02 ottobre 2010

Cosa pubblica

La rilettura della filosofia di Hannah Arendt da parte dello studioso Miguel Abensour consente di mettere a fuoco una visione dell'agire politico che non ha lo scopo di edificare una «buona società», ma l'affermazione della libertà dei singoli
di Mario Pezzella
Ricostruendo il suo cammino intellettuale, nell'ultimo libro Pour une Philosophie politique critique, Abensour ricorda quanto decisivo sia stato il suo confronto con l'opera di Hannah Arendt: «Dovevo approfondire la questione così nuova della natalità, prendere le misure dell'antiplatonismo della Arendt e valutare ciò che significava il gesto, a prima vista sconcertante, che consisteva nell'andare a cercare la filosofia politica di Kant nella Critica del giudizio».
Abensour aveva negli Settanta approvato la rinascita della «filosofia politica», come antidoto a una concezione sociologica o economicista dell'azione storica; successivamente, egli non ha condiviso la sua trasformazione in disciplina accademica e il tentativo di giustificare la concezione liberale e parlamentare della democrazia come l'unica pensabile e possibile. Lo studio della Arendt gli permette di elaborare il suo pensiero, di giungere prima a una «critica della filosofia politica», e poi - in positivo - a una filosofia politica critica. La Arendt, così riletta da Abensour, appare come la pensatrice di una moltitudine insorgente e radicale, critica verso ogni forma di democrazia formale e spettacolare, pronta a opporre il suo momento istituente e creativo a quello inerte e costituito dello Stato.

Dentro la caverna di Platone
In questa prospettiva, il termine stesso di «filosofia politica» è paradossale, quasi un tentativo di unire due concetti di per sé contraddittori. Filosofia e politica non appartengono piuttosto a tradizioni differenti e alternative? Secondo la Arendt «la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine». La Arendt, come è noto, amava definirsi uno «scrittore politico», nella linea di Machiavelli, Montesquieu e Tocqueville: questi avrebbero esaltato l'elemento irriducibile della pluralità, del conflitto e della moltitudine nella storia, mentre i filosofi avrebbero piuttosto cercato di ricondurre i molti all'Uno, la contraddizione alla quiete, il molteplice a una codificazione istituita e immutabile.
Questa critica è ben visibile - secondo Abensour - nell'analisi dedicata dalla Arendt al mito della caverna di Platone, che è insieme una ripresa e una critica della lettura heideggeriana del noto testo della Repubblica. Gli uomini incatenati nella caverna danno un'immagine totalmente negativa della vita pubblica e della polis; ad essi il filosofo, illuminato dalla visione delle Idee, dovrebbe portare ordinamento e armonia. Ma il tentativo non finisce troppo bene, secondo la Arendt: perché in realtà i disgraziati e recalcitranti cittadini proprio non ne vogliono sapere di essere illuminati dall'alto di un'autorità estranea e non condivisa. Come già aveva scritto Heidegger, è perfino prevedibile una lotta mortale tra il «liberatore» e i prigionieri che non vogliono saperne di essere liberati.

Il potere della polis
L'immagine della caverna e dei prigionieri suppone dunque un'immagine negativa dell'agire politico, a cui il filosofo vuole opporsi ed imporsi, per affermare contro un simile caos l'unità e l'autorità regolatrice. Una visione dell'essere-in-comune totalmente negativa, un'ostilità alla polis, concepita come luogo di disordine e iniquità, inducono il filosofo ad imporre dall'esterno un argine al dilagare della corruzione e della morte; come se la città e l'agire dei cittadini fossero irrimediabilmente condannati all'ignoranza e all'impotenza. Questa visione negativa della politica spinge Platone a modificare addirittura la sua teoria delle idee nella Repubblica: più che oggetto di visione contemplativa, esse divengono istanze normative, in base a cui dev'essere ordinata la vita della città.
L'azione politica ha la potenza di inserire nell'essere la discontinuità salvatrice, il balenio di un possibile che prima non era, e che essa estrae alla luce del significato. L'essere-per-la nascita affiora soprattutto nel tempo sospeso di una cesura storica, nell'intervallo che segna la discontinuità tra un'epoca e l'altra, quando come diceva Walter Benjamin, la dialettica degli eventi resta «in bilico».
Nella breccia che si apre tra un ordine in declino e un possibile ignoto, che ancora non si è solidificato e alienato in un nuovo regime, si apre il tempo dell'azione politica vera, inaugurale e iniziale. L'azione politica introduce il nuovo e il possibile nella ripetizione sempre uguale del tempo e rompe la catena del destino e della necessità. Tra l'essere-per-la-nascita e l'essere-per-la-morte vi è dunque la stessa differenza che passa tra le modalità del possibile e del necessario: «Una denota l'ingresso nella possibilità, l'altra ne segna l'estinzione». La nascita è per la Arendt potenza originante, da cui scaturisce l'azione politica come affermazione di un inizio.
Ma come è possibile che l'azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini, si diano durata e resistano alla tentazione di creare un ordine altrettanto stabile e alienato del precedente? La Arendt trova sostegno in un pensatore, che pur non avendo mai scritto una vera e propria «filosofia politica», ha concepito una innovativa teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera in apparenza più lontana dalla politica, La critica del giudizio. Il senso comune è pensato come «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, e rivela la volontà degli uomini di creare un mondo in cui ogni singolarità venga riconosciuta nella sua differenza specifica; essi realizzano così il desiderio di persuadersi l'uno con l'altro e l'aspirazione a giudizi universali e condivisi. La Arendt estende il significato del giudizio di gusto kantiano all'ambito del giudizio politico: «Ogni giudizio, ma anche ogni azione, dovrebbe rispondere a questa esigenza originaria di comunicazione universale, dandosi come obiettivo di far passare nell'effettività, sotto forma di legge tale idea di umanità, rinviando a un contratto originario. La comunicazione non è un dato dell'esperienza. Ogni giudizio di gusto è attraversato, lavorato da questo contratto originario e dall'esigenza di comunicabilità universale che esso comporta».

I diritti contro la legge
Interpretando in tal modo la Arendt, Abensour si ricollega alle origini del giacobinismo rivoluzionario francese (a Saint-Just è dedicato un suo saggio politico importante, che introduce le opere complete). Saint-Just considerava l'istituzione repubblicana come il braciere destinato a conservare il fervore costituente della rivoluzione, evitando che esso si spenga nella morta cenere della legge, nella sua tendenza a trasfigurare l'attività legiferante in potere costituito e immutabile: «L'istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione, che possiede di per sé una potenza stimolante, tale da far nascere, da generare costumi o piuttosto attitudini e comportamenti, che vadano nel senso dell'emancipazione, da essa annunciata. In questo senso l'istituzione, "sistema di anticipazione" come dice Gilles Deleuze, si oppone alla legge, nella misura in cui essa contiene un appello - appello di una libertà ad altre libertà -, che la differenzia radicalmente dal vincolo caratteristico della legge».
Come evitare il passaggio dal gioco reciproco del senso comune, gestazione della volontà generale dei cittadini, a un nuovo regime statico-inerte, fondato sulla violenza e il terrore? Il senso comune è il principio a priori della decisione politica democratica, che si oppone al principio autoritario fondato sulla sottomissione e sulla asimmetria dei rapporti di padronanza. Per praticarlo occore tuttavia la desueta virtù del coraggio civico: se la vita sotto il dominio si limita «alla ripetizione della vita e al suo ciclo ripetitivo», l'azione politica espone nello spazio pubblico dell'apparire, in cui, coem sostiene Hannah Arendt, «ogni cosa ed ogni uomo si espongono alla vista altrui».
Tal eroismo non ha però nulla di sacrificale o di romantico, e in particolare di differenzia da quello evocato da Heidegger in Essere e tempo. Non è la risposta all'appello sovrumano del destino, ma il coraggio civico che si applica a criticare ogni regime che voglia porsi come fatalità inviata da un dio. Solo la mancanza di un dio e dei suoi «eletti» presunti può salvarci, nell'ambito politico. L'eroismo si condensa qui nella singolarità del dissenso di fronte a una legge, statuita deprivando e ingannando il «senso comune» dei cittadini, eludendo l'arena della persuasione e della comunicazione. Contro le decisioni occulte delle elites combatte la «democrazia insorgente», come la chiama Abensour, che riattiva incessantemente il conflitto dei diritti contro le leggi, il disaccordo tra la realizzazione del principio di eguaglianza e la sua restrizione a una parte sola dei cittadini. Le istituzioni che possono dar forma a tale insorgenza, sono quelle consiliari e comunaliste, che la Arendt ha descritto - nella loro possibile efficacia pragmatica oltre che nel loro orientamento utopico - nel libro Sulla Rivoluzione.

La natura del conflitto
Alla filosofia politica fondata su principi primi e sul dominio dell'Uno, la Arendt oppone il pensiero ampliato di Kant, più un processo e un metodo che una determinazione di contenuti: esso esprime il continuo tentativo di accordare i nostri giudizi a quelli degli altri, senza poter sapere se avremo successo e quale risultato finale emergerà dal confronto. Il pensiero ampliato si costituisce come intelletto collettivo, intessuto dai cittadini, nel movimento continuo della comunicazione e della persuasione, nel dissenso contro le leggi che tendono a bloccare tale attività, nell'apertura ripetuta del tempo storico, che non si appaga di alcuna soluzione definitiva.
Il senso comune non mira a una «società buona» che concluda armonicamente (e tirannicamente) la storia, ma ad una accettazione del conflitto e della disunione e al loro riassorbimento in «giudizi politici» condivisi e contingenti. Paradossalmente, solo l'accettazione e il dispiegamento del conflitto può affermare il bene «comune» ed evitare che esso, divenendo di fatto particolare, ed espressione di una parte sola, degeneri in una guerra distruttiva e autodistruttiva. L'azione politica resta esposta a una contingenza radicale, pur guidata da una potenza trascendentale e utopica: «L'idea del senso comune o il senso comune come idea, richiama precisamente a qualcosa che non è dell'ordine dell'esperienza, pur abitandola come il trascendentale, in cui soltanto l'esperienza e il pensiero che la costituisce possono trovare il loro luogo fondativo (...) Il trascendentale è presente in seno all'empirico come rappresentazione di un altrove, senza il cui riferimento l'empirico non reggerebbe, l'esperienza perderebbe il suo principio di orientamento». Se non è possibile dedurre il contenuto della decisione da un principio generale e astratto, è però opportuno lasciarsi guidare da una unità di misura (la relazione simmetrica tra uguali) e dal «pensiero ampliato», che esalta il confronto delle opinioni e critica ogni forma di asservimento.
«Il Manifesto» del 1 ottobre 2010

Nessun commento: