbe una cosa tanto antipatica? Non dovrebbe avere un tornaconto personale nella buona reputazione della parola?
Spesso è una questione di salute. Lavorando sempre con le parole, è possibile che lo scrittore cominci a sentirsene oppresso; non da una parola in particolare, ma dal movimento coatto e costante delle parole nella mente. Inizia a sospettare che, per quanto bravo, non è lui a manipolare la parola, ma viceversa è la parola a manipolare lui.
«Off it goes on» dice l'Innominabile di Beckett. «Ecco che riparte ancora», automaticamente.
Magari c'è qualcosa che non riusciamo a decidere. Le parole si organizzano in voci e litigano tra loro. A nostro dispetto. Diventa sempre più difficile sostenere la fantasia di un io coerente. Ecco la letteratura di Gadda, o di Bernhard. Adesso vorremmo che le parole si fermassero.
«Signore, son turbato» dice Prospero di Shakespeare. «Sopporti la mia debolezza; ho il cervello agitato
...un po' camminerò.
Per fermarmi la mente che batte».
Che cosa mai batteva nella mente di Prospero e di Shakespeare, se non le parole? Arrivato, dopo tutte le commedie e le tragedie, a La tempesta, ne aveva avuto abbastanza. A soli 47 anni.
Turbato da parole «che mi torturavano», il poeta Coleridge si avventurava in arrampicate da suicidio. Inventò lo sport delle scalate "ricreative" proprio per aiutarsi a eliminare pensieri e parole dalla testa. «Pensiero e sensazione, mente e corpo» si erano scissi l'uno dall'altro, lamenta Coleridge. Andava in cerca di un momento di terrore o di sublimità nel quale la mente si sarebbe svuotata delle parole. L'ineffabile è soprattutto il superamento dell'io.
Torniamo al nostro primo paragrafo e invertiamo: la camorra creata anche con le parole, la politica degli Stati Uniti sospinta proprio dalla presunzione della lingua inglese, la questione israelo-palestinese un'incomprensione anche linguistica, il trauma di un tradimento intensificato semmai dalle letture romanzesche, e tutto quell'ammirare e limare le belle frasi degli scrittori appassionati alla lingua nient'altro che un'esasperata vanità.
La parola in sé è stata lodata troppo. Gli scrittori che più ci convincono sono quelli che sanno, con Beckett, che ogni scrivere è rubato al silenzio.
«Il Sole 24 Ore» del 15 novembre 2010

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